di Francesca Lacaita
Abstract
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Transgressing borders: Giuseppina Martinuzziâs idea of homeland between irredentism and socialist internationalism
The article follows the biographical and intellectual itinerary of Giuseppina Martinuzzi, a teacher and writer who lived in Istria and Trieste between 1844 and 1925. After being a long-time activist in national Mazzini-inspired associations, thus contributing to the ânationalizationâ of Italian speakers in the Austrian Littoral, Martinuzzi became a Socialist, critically revising the XIXth century concept of ânationâ and trying above all o construct a common homeland with her âSlavâ countrypeople. The article discusses the evolution of the idea of âhomelandâ in Martinuzzi as appears in her writings, and connects it with the political and social context in which she lived and worked.
Giuseppina Martinuzzi, il confine e gli altri
Ripensare a Giuseppina Martinuzzi, maestra e scrittrice istriana vissuta tra il 1844 e il 1925, significa considerare una serie di temi che si sono imposti allâattenzione degli studiosi e dellâopinione pubblica negli ultimi tempi: innanzitutto il confine, che Ăš stato esplorato da vari punti di vista, da quello istituzionale a quello sociale e relazionale, a quello simbolico o metaforico (Anderson 1996, 1-3; Cella 2006; Paasi 1999; Pittaway 2003, 1-65), giungendo alla consapevolezza che âsolo lo sguardo sulle zone di confine e di passaggio rende visibili strutture (spesso implicite) di identitĂ culturali e di ordini socialiâ (Lamprecht Mindler Zettelbauer 2012, 11). Quindi i concetti di patria e di nazione, di cui Ăš stato negli ultimi decenni evidenziato il carattere di âcostruzione culturaleâ, specie in rapporto a ciĂČ che effettivamente li compone e li crea, a ciĂČ che viene incluso e viene escluso, alle altre realtĂ nazionali esterne, e alla diversitĂ interna. E di conseguenza la presenza degli Altri, che rimanda a sua volta al confine e ai quesiti connessi: se esso esiste e come si configura dipende da chi sono gli Altri e come ci si rapporta a loro.
Il percorso umano e intellettuale di Giuseppina Martinuzzi sâintreccia strettamente con la âbiografiaâ del cosiddetto âconfine orientaleâ, che per lâItalia, nelle parole di Raoul Pupo, âdivenne fra Ottocento e Novecento la frontiera della patria per eccellenza, caricata di tutte le valenze simboliche proprie della contemporaneitĂ â (2007, 14). Se in etĂ risorgimentale infatti, a causa soprattutto della sua popolazione mista, esso rimase concettualmente vago, in una seconda fase, tra lâUnitĂ e la Prima guerra mondiale, fu âcostruitoâ territorialmentei e divenne oggetto di rivendicazioni irredentiste, invero piĂč da parte di determinati settori politici, dellâopinione pubblica e di esuli dallâImpero che della linea ufficiale del governo, improntata piuttosto, come Ăš noto, alla ricerca di buone relazioni con lâAustria-Ungheria, e semmai piĂč interessata allâetnicamente omogeneo Trentino. Al tempo stesso, proprio nella Venezia Giulia ancora âirredentaâ le particolari dinamiche e relazioni triangolari che intercorrevano tra lo Stato asburgico e le due nazionalitĂ antagoniste presenti sul territorio, lâitaliana socialmente dominante, e la âslavaâ (slovena o croata)ii in ascesa culturale e politica, avrebbero contribuito a costruire altri tipi di âconfiniâ, consolidando per gli italiani lâimmagine dello âslavoâ come ânemico storicoâ, accanto a quella piĂč familiare del âtedescoâ. Questa ereditĂ di rapporti, assieme allâimpreparazione dello Stato italiano a trattare con la diversitĂ nazionale interna, avrebbe condizionato negativamente la situazione delle popolazioni alloglotte inglobate dopo il 1918 nei nuovi confini. Il fascismo avrebbe esacerbato lâoppressione nazionale, e la Venezia Giulia sarebbe diventata teatro delle grandi tragedie europee del Novecento, i cui strascichi dovevano vieppiĂč risentire della sovrapposizione, in aggiunta alle linee di frattura giĂ esistenti, della âfrontiera ideologicaâ tra blocco occidentale e mondo comunista proprio sul nuovo confine italo-jugoslavo. In pratica solo con la fine del XX secolo il âconfine orientaleâ ha potuto cominciare a liberarsi del suo carico di tensioni e a ânormalizzarsiâ nel quadro della progressiva integrazione del continente.
