Teodorico Bonacci ministro della Giustizia

di Donato D’Urso

La passione patriottica

La famiglia Bonacci era originaria di Recanati e nella casa nei pressi di palazzo Mazzagalli abitò il farmacista Giovanni Bonacci, dal cui matrimonio con Marianna Nuti nacquero: Gratiliano professore di eloquenza e autore di un trattato di estetica, Fausto ecclesiastico, Filippo magistrato1.

Quest’ultimo, sposato con Anna Patriossi e padre di Teodorico, durante gli avvenimenti del 1848 si comportò come liberale moderato e fu eletto al Consiglio dei Deputati per il collegio di Fano. Quell’organo rappresentativo nacque dal primo, timido tentativo di riforma costituzionale dello stato del Papa ed ebbe un corpo elettorale basato prevalentemente sul censo (amministratori comunali, proprietari di stabilimenti industriali, professori universitari, maggiori contribuenti, ecc). Durò poco perché venne travolto dall’affermazione della Repubblica Romana. Dopo la restaurazione papale Filippo Bonacci, destituito dalla magistratura, si dedicò all’attività forense ma nel 1860 il governo piemontese e poi italiano, in riconoscimento dei suoi meriti patriottici, lo reintegrò nei ruoli giudiziari. Di conseguenza, esercitò le funzioni al Tribunale di Ancona, alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Casale Monferrato, alla Corte di Cassazione di Torino. Nel dicembre 1869 (X legislatura) Filippo Bonacci fu eletto deputato di Recanati ma venne escluso, a seguito del sorteggio previsto dalla legge in caso di numero eccessivo di magistrati eletti (quanta saggezza nei nostri avi!). Alla fine del 1870 fu nominato senatore del Regno ma morì già nel 18722.

Il figlio Teodorico, nato a Jesi il 30 giugno 1838, seguì negli studi le orme paterne frequentando alla Sapienza i corsi di iuris canonici et civilis e visse in pieno le agitazioni politiche del biennio 1859-1860. A quel tempo la vita degli studenti era assai poco libera e segnata soprattutto da divieti, a Roma e altrove3, compresa la proibizione di fumare e portare bastoni e ombrelli all’interno dell’università4. Allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza le agitazioni studentesche divennero frenetiche e quasi incontrollabili. Apparvero ovunque cartelli con la data “1859” disposta in verticale, così da dare per totale VENTITRE, iniziali di “Vittorio Emanuele Napoleone Terzo Italia Tutta Ricongiunta Eternamente”. I giovani, incontrandosi negli austeri ambienti accademici, si chiedevano reciprocamente: “Piove?” dando la risposta: “Non piove”. La domanda significava: “Pio o Vittorio Emanuele?” e la risposta: “Non Pio, Vittorio Emanuele”. Una mattina gli studenti liberali liberarono volatili recanti nastri tricolori, un’altra volta, quando i fedeli al Papa redassero un indirizzo di devozione, Teodorico Bonacci “ne fece un allegro falò nel cortile della Sapienza. Temendo di essere arrestato, rimase fuggiasco per alcuni giorni” (De Cesare 1975, 332)5. L’anno dopo i marchigiani cessarono di essere sudditi pontifici e per la famiglia Bonacci arrivò la tranquillità, ma non del tutto perché nel 1866 Teodorico s’arruolò volontario con Garibaldi e partecipò alla guerra contro gli Austriaci combattendo a Monte Suello.

La professione e l’impegno politico

Dopo la laurea in legge cominciò ad esercitare l’avvocatura ad Ancona, poi entrò nello studio del prestigioso giureconsulto Pasquale Stanislao Mancini e quella fu la svolta della sua vita (Il nuovo Palmaverde… 1870, 748). L’impegno professionale era prevalentemente rivolto alle controversie civili e commerciali, compresa la dibattuta questione della demanializzazione dei beni della Santa Casa di Loreto che avevano un rilevante valore economico e originarono un lungo contenzioso tra Chiesa e Stato (Piccinini 2003). Un’altra causa famosa seguita dallo studio Mancini fu quella di annullamento del matrimonio tra Garibaldi e la contessina Raimondi: il carteggio conservato presso il Museo centrale del Risorgimento di Roma rivela il ruolo non secondario svolto da Bonacci sino alla felice conclusione (sul tema cfr. Mulinacci 1978; Scirocco 2001).

La frequentazione con casa Mancini produsse anche un imeneo. Il famoso giurista irpino aveva sposato la conterranea Laura Beatrice Oliva, donna di notevole caratura intellettuale che dovette sopportare dodici gravidanze e morì a soli 48 anni6. La loro figlia Rosa, giudicata assai gracile e delicata di salute, fu impalmata da Teodorico e, superando per sua buona sorte ogni scettica previsione, mise al mondo sette figli morendo vedova nel 1911. Dall’unione nacquero Filippo, Giuliano, Attilio, Elena, Lidia, Lavinia, Anna. Il primogenito Filippo fu il continuatore nella famiglia della tradizione forense, Giuliano entrò nel giornalismo e fu inviato del “Corriere della Sera”7, Anna fu apprezzata scrittrice (Ossani, Mattioli 2003)8.

Quando, nel marzo 1876, cadde l’ultimo governo della Destra storica, Mancini divenne ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti e dovette influenzare l’ambizione del genero di entrare in politica dalla porta principale come deputato di Recanati (dove a suo tempo era stato eletto il padre Filippo), ma la candidatura non ebbe successo nonostante i buoni uffici del ministro dell’Interno Nicotera9. Andò meglio nell’elezione suppletiva svoltasi nel collegio di Jesi nel gennaio 1877 e Teodorico Bonacci fece così ingresso a Montecitorio schierandosi tra le file della Sinistra costituzionale. Era in corso la XIII legislatura.

Tranne brevi intervalli egli fece parte della Camera sino al 1900 (Sarti 1890, 142; Malatesta 1940, 127; Severini 2002). Nella prima fase di attività parlamentare è rimarchevole il suo intervento “in nome dei principî elementari della dottrina della libertà e del libero governo” (Colapietra 1975, 140) durante il dibattito seguito all’attentato a Umberto I, avvenuto a Napoli nel novembre 1878 al tempo del governo Cairoli. La questione politica dibattuta era se fosse meglio, in tema di ordine pubblico, prevenire o reprimere. Il binomio Cairoli-Zanardelli proponeva il reprimere perché più sensibile a una vocazione di libertà, nel senso che giustificava l’intervento dell’autorità solo in presenza di fatti costituenti reato, non per proibire preventivamente adunanze pubbliche e associazioni. Rimasero famose le parole del presidente del Consiglio: “È la prima volta che un ministero è messo in accusa per aver ecceduto nel rispetto della libertà” (Colapietra 1975, 142). Come sottolineò Zanardelli, ministro dell’Interno:

Le società disciolte diventano più pericolose, trovano mille altri modi per ricomporsi, od anche non ricomponendosi, di gettarvi in viso ancora più audaci sfide. Questo ci mostra l’esempio e la stessa esperienza fatta sotto i governi assoluti. Oltre a ciò la repressione non di rado fa sì che il pubblico prenda la parte del perseguitato contro il persecutore. Infine le associazioni disciolte si trasformano e si organizzano in società segrete. Ora meglio è avere le associazioni medesime alla libera luce del sole e trovarsi così più facilmente informati dei loro procedimenti (Zanardelli 1905, 92-93; Berselli 1986, 208-211).

