Sergio Romano, Atlante delle crisi mondiali, Rizzoli, Milano 2018, pp.

di Patrizia Fazzi

L’ultimo volume di Sergio Romano, dal titolo Atlante delle crisi mondiali, si presenta come una mappa delle principali crisi geo-politiche del mondo contemporaneo, ognuna delle quali ricostruita facendo riferimento alla sua specifica logica, alla sua originalità o assurdità, come si legge in apertura alla prefazione.

Il testo si articola in cinque capitoli in cui si delineano le principali coordinate del “grande disordine mondiale”: un pulviscolo di conflitti, un groviglio di guerre civili e guerre ai civili, di lotte di liberazione e terrorismo, divenuti fenomeni endemici della storia del tempo presente. E nel confronto con gli eventi più recenti, situati in una prospettiva storica, lo scenario risulta alquanto complesso: dalla guerra siriana al terrorismo alimentato dall’Islam radicale, dall’irrisolta questione israelo-palestinese alla minaccia nucleare della Corea del Nord, dalle crisi in Medio Oriente e Nord Africa ai movimenti che oggi sono definiti “populisti”, dal difficile cammino verso l’integrazione europea al nuovo mercato dei migranti, solo per citare le direttrici principali che innervano la contemporaneità.

L’Atlante delle crisi mondiali, un lavoro di sintesi di facile lettura, prende le mosse dal secondo dopoguerra, quando le due principali potenze, gli Usa e l’Urss, si fronteggiarono in modo alquanto diverso rispetto alle guerre combattute in scontri diretti, ossia con la propaganda, l’embargo economico e l’eversione ideologica.

La Guerra fredda, che ebbe comunque le sue vittime, rappresentò una garanzia di stabilità e di equilibrio più o meno accettato, o quantomeno le due principali potenze dei blocchi contrapposti, grazie all’esistenza di armamenti nucleari sempre più potenti, erano consapevoli “degli imprevedibili effetti che una guerra avrebbe avuto sulla loro sorte e su quella del mondo”1. Vi erano ideologie in cui milioni di persone riponevano la loro fiducia, pur con un’ampia gamma di sfaccettature e orientamenti. E il Novecento è stato il secolo delle ideologie: “comunismo, socialismo, nazionalismo, imperialismo, colonialismo, fascismo, cristianesimo democratico, democrazia liberale, dittatura del proletariato, terza via; ciascuna con la propria teoria economica sul miglior modo per garantire benessere al maggior numero possibile di fedeli”2.

L’autore aggiunge poi l’ideologia nata dopo la fine della seconda guerra mondiale: l’atlantismo, fondato sulla convinzione che le democrazie europee e gli Stati Uniti fossero legati dalla condivisione di valori umani, tradizioni culturali e interessi comuni. Questa ideologia ha finito spesso per coincidere con l’egemonia americana ed è stata usata per giustificare le guerre combattute dagli Stati Uniti, con il palese o indiretto coinvolgimento degli alleati europei. E queste guerre, quasi sempre inutili dal punto di vista politico, hanno contribuito a rendere il mondo ancora più pericolosamente instabile3.

Alla Guerra fredda, conclusasi con la caduta del Muro di Berlino, l’implosione dei regimi comunisti e dell’Unione sovietica stessa, Sergio Romano dedica non solo la prima parte del volume, ma diviene essa stessa l’argomento portante dell’intero saggio, in cui predomina una narrazione storica a tratti di lungo periodo e con rivisitazioni che permettono di fare chiarezza sulla complessità dei contesti analizzati.

Nelle parti centrali dell’Atlante si intrecciano le crisi del Medio Oriente, analizzate a partire dalla spartizione dell’Impero ottomano fra le maggiori potenze vincitrici della Grande guerra: un condominio definito “ineguale e zoppicante” durato sino al secondo conflitto mondiale, quando il declino delle grandi potenze e la nascita di nuovi nazionalismi in Africa settentrionale e nel Levante costrinsero gli Stati europei ad abbandonare l’area. L’autore entra nel merito del fallimento dei processi di modernizzazione dei vecchi protettorati e delle ex colonie, in una combinazione di fattori in cui prevalgono malgoverno, corruzione della classe dirigente e nazionalismi frustrati, declinati in ogni singolo contesto.

Nel “grande disordine” mediorientale trova spazio, oltre all’annosa questione di Israele e della Palestina, la guerra siriana, uno dei tanti casi di eclisse delle guerre simmetriche, in cui si combattono tre guerre contemporaneamente: la prima tra il regime di Bashar al-Assad e i ribelli, la seconda di matrice religiosa, mentre la terza vede il coinvolgimento delle maggiori potenze, in una sorta di mondializzazione dei conflitti locali. Da una parte, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, schierati a fianco degli insorti contro il regime di Bashar al-Assad, dall’altra, la Russia in stretto rapporto con l’Iran e la Turchia: una Triplice intesa posizionata al timone delle discussioni riguardanti il futuro dell’area.