Il âconfine orientaleâ Ăš stato comunque costruito in un contesto non solo nazionale italiano, ma anche piĂč ampio, asburgico, o âcentroeuropeoâ. A questo riguardo, la prospettiva esplicitamente pluristatale e plurinazionale adottata dalla storiografia piĂč recente (Feichtinger Cohen 2014; Judson Rozenblit 2005; Reill 2012; Wingfield 2003; Wolff 2006; Wörsdörfer 2004a) ha comportato la revisione critica di alcuni paradigmi tradizionali. Ad esempio viene sottolineato il carattere âibridoâ, plurietnico e multilingue delle popolazioni di questâarea; il processo di nazionalizzazione di massa Ăš spostato cronologicamente piĂč avanti, negli ultimi anni dellâOttocento; si contesta la correlazione tra la lingua parlata da una comunitĂ e la sua presunta adesione a un determinato progetto nazionale, come pure la consueta dicotomia tra nazionalismo âcivicoâ e nazionalismo âetnicoâiii; si dĂ conto del ruolo fondamentale dello sviluppo della sfera pubblica, delle istituzioni e della societĂ civile (con il mondo dellâassociazionismo in testa) nella formazione degli antagonismi nazionali; e si sono relativizzati i successi dei vari progetti nazionali, superando quella impostazione teleologica che rendeva scontata e inevitabile lâaffermazione di visioni e ideologie incentrate sulla nazione.
Pur non essendo una figura di primo piano, Giuseppina Martinuzzi presenta diversi motivi di interesse proprio in rapporto al dibattito pubblico e alla ricerca scientifica attuale. Istriana di Albona e rimasta sempre vicina alla realtĂ locale specifica di quel territorio, la Martinuzzi operĂČ per la gran parte della sua vita adulta a Trieste, dove esercitĂČ unâintensa attivitĂ culturale, letteraria e politica. Certamente presente nella memoria storica locale, ma poco conosciuta al di fuori dei confini giuliani, la sua figura si caratterizza per il rifiuto di accettare la contrapposizione fra italiani e âslaviâ, soprattutto dopo lâadesione al socialismo a metĂ degli anni Novanta dellâOttocento, che giunse dopo un lungo impegno nellâassociazionismo mazziniano e âirredentistaâ. In questa prima fase Giuseppina era stata in contatto con esuli dellâImpero nel Regno, nonchĂ© con vari ambienti culturali e politici italiani. Tali legami e la sua partecipazione in patria allâassociazionismo volontario e culturale la pongono in una posizione di spicco nel processo di nazionalizzazione degli italofoni della Venezia Giulia. Dopo lâadesione al socialismo, e segnatamente nella variante internazionalista di Trieste, il suo impegno si rivolse a superare lâantagonismo etnonazionale con i conterranei sloveni e croati, ad attraversare, metaforicamente, un altro tipo di confine, in netta opposizione ai discorsi irredentisti o nazionali che si stavano sviluppando nel capoluogo giuliano. Come si vedrĂ , proprio la relazione tra questi due tipi di confine rende interessante il suo percorso a un secolo di distanza. Per etĂ avrebbe potuto essere la madre o anche la nonna di quegli âintellettuali di frontieraâiv che nel secondo decennio del nuovo secolo, soprattutto a Firenze, attorno a âLa Voceâ di Prezzolini, introdussero gli italiani alla complessa realtĂ giuliana e iniziarono una feconda opera di mediazione culturale con la Mitteleuropa, manifestando idee sulla nazione e sulla vita nazionale di sorprendente modernitĂ . Per formazione, sensibilitĂ e cultura lei invece apparteneva interamente allâOttocento, di cui avrebbe mantenuto con continuitĂ , passando per lâiscrizione al Partito Comunista dâItalia nel 1921, lâethos risorgimentale, lâumanitarismo sociale e lâorientamento positivista. A differenza tuttavia degli âintellettuali di frontieraâ, che per la maggior parte aderirono allâinterventismo democratico, ritagliandosi in tal modo un loro spazio nel discorso nazionale italiano, la Martinuzzi non deflettĂ© dalla posizione internazionalista, mostrando di avere una posizione autonoma dalla prospettiva nazionale ereditata dalla tradizione risorgimentale.