Cairoli dovette dimettersi dopo un voto di sfiducia, fu sostituito da Depretis ma più tardi tornò al potere. Nel settembre 1879 Teodorico Bonacci fu chiamato a ricoprire l’incarico di Segretario generale del ministero dell’Interno retto dal piemontese Tommaso Villa (su Villa cfr. Montaldo 1999) e lo mantenne sino al dicembre 1880, anche dopo che a Villa successe Depretis come ministro.

Segretario generale del ministero dell’Interno

Prima che fossero istituiti i Sottosegretari di Stato, la carica di Segretario generale era la più importante nei ministeri (per uno studio d’insieme cfr. Rudatis 1986). In Piemonte a partire dal 1848 il regime statutario aveva posto i ministri in una posizione del tutto nuova di fronte alla Camera elettiva e gli impegni parlamentari avevano reso problematico per i titolari dei dicasteri seguire l’attività degli uffici, perciò essi s’avvalevano come collaboratori dei “Primi Ufficiali”. La figura del Segretario generale, scelto dal ministro “previo concerto nel Consiglio dei Ministri”, nacque a seguito della riforma dell’amministrazione voluta da Cavour (legge 23 marzo 1853, n. 1483 e regolamento 23 ottobre 1853, n. 1611). Era un incarico di alta amministrazione e latamente politico. Cavour dichiarò in Parlamento: “È assolutamente indispensabile che ogni amministrazione abbia un capo speciale, la cui opera costante non debba subire tutti i mutamenti che sono prodotti dalle esigenze politiche” (citato in Taradel 1981, 27-28). Queste parole ed intenzioni di Cavour furono in verità parzialmente disattese, in quanto prevalse l’uso di nominare Segretari generali uomini politici anziché funzionari di carriera, di conseguenza essi assumevano e lasciavano l’incarico insieme con i ministri che li avevano scelti. Anche se appartenenti alla Camera, i Segretari generali “si astenevano dall’attività parlamentare, eccezion fatta per le votazioni o per interventi in veste di commissari del governo” (Astuti 1963, 124). La riforma voluta da Crispi con la legge 12 febbraio 1888, n. 5195 pose fine a quella ‘figura anfibia’ (Melis 1995, 195), abolendola e istituendo i Sottosegretari di Stato che erano, a tutti gli effetti, organi politici e di rappresentanza parlamentare (Rudatis 1990, 585)10.

Nei sedici mesi nei quali Teodorico Bonacci fu Segretario generale del ministero dell’Interno vennero elaborati importanti progetti, pochi quelli realizzati, destino comune un po’ a tutti i governi nei 150 anni dello stato unitario. Di particolare rilievo fu la proposta di unificare le guardie di pubblica sicurezza e le guardie municipali. Anni prima era stato fatto un tentativo analogo ed egualmente avvenne in seguito al tempo di Crispi, il quale alla fine dovette accontentarsi del modesto risultato di cambiare il nome della polizia statale in “Corpo delle Guardie di Città”.

Dall’Unità in poi l’istituzione-polizia fu costantemente uno dei rami meno apprezzati dell’amministrazione. Le critiche venivano dall’esterno ma era forte anche il disagio all’interno11.

Alcuni sindaci ambivano poi a organizzare nei Comuni una polizia municipale che per uomini e mezzi potesse competere con quella statale, volendo imitare la polizia inglese esempio di spirito liberale ed efficienza, ma dovettero abbandonare quelle velleità per problemi di bilancio. L’unificazione della polizia statale con quella municipale, propugnata da Bonacci, se attuata avrebbe affidato ai Carabinieri il servizio nelle campagne e significato direzione unitaria e maggiore coordinamento, aumento della forza effettiva a disposizione, economie di spesa, sostanziale cambiamento nel rapporto tra polizia e popolazione. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante tenuto conto che l’Italia era allora prevalentemente dialettofona. L’arruolamento delle guardie di Ps attingeva solo a poche regioni, diversamente dalle guardie municipali e non pochi problemi nascevano dal fatto che l’uomo in divisa non capisse e non fosse in grado di farsi capire soprattutto dal popolino. I governanti e in primis i ministri dell’Interno erano consapevoli della necessità di riformare e ammodernare l’apparato, ma i progetti invariabilmente si arenavano per carenza di risorse finanziarie, resistenze corporative e inadeguatezza degli uomini12.

Il ministro Villa e il segretario generale Bonacci non riuscirono a portare in porto neanche la riforma delle opere pie, universo per tanti aspetti inesplorato a cui si addebitavano servizi scadenti, costi elevati, sperperi e dissipazione del “patrimonio dei poveri” (Della Peruta 1992, 193-250; Farrell Vinay 1997; Lepre 1988). In altro campo fu realizzato, invece, l’impianto della colonia penale delle “Tre Fontane” fuori Porta San Paolo a Roma.

Bonacci svolse il suo compito “con lode di molto tatto ed abilità” (Sarti 1890, 142) e, animato da ottime intenzioni, elaborò anche severissime direttive per combattere il diffuso malcostume delle raccomandazioni, direttive che nel settembre 1879 arrivarono ai prefetti a firma del ministro Villa: 

Quest’uso perniciosissimo che, scuotendo gravemente il principio della gerarchia e della disciplina, tende a sostituire una indebita inframmettenza di estranei all’azione legittima del Governo, sebbene questo nei suoi provvedimenti ponga ogni cura per conciliare gl’interessi particolari colle esigenze del pubblico servizio, non può essere assolutamente più oltre tollerato ed io sono deciso di adottare d’ora in poi energiche misure per abbattere una consuetudine tanto deplorevole e tanto dannosa al regolare andamento della Amministrazione. Da quindi innanzi, ogni qualvolta giungeranno al Ministero raccomandazioni d’impiegati fatte sotto qualsiasi forma da persone estranee all’Amministrazione pubblica, ne sarà presa nota di demerito nella rispettiva matricola e, secondo i casi, saranno applicate anche più severe misure disciplinari.