Percorsi storici e riflessioni sugli eventi più recenti si intrecciano nell’affrontare la crisi coreana, l’ascesa delle “tigri asiatiche”, la politica internazionale della Cina, degli Stati Uniti e della Russia nello scacchiere geopolitico mondiale, nel tentativo di ricostruirne i processi nella loro globalità.

Particolarmente significativo risulta l’ultimo capitolo del saggio, dedicato all’Europa dentro e fuori l’Unione. È una lettura del presente alla luce del passato, ricca di esperienze dirette a seguito della lunga carriera diplomatica dell’autore.

Si traccia, in una visione d’insieme a maglie larghe, il tortuoso percorso che ha portato alla nascita di un’Europa unita, un progetto che non si sarebbe potuto realizzare se non fosse cresciuto in un contesto già predisposto a vedere nel continente un’entità distinta da alcuni caratteri politici e culturali unitari. Fra le nazioni europee si sono combattute guerre “intestine” e non sorprendono le voci di coloro che considerano “fratricide” le guerre tra europei.

Ma è soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, quando i popoli europei si interrogarono sulla crescente irrilevanza dei loro Stati, che si fa strada l’utilità di un progetto comune, per avvalorare il quale l’autore si sofferma sulle personalità di spicco che, spesso reagendo a conflitti recenti, hanno lavorato alla creazione di una unione degli Stati europei.

Iniziato con la costituzione della Cee, il primo comitato economico europeo istituito mediante il trattato di Roma del 1957, il processo di integrazione è proseguito con la firma del trattato di Maastricht, a cui hanno fatto seguito i trattati di Amsterdam, di Nizza e di Lisbona: un cantiere aperto dove si lavora continuamente per costruire e anche, purtroppo per distruggere. Le crisi hanno tuttavia il grande vantaggio di chiarire i termini della questione, di individuare meglio i nemici dell’Unione europea, che l’autore individua nei movimenti populisti, negli ex satelliti dell’Urss e soprattutto nella massa di coloro i quali credono nell’esistenza di una via nazionale alla soluzione delle crisi economiche e sociali.

Tra queste ultime non poteva mancare l’analisi dei recenti flussi migratori, iniziati con il difficile decollo dei nuovi Stati africani nati dalla decolonizzazione. E tanto maggiore è il numero dei Paesi in cui il governo è troppo corrotto e inetto per garantire una vita decorosa ai propri cittadini, tanto maggiore, per gli abitanti, è il desiderio di trovare riparo in un altro Paese4. Per fare chiarezza su questo fenomeno complesso, l’autore costruisce una mappa geopolitica delle crisi soffermandosi sull’intreccio dei fattori interni ed esterni che le hanno determinate, poiché dietro ogni migrazione di massa vi sono fenomeni politici e sociali, crisi economiche, guerre e conflitti civili, rivoluzioni, epidemie.

Non mancano le pungenti critiche al “mercato dell’esodo” che si è progressivamente esteso e che vede i nuovi mercanti di schiavi lucrare sul destino di chi aspira a condizioni di vita più dignitose. E per la difficile, ma quanto mai necessaria, risoluzione di questo problema, che inevitabilmente richiede un approccio comune, l’autore auspica la collaborazione anche di quei Paesi in cui il rispetto dei diritti umani non è la principale preoccupazione delle autorità nazionali.

Concludono il saggio alcuni racconti di viaggio in Europa, quando tutto ricordava la guerra. “A Vienna, nel 1949, il Teatro dell’Opera, distrutto durante la conquista della città, era stato appena ricostruito. A Londra la stoffa dei cappotti era razionata e la carne di balena si comprava nei negozi di pesce con i tagliandi della carta annonaria. A Berlino, nel 1951, i mattoni recuperati dalle macerie e diligentemente numerati costeggiavano i grandi viali e attendevano di essere usati per la ricostruzione.

Nel 1952, a Salisburgo, dove l’Università di Harvard aveva aperto un seminario di studi americani, la sede […] sorgeva a breve distanza da un campo di displaced persons: persone senza fissa dimora che la guerra aveva gettato sulle strade d’Europa. A Monaco di Baviera, nello stesso anno, le case nel centro della città avevano soltanto il pianterreno; il resto era andato in fumo”5.

Durante questi viaggi l’autore capì che in Europa non esistevano vinti e vincitori, ma soltanto, anche se in misura diversa, Paesi sconfitti. E fu allora che scoprì che il suo “antico patriottismo italiano si stava trasformando in patriottismo europeo”6.

1 Romano S., Atlante delle crisi mondiali, Rizzoli, Milano 2018, p. 9.

2 Op cit., p. 10.

3 Cfr. op. cit., p. 13.

4 Cfr. op. cit., p. 229.

5 Op. cit. pp. 265-266.

6 Op. cit. p. 266.