In entrambe le fasi di questo percorso di Giuseppina Martinuzzi la dimensione di genere consente di evidenziare il rapporto significativo e problematico che si stabilĂŹ tra donne e nazione durante tutto il âlungo Ottocentoâ. Se da un lato infatti le donne parteciparono attivamente ai movimenti nazionali e alla loro produzione discorsiva e pedagogica, dallâaltro lato furono fortissime le ansie di controllo delle barriere di genere, di disciplinamento dei corpi e desideri femminili, sia allâinterno della famiglia/nazione, sia in relazione allâAltro, allo Straniero, che attraverso le donne poteva minacciare la sicurezza e lâonore della nazione. Da qui, anche, le ambivalenze del femminismo ottocentesco nei confronti del discorso nazionale, tra un sostanziale assenso nei confronti dei progetti di nation-building da una parte e il tentativo di superarne quegli aspetti sentiti come limitativi dellâesperienza e della libertĂ femminile dallâaltra, fino al rifiuto di quanto era ritenuto lesivo dei principi stessi che costituivano âil femminileâ, quale in primo luogo il militarismo, ma anche, come si vedrĂ a proposito della Martinuzzi, lo stesso nazionalismo (cfr. Porciani 2002, 13; Sluga 1998, 98 e 100). Giuseppina da parte sua avrebbe vissuto tali tensioni in prima persona, partecipando allâinizio attivamente al movimento nazionale da una posizione femminista, che comportava sia la âtrasgressioneâ di determinate barriere di genere, sia declinazioni particolari dellâidea di patria, e successivamente, con lâadesione al socialismo, âtrasgredendoâ il confine stesso della nazionalitĂ ed elaborando idee alternative di âpatriaâ che avevano appunto nel âfemminileâ il loro fulcro.
Pluralismo risorgimentale e nazionalismo postunitario
Prima dei tre figli di Giovanni e di Antonia Lius, Giuseppina Martinuzzi nacque in una famiglia benestante e appartenente allâĂ©lite locale. Il padre fu piĂč volte podestĂ di Albona e diede un convinto appoggio ai moti del Quarantotto, analogamente a quanto fece lâamico Tomaso Luciani, letterato e storico locale. Anche questi fu a lungo al governo della cittĂ e, dopo essersi trasferito definitivamente in Italia nel 1861, continuĂČ a propugnare in vari circoli la causa irredentista in stretta collaborazione con Carlo Combi, e a seguire da lontano gli studi e i progressi della giovane Giuseppina ad Albona.
Il Quarantotto coinvolse anche le nazionalitĂ nel Litorale austriaco: ha origine in questo periodo la diffusione di una coscienza nazionale slovena e croata che resisteva allâassimilazione nel gruppo italiano. CiĂČ causĂČ, specie in Istria, il senso della rottura di un secolare equilibrio di coesistenza, in particolare del mito di una koinĂ© veneto-istriano-dalmata nel territorio dellâex Repubblica di San Marco (Cervani 1994, 110-111). Nondimeno era ancora possibile immaginare modelli positivi di convivenza tra le nazionalitĂ dellâAdriatico orientale a beneficio dellâEuropa intera (cfr. Cattaruzza 2007, 17-18). La dimensione autonomista e regionalista della âprimavera dei popoliâ in quellâarea richiama caratteristicamente la visione dei federalisti come Carlo Cattaneo, in cui pluralitĂ e diversitĂ restava essenziali alla realtĂ umana, e lo Stato Ăš concepito in sĂ© come unââimmensa transazioneâ (Lacaita 2006, 141). La creazione dello Stato nazionale italiano avrebbe mutato significativamente la prospettiva. Certamente le difficoltĂ che questâultimo nei primi tempi aveva dovuto affrontare in termini di squilibri interni, di sfide alla propria legittimitĂ e di insuccessi militari, aveva portato a privilegiare quelle figure del discorso nazionale che enfatizzavano la forza e la compattezza verso lâesterno, la nettezza dei confini, lâunitĂ âdâarme, di lingua, dâaltare / di memorie, di sangue e di corâ, nonchĂ© quegli aspetti dello stesso pensiero mazziniano che concepivano lâunitĂ come un âtutto organicoâ (cfr. Lacaita 2006, 141-142) e la manifestazione pubblica delle diversitĂ come debilitante, un retaggio di epoche passate. Lâapproccio ufficiale nei confronti delle minoranze alloglotte fu improntato senza remore allâassimilazione, instaurando nella politica scolastica una differenziazione gerarchica tra le lingue delle minoranze, con al vertice il francese e in fondo lo sloveno (Raicich 1996)v. CosĂŹ, quando 35.000 sloveni delle Valli del Natisone furono annessi allâItalia nel 1866, fu loro interdetto lâinsegnamento nella lingua materna, e fu respinto pure un testo scolastico bilingue redatto da Antonio Podrecca con lâesplicito intento di facilitare ai bambini lâapprendimento dellâitaliano (cfr. Ara 2009, 423; Gatterer 1994, 48-49).