Chi avrebbe mai osato violare quelle regole? Invece, passarono gli anni ma non l’abitudine degli impiegati di farsi raccomandare. Quelle grida di manzoniana memoria miravano commendevolmente a cambiare una cattiva mentalità ed erano emblematiche di un’Italia nella quale ci si illudeva di regolare il costume con interventi d’autorità. Per decenni (almeno sino alla prima metà del Novecento) ministri e sottosegretari continuarono a bacchettare e minacciare, ma essi speravano davvero di ottenere qualche risultato oppure si trattava solo di iniziative di facciata? In ogni caso, la guerra contro le raccomandazioni fu persa (D’Urso 2007, 2089-2100).

Tra gli avvenimenti degli anni 1879-1880 coinvolgenti la competenza del ministero dell’Interno, ricordo: i seri incidenti avvenuti al cimitero del Verano durante i funerali del generale Avezzana che, nel 1849, aveva comandato l’esercito della Repubblica Romana; a Napoli la scoperta di un’associazione criminale che metteva in circolazione falsi diplomi universitari; a Genova l’arresto di Stefano Canzio, genero di Garibaldi, coinvolto nei disordini avvenuti durante una commemorazione mazziniana13; a Firenze il processo agli internazionalisti che tanto preoccupavano le autorità, conclusosi con un verdetto di assoluzione anche per Anna Kuliscioff, dopo quindici mesi di carcerazione preventiva (Addis Saba 1993).

L’attività in Parlamento

Dopo l’ingresso a Montecitorio nel gennaio 1877, Teodorico Bonacci fu rieletto nel collegio di Jesi nel 1880 (XIV legislatura) e confermato nel 1882. Quell’anno entrò in vigore l’effimera riforma elettorale basata sullo scrutinio di lista senza più collegi uninominali. Si affermava il famigerato trasformismo, non c’erano più Destra e Sinistra, le alleanze tra notabili superavano le divisioni di un tempo, i governi cercavano i voti giorno per giorno con i consueti metodi di “convincimento”. Bonacci decise di appoggiare la Pentarchia, costituita da Cairoli, Crispi, Zanardelli, Nicotera e Baccarini in opposizione a Depretis e, non a caso, subì una sconfitta nelle elezioni generali del 1886 (Depretis era un maestro nel portare a galla gli amici e affondare gli avversari). Rientrò alla Camera nel 1888, ancora in un’elezione suppletiva, grazie all’appoggio di Crispi che guidava allora il governo (i retroscena della mancata candidatura di Bonacci a Roma nel 1887 sono narrati in Guiccioli 1973, 144). Nel 1890 (XVII legislatura) fu eletto nel collegio unico di Ancona e nel novembre 1892, quand’era ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti, col ripristinato sistema maggioritario a doppio turno. Nel giugno 1895 vinse di misura al ballottaggio per solo un’ottantina di voti nel collegio di Jesi. Per due anni fu Vicepresidente della Camera (Ballini 1988, 127) ma nelle votazioni dell’agosto 1897 (XX legislatura), non sostenuto dal capo del governo Rudinì, perse il seggio che fu conquistato dal repubblicano Ravalli. Ancora una volta fu ripescato in un’elezione suppletiva, svoltasi nel collegio di Sora nel 1898. Infine, nel giugno 1900 ripresentatosi come candidato di opposizione al governo Pelloux, fu battuto dall’avv. Grossi. Finì così la lunga esperienza di Bonacci come deputato. Non a caso un contemporaneo parlò di “peripezie elettorali” (Sarti 1898, 86).

Nel più che ventennio passato in Parlamento, Bonacci pronunciò moltissimi discorsi su svariati temi, fu più volte relatore del bilancio, componente di importanti commissioni tra cui la Giunta del Benadir14.

I suoi interessi di parlamentare, riguardanti soprattutto la politica interna e i problemi della giustizia, si manifestarono con interventi, nei quali, prendendo lo spunto da avvenimenti locali del collegio rappresentato, risaliva alle questioni di importanza nazionale nel quadro di un liberalismo progressista, lealmente fedele alla monarchia (Di Porto 1969, 452).

Nel giugno 1883 intervenne nel dibattito sulla bonifica dell’agro romano, con la consueta vigorosa eloquenza:

Io ho perduto ogni speranza che l’attuale amministrazione faccia qualche cosa di buono per bonificamento dell’agro romano. Imperocché come potete sperare che sorga la città industriale accanto alla città monumentale, politica, scientifica, artistica e religiosa, se non le date una campagna coltivata all’interno, ove ora è il deserto, se con l’agricoltura non create l’alimento e le condizioni di vita delle altre industrie, se non fate che sorga anche qui quella classe di piccoli proprietari che è il nerbo ed il rigoglio di tutte le città più vigorosamente costituite? (Atti parlamentari… 1883).

 S’oppose fortemente alla Triplice Alleanza con Austria e Germania, memore delle lotte risorgimentali e della sempre viva aspirazione a Trento e Trieste. Ciò lo pose in contrasto col suocero Mancini allora ministro degli Esteri. Il deputato marchigiano ipotizzò che non fosse casuale l’irrigidimento illiberale che notava nel governo del tempo:

Io credo dannosa la guerra imprudentemente intimata al radicalismo, e gli eccessi momentanei di repressione che fanno poi sembrare debolezza e colpevole condiscendenza in altro tempo la fedele osservanza delle leggi, e quella ostentazione di rigori in certi momenti e con deplorabili coincidenze, le quali lasciano dubitare che il governo non abbia il medesimo peso e la medesima misura verso tutti gli avversari delle istituzioni. Deplorabili coincidenze, le quali fanno quasi supporre che questi eccessi di spirito autoritario e repressivo siano il contraccolpo e l’effetto di una corrispondenza di amorosi sensi con governi che si professano e vantano illiberali, ed ai quali siamo notoriamente legati da vincoli di amicizia (Atti parlamentari… 1884).

Nel 1884 presentò una proposta di legge per l’allargamento del suffragio amministrativo e l’elezione dei Sindaci15. Dopo la riforma, nei Comuni il rapporto tra aventi diritto al voto e popolazione salì al 12%, il sistema della lista maggioritaria fu sostituito da quello del voto limitato onde assicurare la rappresentanza delle minoranze e, infine, la carica di sindaco divenne elettiva.

Bonacci contrastò la legge di perequazione fondiaria voluta da Depretis e partecipò in modo attivo alla discussione del nuovo codice penale Zanardelli pronunziandosi contro la pena di morte. Nel 1891 sostenne convintamente la proposta di tornare ai collegi uninominali per l’elezione della Camera. Intanto, era diventato Consigliere comunale di Roma e autorevolissimo componente dell’Ordine degli avvocati della capitale.

Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti nel primo governo Giolitti

Nel 1892 Giolitti costituì il suo primo governo, giudicato di sinistra liberale anche se queste categorie nell’Italia del tempo avevano ormai un valore relativo. Bonacci stesso, come sto raccontando, si trovò a sostenere personaggi gli uni nemici degli altri (Cairoli, Crispi, Giolitti, Rudinì).

Già nel 1891 era stato vicino a diventare ministro, secondo le rivelazioni contenute nelle Memorie di Giolitti. All’epoca il capo del governo Rudinì aveva in animo di sostituire il ministro dell’Interno Nicotera e così avrebbe parlato al politico piemontese:

Si sfogò meco, e dichiarandomi di non potere andare avanti col Nicotera agli Interni, concluse coll’offrirmi nuovamente quel posto. Gli risposi reiterando ciò che gli avevo già risposto alla sua prima offerta; e cioè che io non potevo entrarvi se il colore del ministero non venisse cambiato, nel senso di appoggiarlo maggiormente verso sinistra. Egli mi chiese in che modo, a mio avviso, questo mutamento potesse attuarsi, ed io suggerii di chiamare insieme a me Bonacci alla Grazia e Giustizia. Egli accettò il suggerimento, ed anzi dette a me l’incarico di fare l’offerta formale al Bonacci. Io adempiei a quel mandato; ma poi non ne seppi più niente (Giolitti 1982, 60).

Relativamente alla nascita del primo governo Giolitti, si legge nel Diario di Crispi sotto la data del 14 maggio 1892:

All’1 pom. viene a trovarmi Teodorico Bonacci in casa di Abele Damiani, dove ero a far colazione. Usciamo insieme e mi accompagna in carrozza a casa mia. Mi annunzia di aver accettato il portafoglio della Giustizia. Ne avrebbe desiderato un altro. Dichiara di essersi lasciati prendere e di non aver potuto rifiutarsi.

– Poiché hai accettato, nulla ho a dirti. Io non posso combattere un amico mio quale tu sei; se farai male, non mi resterà che assentarmi dalla Camera.

– Mi metto sotto il tuo patrocinio.

– In verità non ne hai bisogno. Al ministero di Giustizia vi è molto da fare, soprattutto se pensate di riformare l’ordinamento giudiziario.

– Farò quanto potrò. Tu mi permetterai che di tanto in tanto io venga a vederti ed a chiederti consigli.

– Hai spalle abbastanza robuste per non aver bisogno dei consigli altrui.

(Crispi 1924, 274-275).

 Giolitti nel presentare il Gabinetto si limitò a enunciare propositi generici in materia di finanze, istruzione, ecc. che “chiunque avrebbe potuto approvare” (Moscati 1976, 30). L’ordine del giorno dell’on. Baccelli, accettato dal presidente del Consiglio, affermava che la Camera si riservava “il giudizio su le proposte concrete del Ministero quando saranno presentate” (Ibidem, 32). I non molti voti favorevoli (169), i parecchi contrari (160) e gli astenuti (38) indussero Giolitti a presentare subito le dimissioni ma il re lo invitò a restare. Molti ritennero che Giolitti avesse già in tasca, per così dire, il decreto di scioglimento della Camera ed effettivamente dopo pochi mesi si andò al voto anticipato, voluto dal capo del governo per rafforzare la sua risicata maggioranza.

Il 6 e 13 novembre 1892 gli elettori – come ho detto – scelsero in base al ripristinato sistema maggioritario a doppio turno. “La corruzione, le violenze, le inframmettenze, le illegalità, gli abusi di potere esercitati nel 1892 avevano gareggiato, spesso superandoli, con quelli del 1876” (Ibidem, 41. Il riferimento al 1876 è ai metodi poco ortodossi adoperati allora da Nicotera, ministro dell’Interno nel primo governo Depretis). Ben sessanta elezioni furono contestate e diciannove annullate per brogli, corruzioni, irregolarità. In oltre 120 collegi vi fu un ricambio di rappresentanza, soprattutto nel Meridione che, tradizionalmente, si dimostrava “ministeriale”.

Anche nella Camera Alta il presidente Giolitti “costruì” una maggioranza a lui fedele, grazie alla nomina di una novantina di nuovi senatori tra cui Bernardo Tanlongo governatore della Banca Romana. La cattiva sorte colpì però il governo che patì in pochi mesi quattro decessi di ministri in carica: tanti quanti ne erano morti nei precedenti 32 anni di vita unitaria. Furono però gli scandali bancari, insieme con l’esplodere del movimento dei Fasci in Sicilia, a minare la solidità della maggioranza e a provocare la crisi politica,

Ancor prima che il governo Giolitti cadesse, Bonacci ne era uscito in malo modo a causa del voto della Camera che il 19 maggio 1893 bocciò il bilancio del ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti, fatto inusitato nella storia parlamentare. Sino ad allora Bonacci aveva avviato significative iniziative legislative: innanzitutto, per festeggiare le nozze d’argento dei Sovrani, un’amnistia comprendente anche i reati a mezzo stampa; poi, l’introduzione nel nostro ordinamento della condanna condizionale, quella che oggi chiamiamo sospensione condizionale della pena, ma in parlamento la proposta non trovò il necessario ampio consenso, poiché per alcuni il condannato a brevi pene veniva in tal modo incoraggiato a ravvedersi ed evitava sia pure per calcolo di commettere altri reati, per altri la possibilità di non scontare immediatamente la pena era un incentivo a delinquere ancora (Pisani 2007; Stronati 2009). Non passò neanche il disegno di legge che fissava la precedenza del matrimonio civile su quello religioso: parecchi inconvenienti nascevano dall’uso non raro di celebrare soltanto il secondo, non riconosciuto dallo Stato che, senza volere interferire nella sfera spirituale e religiosa dei cittadini, intendeva contrastare un comportamento che non rispondeva tanto a convinzioni ideologiche né era effetto di ignoranza della legge, ma era posto in essere dalla convenienza di conservare o procurarsi vantaggi: ad esempio, i tanti uomini in divisa a cui i regolamenti del tempo ponevano pesantissime limitazioni alla facoltà di contrarre matrimonio, ricorrevano all’espediente del solo rito religioso per dare consacrazione al vincolo senza perdere il posto16. Tentativi analoghi a quelli del ministro Bonacci erano stati fatti nel 1872, 1873 e 1878 ma avevano trovato la forte opposizione del mondo cattolico (contro l’iniziativa di Bonacci intervenne pubblicamente anche il papa Leone XIII, cfr. Leone XIII… 1893, 513-522). Non andò meglio in seguito né ebbero sorte migliore varie proposte di introdurre il divorzio (Jemolo 1963, 324-330). A torto o a ragione Bonacci meritò fama di “mangiapreti” (Guiccioli 1973, 172).

La bocciatura di Bonacci

Secondo l’opinione di molti, la vera causa della caduta politica di Bonacci fu lo scandalo bancario. In sostanza, i suoi guai nacquero per vere o presunte “ingerenze dell’esecutivo nell’attività dell’autorità giudiziaria, in seguito a movimenti e sostituzioni di magistrati, avvenuti nei primi giorni dell’istruttoria sulla Banca Romana” (Di Porto 1969, 452).