Naturalmente non erano solo gli italiani a insistere sullâassimilazione o a formulare una gerarchia culturale che sminuiva le istanze di popolazioni considerate di minore importanza (cfr. Wörsdörfer 2004b, 57-60). La sottomissione di queste ultime in nome di una civiltĂ âsuperioreâ o di maggior prestigio non era neppure una strategia retorica recente, anche se assunse una particolare declinazione nel secolo della nazionalizzazione, dellâimperialismo e della fede nel progresso evolutivo (Petri 2005). CiĂČ richiama unâaltra dimensione del confine, quella culturale o di âciviltĂ â, con riferimento in particolare a quelle linee indefinite e sfuggenti che da secoli hanno percorso lâEuropa definendo al suo interno la civiltĂ e la rozzezza, ma che a partire dalla prima etĂ moderna, e specialmente dal Settecento, si sono cristallizzate nel loro valore attuale, dividendo un nucleo europeo, âmodernoâ e âprogreditoâ, da aree periferiche orientate soprattutto verso est e verso sud, e segnate da âproblematicitĂ â e âarretratezzaâ che rendevano la loro europeitĂ culturalmente incerta e le proiettavano verso lââOrienteâ, il âLevanteâ, lââAffricavi. In questa dinamica di gerarchie sociali, culturali e internazionali, un elemento fondamentale era il contrasto fra cittĂ e campagna â un contrasto certamente antico, ma che sarebbe stato particolarmente esplosivo nel Litorale Adriatico, dove gli italiani erano maggioranza in tutte le realtĂ urbane pur essendo complessivamente minoranza nelle unitĂ amministrative dello stesso Litorale, con lâeccezione di Trieste e il suo circondario. Come ha sottolineato Marta Verginella, tale contrasto sarebbe stato essenziale nella riduzione del plurilinguismo e della multietnicitĂ della regione alla rappresentazione dualistica di italiani e âslaviâ, e quindi della ârivendicazione del primato politico della nazione cittadina su quella contadina, delle cittĂ italiane sulla campagna slavaâ (2008, 779)vii. Esso Ăš comunque significativo giĂ nel discorso irredentista che si veniva articolando in Italia, e che si caratterizzava per la rivendicazione allââitalianitĂ â del lascito dellâantica Roma o della Serenissima, e per la rimozione e la svalutazione delle popolazioni alloglotte, ascritte tout court al mondo ruraleviii.