Giolitti nelle sue Memorie si limita a questo racconto:

Avvisai il Bonacci, ministro di Grazia e Giustizia, di trovarsi egli pure a Palazzo Braschi – [che era sede del ministero dell’Interno] – per la venuta del Finali – [Gaspare Finali era il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla Banca Romana] –. Il Bonacci giunse al mio ufficio, verso le nove di sera [Del giorno 18 gennaio 1893] accompagnato dal senatore Bartoli, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, dichiarandomi di averlo condotto per esaminare la questione se il Tanlongo, essendo stato nominato senatore ma non ancora convalidato, potesse essere soggetto alla giurisdizione ordinaria dei tribunali o dovesse essere mandato davanto al senato. Il senatore Bartoli, entrando poi nella mia stanza – e ricordo questi particolari perché intorno a quel convegno fu architettato poi un vero romanzo – mi disse che essendo egli un po’ indisposto di salute, aveva creduto conveniente di condurre seco il giudice istruttore ed il sostituto procuratore del Re e li aveva lasciati nella prima camera del mio ufficio. Io non avevo a questo nulla da obbiettare, ma quei funzionari non furono da me visti in alcun modo. Finali, arrivando poi col Martuscelli – [Segretario generale della Corte dei Conti] –,mi consegnò il rapporto, ed io dopo averne data lettura lo consegnai al Bonacci, accompagnandolo con una lettera perché rimanesse traccia ufficiale della sua provenienza; ed il Bonacci alla sua volta lo consegnò al procuratore generale, che lo ricevette, dichiarando che si ritirava coi funzionari che aveva condotti seco, per dichiarare sul da farsi (Giolitti 1982, pp. 70-71).

Dunque, apparentemente niente di illecito. Quando s’avviò alla Camera la discussione annuale del bilancio, lo scandalo bancario era deflagrato con arresti e clamorose rivelazioni, anche perché al processo principale si aggiunsero procedimenti connessi per sottrazione di documenti, falso, abuso d’ufficio con imputati funzionari di polizia, politici del livello di Giolitti, Crispi e persone ad essi vicine. Tutto condito da rivelazioni di stampa provenienti da “fonti bene informate”, clamorose violazioni del segreto istruttorio, depistaggi, tardivi pentimenti, ritrattazioni. Insomma un feuilleton che parve senza fine e fece la fortuna delle gazzette17.

Il 16 maggio 1893 la discussione parlamentare sul bilancio del ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti presto debordò. Bonacci rispose per le rime agli attacchi e, citando il poeta toscano Giusti, di fatto paragonò ad un asino il deputato Giuseppe Alberto Pugliese. Questi invitò il ministro “a dire senza nascondersi se l’allusione era a lui diretta perché potesse mandargli i suoi padrini”. L’agitazione in aula raggiunse tali toni che gli stenografi non riuscirono a stendere un resoconto completo delle interruzioni e degli insulti. La Camera mostrò quel giorno un’evidente ostilità nei confronti del ministro che mise a disposizione il mandato. Per le insistenze del re ritirò le dimissioni ma tre giorni dopo il bilancio del suo ministero fu bocciato con 138 voti contrari e 133 favorevoli. Tutto il governo Giolitti presentò le dimissioni, ma il sovrano decise di accettare solo quelle di Bonacci. Perché la Camera bocciò il bilancio? Sicuramente per colpire Bonacci ma per quali colpe? Comincio col citare “L’Illustrazione Italiana” del 28 maggio 1893:

Non è rimasto sul lastrico che il povero Bonacci. Perché tanta ira contro di lui? Non pareva abbastanza sinistro; non godeva le grazie di Zanardelli; nella discussione del bilancio era stato impertinente, avea motteggiato i deputati enciclopedici, e s’era permesso di citare un epigramma di Giusti sui somari. Questo verso del Giusti aveva anzi provocato un duello, che per fortuna svanì. Peccato! Sarebbe stato un bel caso vedere il capo della giustizia, il guardiano della legge, battersi in duello, in barba a tutto il capo IX del titolo IV del libro II del Codice Penale. È vero però che il guardasigilli fin de siècle aveva già accettato il duello, nominando due fior di padrini, un generale e un colonnello. Perciò solo meritava la multa da £ 100 a £ 1500 (art. 237), ma non è per ciò che la Camera lo ha bocciato.

Questa gustosa nota giornalistica non dà una risposta assoluta ma ipotizza un’interpretazione politica della caduta del ministro: Bonacci non aveva più il sostegno della maggioranza perché non schierato abbastanza a sinistra e a causa dei toni “impertinenti” che usava abitualmente.

Convince poco l’interpretazione tecnica di un incidente di percorso: la Camera “impallinò” il ministro per “l’ostinazione del Bonacci sul concetto dell’unità della Cassazione civile, che urtava infinite resistenze localistiche irosamente coalizzatesi” (Colapietra 1976, 267). Annotò il presidente del senato Farini: “Bonacci nella discussione del bilancio di Grazia e Giustizia ha risposto male ed altezzosamente tanto da provocare una sfida – ha disgustato insistendo sull’unicità della Cassazione civile. Ciò ha prodotto un vivissimo malumore contro di lui” (Farini 1961, 266). La storia politica italiana insegna che i temi della giustizia sono spesso un terreno minato per i governi, ma forse essi non giustificavano la caduta di Bonacci.

C’è insistente l’interpretazione psicologica, piuttosto suggestiva:

Egli cadde, prima che tutto il Ministero fosse travolto, specialmente a causa di certe note distintive – se non vogliono chiamarsi difetti – del suo temperamento […] Carattere chiuso, più che riservato, incapace di ogni atteggiamento che non ne rivelasse l’orgogliosa natura e mancante nel dire, pur attraverso la eloquenza – che altri giustamente definì “frondosa” – di ogni arte capace di attenuare la forma di affermazioni amare o pungenti.

 L’autore di questo ritratto, Amedeo Moscati, riteneva “pura fantasia, la insinuazione che l’avversione a lui di un parte della maggioranza giolittiana e, conseguentemente, la sua caduta fossero state determinate dalla sua poca docilità ad influenzare la magistratura per indirizzarne l’azione in conformità degli interessi delle correnti politiche predominanti” (Moscati 1976, 260). L’interpretazione complottistica è avallata invece dal diario di Sidney Sonnino, dove si legge che la bocciatura del ministro fu la ritorsione dei giolittiani per non avere Bonacci voluto compiere indebite pressioni sui magistrati (questo avrebbe confidato Bonacci a Luigi Luzzatti che lo riferì a Sonnino).

Quando cominciò il processo di Tanlongo, Giolitti chiamò Bonacci allora Guardasigilli e gli disse esser rimasto d’accordo con Tanlongo che avrebbe dichiarato che le 60.000 date al governo erano per le feste di Genova18; a questa dichiarazione però ostare che nelle prime due deposizioni davanti al giudice istruttore, Tanlongo aveva dichiarato di aver dato quel denaro per le elezioni; che quindi bisognava dire al giudice istruttore di sopprimere quei processi verbali dei primi due interrogatori; e che su ciò era già inteso il Tanlongo. A questo Bonacci rispose risolutamente di no, dicendo che Giolitti non capiva la gravità della cosa, che si trattava di codice penale e che i ministeri poi non erano eterni e già fin da ora ci volevano la complicità del giudice e di Tanlongo. Dietro ciò Bonacci disse di essersi subito convinto che sarebbe caduto, e tornò a mettere le sue carte in ordine. Difatti alla Camera, dove egli accentuò apposta la nota, ebbe subito il voto contro, al bilancio (Sonnino 1972, 266-267).

 A sua volta, Alessandro Guiccioli scrisse: “Si tratta di una cospirazione zanardelliana contro il Guardasigilli Bonacci, forse connivente in parte lo stesso Giolitti” (Guiccioli 1973, 180; l’allusione era ad un’asserita “freddezza” di Bonacci nel sostenere l’introduzione del divorzio, cavallo di battaglia di Zanardelli). Giolitti nelle Memorie ignora completamente la défaillance del ministro. Nel 1904 “L’Illustrazione Italiana”, commentando la nomina a senatore di Bonacci, usò l’espediente del “dissero nei corridoi di Montecitorio” che nel 1893 Giolitti fece votare i suoi fidi contro il bilancio affinché Bonacci si dimettesse, non volendo un guardasigilli “un poco troppo meticoloso”. Telesforo Sarti, altro contemporaneo, parlò genericamente di “manovre di corridoio delle quali pur troppo si hanno parecchi e non encomiabili esempi a Montecitorio” (Sarti 1898, 86). Resta il fatto che Bonacci dovette dimettersi, senza che nessuno riuscisse a dare della bocciatura parlamentare una spiegazione del tutto convincente.

Alle successive vicende ho fatto cenno: l’incarico di Vicepresidente della Camera, la mancata elezione nel 1897, l’elezione nel collegio di Sora, l’ultima sconfitta elettorale nel 1900.

Era del suo stile – un cattivo stile – il linguaggio scortese ed altezzoso di fronte all’avversario anche nei dibattiti giudiziari, e questo gli rendeva sempre faticosa la conquista e il mantenimento del mandato legislativo, conseguito mutando collegi e senza che mai si affermasse la sua posizione elettorale in nessuno […] Le stesse sue traversie elettorali – prima che fosse ministro ed ancora più significativamente dopo – furono per non poca parte causate da queste qualità, che lo distinguevano poco favorevolmente (Moscati 1976, 260-261)19.

Di nuovo ministro nell’ultimo governo Rudinì

Dopo i drammatici avvenimenti del maggio 1898, con la durissima repressione dei moti popolari specie a Milano, Antonio Starabba marchese di Rudinì aveva scelto di dimettersi e costituire un nuovo governo scegliendo Bonacci come ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti. Era un ruolo fondamentale per le riforme legislative che l’esecutivo si proponeva di attuare in materia di ordine e sicurezza pubblica. Nell’ordinamento del tempo solo alcune misure preventive e di rigore avevano una regolamentazione, per altre la fonte di diritto era semplicemente la consuetudine, definita da Antonio Salandra (1910, 183): “L’osservanza continua per un lungo periodo di tempo di certe norme di amministrazione da parte della pubblica autorità nelle sue facoltà discrezionali; da questa osservanza deriva una consuetudine e l’amministrazione è ad essa tenuta.”

Nei primi anni dopo l’Unità, per prassi, la polizia poteva adottare misure restrittive della libertà personale anche nei confronti di persone prosciolte dall’autorità giudiziaria, come retaggio di un’odiosa misura d’epoca borbonica, l’empara (parola derivata dal francese emparer) per cui l’accusato assolto era rimesso nelle mani della polizia che ne disponeva ad libitum. Tale facoltà, che naturalmente sconfinava nell’arbitrio, era esercitata prevalentemente nel Meridione d’Italia, poi morì per asfissia e senza rimpianto di alcuno. In parlamento più volte si discusse quale fosse la fonte giuridica del potere dei prefetti di sciogliere associazioni, sospendere giornali, vietare riunioni e comizi, ordinare perquisizioni e arresti. Il governo, non potendo appellarsi a disposizioni di legge, invocava il “criterio dell’ordine pubblico”: dinanzi al pericolo astratto o concreto di turbative, il potere esecutivo, anche tramite i suoi rappresentanti periferici, aveva il diritto e il dovere di adottare i provvedimenti giudicati necessari in base alla consuetudine (era l’affermazione del prevenire, non reprimere)20.

Bonacci predispose un pacchetto di norme che, se approvate, avrebbero consentito al potere esecutivo di agire, al bisogno, secundum legem. Il primo disegno di legge, con validità temporale sino al 30 giugno 1899, trattava di domicilio coatto, reati a mezzo stampa, divieto di pubblicazioni pericolose per l’ordine pubblico, facoltà di militarizzare il personale ferroviario e postale, applicazione dello stato di guerra per ragioni di ordine pubblico. Un secondo disegno di legge mirava a rendere permanente la militarizzazione di alcune categorie di lavoratori, sottoponendoli alla giurisdizione dei tribunali militari. Un terzo disegno di legge regolamentava l’attività di associazioni, cooperative, società di mutuo soccorso con possibilità per i prefetti di ordinare lo scioglimento di quelle “dirette in qualsiasi modo al sovvertimento delle istituzioni dello Stato, all’apologia di fatti qualificati delitti dalla legge, all’eccitamento contro le leggi e le autorità ovvero all’odio fra le varie classi sociali” (Per la ricostruzione dei fatti cfr. Levra 1975).

L’intenzione di Bonacci era di “dare al Governo un’arma legale da poter usare all’occorrenza senza ricorrere all’arbitrio” (Moscati 1976, 196) ma non vi fu tempo per nessuna discussione in quanto Rudinì aveva ormai perso la maggioranza. In giugno, alla ripresa dei lavori parlamentari, fu presentato questo ordine del giorno: “La Camera, mentre fa plauso all’ammirabile contegno dell’esercito durante i recenti disordini, dichiara di non aver fiducia nel Ministero”. Il presidente del Consiglio si dimise senza attendere il voto e gli successe il generale Pelloux che, durante i tumulti di maggio, s’era ben comportato come comandante militare a Bari. Egli, avendo come ministro Finocchiaro Aprile, riprese alcune delle proposte elaborate da Bonacci, escluse quelle con effetti permanenti, e riuscì ad ottenere in breve tempo l’approvazione della legge 17 luglio 1898, n. 296 dal titolo “Provvedimenti urgenti e temporanei per il mantenimento dell’ordine pubblico” validi un anno (Doglio 1977).