NellâIstria in cui crebbe Giuseppina Martinuzzi lâassetto etnico era intricato, ma lâĂ©lite italiana diventava complessivamente piĂč debole in quanto stava venendo meno il rapporto di tipo patriarcale che aveva legato le masse contadine alle Ă©lite; lo stesso antagonismo nazionale avrebbe assunto in quei luoghi peculiari connotazioni di classe (Rusinow 1969, 22-24)ix. Giuseppina era cresciuta a contatto con la popolazione croata di Albona (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 95), anzi, da questo contatto aveva sviluppato una spiccata sensibilitĂ sociale che lâavrebbe accompagnata tutta la vita (Martinuzzi 1899a in Cetina 1970, 67). La sua formazione culturale aveva avuto luogo unicamente nella casa paterna, ma era stata ben piĂč vasta e solida rispetto a quella solitamente ricevuta dalle ragazze del suo ceto, incoraggiata comâera dalla famiglia e seguita, anche a distanza, da Tomaso Luciani. Sin dallâadolescenza, inoltre, coltivava la poesia e gli interessi letterari, e aspirava a diventare scrittrice (Gabrielli 1996, 50). Ma le mura domestiche non esaurivano certo le sue ambizioni e il suo bisogno di autonomia, se nel 1873, non piĂč giovanissima, ottenne il diploma magistrale e i primi incarichi nelle scuole popolari, approdando infine nel 1877 a Trieste, non per caso, ma in base a un progetto risolutamente perseguito. Qui la sua attivitĂ professionale si sarebbe svolta, fino al pensionamento nel 1905, nelle scuole popolari di quartieri poveri, in un contesto che sollecitava il suo impegno sociale oltre che didattico, e a cui lei rispose pienamente assumendo il ruolo â invero diffuso nellâesperienza femminile di secondo Ottocento â della âmaestra-madreâ, ossia di âsoggetto capace di trasmettere conoscenza e valoriâ (Gabrielli 1996, 54). Tale ruolo aveva una rilevanza fondamentale nelle concezioni patriottiche ottocentesche in quanto accordava alle donne una missione pubblica che estendeva quella ânaturaleâ propria della sfera famigliare, armonizzandole entrambe.
Conflitti nazionali a Trieste
Quando vi arrivĂČ la Martinuzzi, Trieste si trovava in una fase cruciale e delicata della sua storia. Quarta realtĂ urbana dellâImpero dopo Vienna, Budapest e Praga, viveva una forte trasformazione economica, sociale e civile, nella quale gli effetti della modernizzazione sarebbero stati presto declinati in termini di conflitto etnonazionale. Lo sviluppo della cittĂ e i cambiamenti nelle campagne vi richiamavano un robusto movimento migratorio, in conseguenza del quale, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quasi la metĂ della popolazione proveniva da fuori (Wörsdörfer 2004a, 22). Ă in questo quadro di grande mobilitĂ spaziale e sociale, di pluralitĂ linguistica e culturale, che presero piede gli antagonismi etnici in questâarea dellâImpero. Gli inizi della mobilitazione nazionale slovena e croata promettevano di modificare drasticamente la posizione e il peso complessivi della nazionalitĂ italiana, di per sĂ© indebolita dal distacco del Veneto nel 1866, e in particolare di innestare una competizione tra italiani e sloveni proprio per Triestex (meno o per nulla problematica era invece la convivenza con altre minoranze che non mettevano in discussione lâegemonia italiana). La reazione della borghesia triestina rappresentata dal Partito Liberale Nazionale fu di impedire a tutti i costi la costituzione di una presenza pubblica slovena che conferisse alla cittĂ un carattere binazionale, a costo di violare la salvaguardia dei diritti nazionali garantiti dalla Costituzione del 1867. Nonostante gli italiani rimanessero convinti sia del carattere artificioso delle rivendicazioni degli âslaviâ nella Venezia Giulia, sia del ruolo attivo degli austriaci dietro di esse, in realtĂ le autoritĂ centrali rimasero generalmente acquiescenti nei confronti degli abusi di parte italiana almeno sino agli albori del Novecento, quando lâemergere dellâipotesi trialistica (ovvero della ristrutturazione dellâImpero attorno a tre nazionalitĂ dominanti, la tedesca, lâungherese e la âslavaâ) produsse un marcato cambiamento in favore degli sloveni (Cattaruzza 1989, 46-48; Greenfield 1967, 504 e 508).