Nella primavera del 1899 Pelloux, che era anche ministro dell’Interno, presentò alla Camera un nuovo disegno di legge, che riprendeva le parti essenziali delle proposte di Bonacci aventi effetti permanenti in materia di stampa e pubblica sicurezza. L’iniziativa governativa provocò, dopo una prima incerta accoglienza, la reazione delle opposizioni che attuarono un forte ostruzionismo. Il generale, con quello che nelle sue intenzioni voleva essere un atto di forza, ottenne un decreto reale per fare entrare in vigore le norme che la Camera non aveva votato, ma gli equilibri politici s’erano ormai rimescolati e molti alleati d’un tempo non erano più tali. Anche Bonacci si rese protagonista di un clamoroso voltafaccia, che in sostanza fu l’ultimo suo rilevante atto da deputato. “Attraverso sofisticazioni e distinzioni che potevano anche apparentemente giustificare il contrasto, con la solita scortese esuberanza di parole e di azione” (Moscati 1976, 262), presentò una mozione che dichiarava nullo e illegale il decreto voluto da Pelloux, il quale finì per abbandonare il progetto (Thayer 1973).

Dopo la mancata rielezione nel 1900, Bonacci si dedicò a tempo pieno alla professione legale. Il suo studio era tra i più affermati della capitale. Tra l’altro, egli sostenne la parte civile nella causa promossa dal ministro della Marina Giovanni Bettolo contro il quotidiano socialista e l’on. Enrico Ferri. L’Avanti! aveva in sostanza accusato Bettolo di affarismo, corruzione e aggiotaggio, per avere con contratti antieconomici provocato un danno erariale ed un artificioso aumento delle quotazioni in Borsa della società Terni. Bonacci si comportò da par suo nell’arringa finale che rimase un esempio di eloquenza e vigore dialettico. A conclusione del processo l’on. Ferri fu condannato per diffamazione continuata a mezzo stampa (sul processo cfr. Vecchini 1924). Quando, poco dopo, con regio decreto del 4 marzo 1904 Bonacci fu nominato senatore per la III categoria (quella degli ex-deputati) si disse che riceveva così il premio per avere difeso tanto bene l’establishment nella causa Bettolo (Insieme con lui ottennero il laticlavio altri ventisei maggiorenti, tra cui Giovanni Alfazio ex capo della polizia e prefetto di Milano, Edoardo Arbib giornalista e scrittore, Antonio Baldissera comandante militare in Africa dopo la sconfitta di Adua, Alessandro D’Ancona letterato, Luigi Luciani illustre clinico marchigiano.)).

Teodorico Bonacci morì a Roma, nella casa di via Fontanella Borghese, colto da improvviso malore la mattina del 13 gennaio 1905, all’età di 67 anni. Fu tumulato al Verano. In Senato il presidente Tancredi Canonico lo commemorò con commosse parole, come si conveniva (www.senato.it. Notizie su Teodorico Bonacci, oltre che nei testi citati, sono in: Claudi, Catri 2007; Sapuppo Zanghi 1883; D’Amato 1891; Gubernatis 1895, 120; Arangio-Ruiz 1898, 494; Vigo 1913, 158, 231, 269; Cilibrizzi 1925 e 1939; Albertini 1950; Carocci 1956; D’Angiolini 1962; Santarelli 1964; Ferrari 1983, 168-169, 176; Boldrini 2003, 219; Allegrezza 2007).

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  1. Figlia di Gratiliano Bonacci era Maria Alinda coniugata Brunamonti (1841-1903) che, nella seconda metà del XIX secolo, godette di qualche notorietà come letterata e autrice di liriche patriottiche (Roux 1909, 321-330; Fasano 1969, 453-454; www.raccontarerecanati.it) []
  2. De Cesare 1975, 144; Missori 1989, 258; www.senato.it []
  3. Ad esempio, sino al 1848 in Piemonte “della polizia contro gli studenti erano incaricati quattro preti (uno per rione) col titolo di prefetti. Gli studenti, di cui la famiglia non risiedeva a Torino, non potevano abitare dove loro piacesse e convenisse meglio, ma erano obbligati ad allogarsi in certe pensioni che ne avevano speciale permesso e sulle quali quei prefetti avevano continua e diretta vigilanza. Nemmeno nelle famiglie dei conoscenti e congiunti non potevano alloggiare senza una apposita licenza. In quelle pensioni il prefetto del rione aveva ingresso e giorno e notte per vedere che contegno vi tenessero, che compagnie vi si radunassero: obbligo ai giovani di essere rincasati alle nove di sera, di chiedere permesso per andare a teatro. Ogni mese si doveva recare al prefetto il biglietto di confessione” (Bersezio 1931, 115). []
  4. Nell’ateneo romano alla disciplina sovrintendevano il card. Ludovico Altieri quale Arcicancelliere e il padre Bonfiglio Mura come Rettore. []
  5. Molti compagni di università erano destinati a ruoli importanti: Alessandro Fortis presidente del Consiglio, Francesco Siacci professore e deputato, Antonio Maggiorani medico della Casa Reale, Felice Giammaroli avvocato e propugnatore della cremazione a Roma. []
  6. A Laura Beatrice Oliva, forse con eccessiva generosità, fu attribuito il titolo di “poetessa del Risorgimento nazionale” per le liriche intrise di amor patrio. Quando era in esilio a Torino la donna pubblicò anche un carme in onore di Agesilao Milano, attentatore alla vita di Ferdinando II e fu inquisita dalla Procura per apologia di regicidio (Orestano 1940). []
  7. Nato a Firenze nel 1872, volontario garibaldino in Grecia nel 1897, viaggiò come inviato speciale nel Benadir, in Eritrea, Libia, Russia, Romania. Era particolarmente esperto in questioni coloniali e pubblicò libri sull’argomento. Arruolato come capitano di complemento nella prima guerra mondiale, morì il 16 luglio 1917 per ferite riportate in combattimento sul Carso. Alla memoria fu concessa medaglia d’argento al valor militare. []
  8. Ho ricordato che tra i Bonacci c’era già una letterata, Maria Alinda, mentre nella famiglia Mancini, oltre a Laura Beatrice Oliva, nonna di Anna, si possono annoverare anche Grazia coniugata Pierantoni e Flora coniugata Piccoli, sorelle di Rosa Mancini Bonacci. Notizie sulla famiglia Bonacci in Piccinini 2003. []
  9. Sappiamo quanto allora fosse invadente e persino illecito l’intervento governativo nelle elezioni. Nicotera “mutò sindaci, prefetti, sottoprefetti, premiò, punì, minacciò, promise” (Gori 1904, 553). “Venne proclamato che un trattamento di favore in materia di scuole, concessioni ferroviarie ed appalti governativi sarebbe stato riservato a quelle circoscrizioni elettorali che avrebbero votato nel modo giusto” (Mack Smith 1972, 173). []
  10. C’è da aggiungere che, come araba fenice, i Segretari generali sono risorti successivamente in alcuni ministeri (es. Affari Esteri e Difesa). []
  11. Cesare Mori, poi diventato famoso prefetto antimafia, quando stava per entrare in polizia dopo avere lasciato l’esercito, scrisse un saggio in cui si leggono queste considerazioni: “Il discredito dal quale è circondata la P.S. in Italia deriva da due fattori particolari: la precarietà legata alla fretta con la quale la P.S. fu formata dopo l’unità d’Italia ed ancora la ostilità del popolo nei suoi confronti dal momento che la polizia per il popolo, ancora memore del servilismo allo straniero, è simbolo di repressione e non di giustizia […] La polizia italiana avendo dovuto raccogliere nel suo nascere una ben triste eredità d’affetti, si trova d’allora in una posizione delicatissima, in un ambiente che le è avverso e che ancora non si è saputo rendere favorevole […] Il vedersi così malvoluti e maltrattati dalla popolazione provoca negli agenti di P. S. una dannosa reazione. Avvezzi ormai a vedere in ogni cittadino un nemico, un essere pronto a deriderli o a far loro del male gli agenti di P. S. portano nelle loro relazioni con la popolazione un’abituale durezza di maniere che irrita” (Mori 1897, 21). []
  12. Gaetano Mosca, uno dei maggiori politologi dell’Ottocento, usò toni tranchants: “Si può dire senza tema di errare che il valore medio di tutti gli agenti polizieschi, dal grado più basso al più alto, dalla guardia al questore, è sempre inferiore alla posizione che occupano. La causa principale di questa incapacità generale degli agenti di polizia sta principalmente nella ripugnanza che hanno i buoni elementi ad entrare in questa carriera. Pure mal si appone chi crede che questa ripugnanza, che è tradizionale, sia invincibile, ché anzi, come tante altre abitudini potrebbe esser tolta, se cessassero le cause che l’hanno fatta nascere. Prima di tutto bisognerebbe smettere assolutamente il vezzo, che in Italia in parte si conserva ancora, di accogliere nelle file della polizia dei cattivi soggetti e opporre così la canaglia organizzata e in divisa alla canaglia disorganizzata e in borghese. Ancora di un mascalzone, che dovrebbe essere ammonito, si fa alle volte un questurino; uno sfaccendato vizioso che ha qualche tintura d’istruzione può, se trova un protettore influente, diventare un delegato di pubblica sicurezza” (Sulla teorica dei governi… 1982, 417-418). []
  13. Garibaldi per protesta si dimise da deputato e si recò a Genova per visitare in carcere il genero ma una provvidenziale amnistia sopravvenne a smorzare le tensioni. []
  14. Un gruppo di magnati e industriali lombardi aveva costituito la “Società anonima commerciale italiana per il Benadir” con lo scopo di sfruttare le risorse naturali di quella regione dell’Africa Orientale. Il governo del tempo accordò alla società un cospicuo contributo ma l’approvazione parlamentare della convenzione arrivò solo all’inizio del 1900 tra perplessità e opposizioni (Del Boca 1992, 576, 777). []
  15. L’elettorato attivo era all’inizio prevalentemente su base censitaria e di fatto riservato ai possidenti. La legge 20 marzo 1865, n. 2248 – allegato A riconosceva il diritto di voto amministrativo ai maschi maggiorenni che sapessero leggere e scrivere e pagassero un minimum di imposte dirette (5 lire nei comuni sino a 3.000 abitanti, 25 lire in quelli con oltre 60.000 abitanti). Accanto ai censitari c’erano anche elettori capacitari (impiegati dello Stato, professionisti, ecc). Il totale non superava di molto il 5% della popolazione. L’elettore censitario votava in tutti i comuni nei quali pagava imposte nella misura richiesta (voto plurimo) ed era ammessa anche la “delegazione di censo”: per il padre analfabeta poteva votare un figlio, per la vedova un figlio o un genero. L’elettore capacitario votava solo nel comune di residenza. Quanto all’elettorato passivo, gli elettori scrivevano su una scheda tanti nomi quanti erano i consiglieri da eleggere, senza liste preventivamente presentate. Il sindaco era nominato con decreto reale, scelto in una terna di consiglieri proposta dal prefetto. []
  16. Sarebbero stati quasi 400.000 in un decennio i matrimoni religiosi non accompagnati da rito civile. La proposta di Bonacci prevedeva sanzioni per gli inadempienti ma soprattutto la perdita di diritti patrimoniali. []
  17. Ricostruiscono i fatti: Quilici 1935; Vitale 1972; Manacorda 1993. La prima opera è basata prevalentemente sulla quarantina di volumi di carte processuali raccolte dal giudice istruttore Ferdinando Capriolo, concesse alla consultazione per decisione personale di Mussolini, contento di contribuire a mettere alla berlina la “vecchia” Italia. []
  18. Si voleva cioè far credere che la somma di 60.000 lire fosse stata anticipata da Tanlongo a Giolitti per spese improrogabili in occasione del 400° anniversario della scoperta dell’America. []
  19. Si ha notizia anche di un intervento congiunto di Bonacci e Luzzatti nel febbraio 1896 per ottenere che la Banca d’Italia anticipasse oltre £ 300.000 alla Provincia di Ancona per poter estinguere un mutuo con la Cassa di Risparmio di Jesi. Sonnino, ministro del Tesoro, rifiutò di compiere “una cosa scorretta” (Sonnino 1972, 228-230) []
  20. Sino all’avvento del fascismo lo stato d’assedio fu proclamato dieci volte, dalla crisi di Aspromonte del 1862 al terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. Inizialmente la proclamazione fu presentata quasi come esercizio di un potere ordinario dell’esecutivo, successivamente si cercò un fondamento negli articoli 243 e 246 del codice penale militare relativi allo stato di guerra. I generali commissari straordinari (Cadorna nel 1866 a Palermo, Bava Beccaris nel 1898 a Milano, ecc.) emettevano bandi e istituivano tribunali militari che sentenziavano senza appello. Nel 1904 in occasione del primo sciopero generale della storia italiana, stante la mancanza di fonte scritta fu inventato il “piccolo” stato d’assedio: i commissari straordinari assumevano i pieni poteri ma non potevano istituire tribunali militari. Secondo i costituzionalisti del tempo e la stessa Corte di Cassazione non la legge scritta ma “la suprema legge della salute della patria, ossia la necessità di governo giustificava tutto ciò”. Quel vuoto normativo fu colmato solo negli anni Venti del Novecento con l’emanazione del Testo Unico di P. S. tuttora in vigore (Violante 1976, 481-524). []