Fino al nuovo secolo, comunque, gli antagonismi erano lungi dallâarticolarsi in progetti politico-nazionali definiti e si basavano piuttosto sulle contrapposizioni attorno al confine di âciviltĂ â o al contrasto fra cittĂ e campagna. La stessa difesa intransigente del carattere italiano della cittĂ ebbe con lâirredentismo un rapporto quantomeno ambivalente. Una presenza giovanile irredentista in nome dellâautodeterminazione dei popoli, di orientamento radicale, in contatto con ambienti popolari, garibaldini e repubblicani del vicino Regno, si manifestĂČ a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta; era comunque troppo marginale per creare veri problemi alle autoritĂ asburgiche, e si spense dopo la stipulazione della Triplice Alleanza e lâimpiccagione di Oberdan. CiĂČ che si profilĂČ in seguito fu un tipo di irredentismo solidamente legalitario, espressione dei âceti emergenti dei liberi professionisti, dei funzionari pubblici, della piccola e media imprenditoriaâ (Wörsdörfer 2004b, 61), che guardava allâItalia come alla patria culturale, ma che non si poneva la questione di come unirsi ad essa, e i cui successivi aneliti di congiunzione erano mossi soprattutto dalle preoccupazioni per la montante âmarea slavaâ (Cattaruzza 1998a, 210). Si trattava cioĂš di un irredentismo che si caratterizzava soprattutto come antislavo, impegnato in primo luogo a conservare quegli assetti che assicuravano lâegemonia italiana e ad estendere la propria base consensuale presso i ceti piccolo-borghesi e successivamente proletari (Capuzzo 2001, 65). In tal modo anche a Trieste venivano riprodotte dinamiche consuete nello Stato asburgico, quali il dominio della Kulturnation sui âpopoli senza storiaâ; la competizione etnica per lâaffermazione del proprio peso relativo nella compagine statale e per lâoccupazione delle istituzioni pubbliche, con lâassoggettamento delle altre nazionalitĂ (Apih 1988, 89; Cattaruzza 1989, 30)xi; il ruolo fondamentale delle istituzioni locali e dellâassociazionismo della societĂ civile, in particolare nella politica scolastica, per nazionalizzare realtĂ multietniche in contrapposizione a un Altro interno. Questo contesto favoriva la contrapposizione anche di specifiche âideologieâ e relativi paradigmi declinati in senso etnonazionale (Verginella 2007, 36-43; 2008; 2009): in questo senso la cultura politica italiana era rappresentata come urbana, liberale, laica se non anticlericale e potenzialmente separatista; quella slovena invece come radicata nelle campagne, cattolica, popolare e lealista. Tuttavia, ricorda Angelo Ara, la spaccatura lungo linee nazionali si sarebbe verificata nel Litorale Adriatico in tutte le famiglie ideologiche, a cominciare da quelle borghesi-liberali per continuare in quelle cristiano-sociali, e producendo tensioni persino nel campo socialista. Finanche la lealtĂ allo Stato asburgico non sarebbe stata âsufficiente ad avvicinare gli italiani e gli sloveni che si riconosc[evano] nella monarchia danubianaâ (Ara 2009, 310 e 312). Nello stesso ambito culturale, il ruolo di mediazione con le culture dellâImpero che fu svolto nel territorio giuliano sin dagli albori del Novecento fu praticamente inesistente nei confronti della cultura âslavaâ piĂč prossima, slovena in particolare.
A Trieste Giuseppina Martinuzzi si diede a una densa e apprezzata attivitĂ letteraria, pubblicista, culturale e didattica (nel 1886 vide la pubblicazione il suo lodatissimo Manuale mnemonico), inserendosi in una rete di rapporti dalla fisionomia ben definita. Oltre a corrispondere in prima persona con Tomaso Luciani, che probabilmente la avvicinĂČ ai circoli di esuli giuliani irredentisti in Italia (Scotti 1978-81, 236), entrĂČ in contatto epistolare con i coniugi Filippo ed Emilia Zamboni e con Amilcare Cipriani. Frequentava inoltre le scrittrici triestine Elda Gianelli e le sorelle Adele ed Argelia Butti, le quali ultime erano collaboratrici del periodico âLa donnaâ, il principale organo dell’emancipazionismo femminile in Italia, fondato e diretto da Gualberta Alaide Beccari, e letto volentieri anche da Giuseppina. Si trattava cioĂš di ambienti di orientamento mazziniano con venature radicali e libertarie, che associavano la Martinuzzi a esperienze politiche ben definite al di lĂ del confine. Particolarmente significativa sarebbe stata la sua adesione pure alla SocietĂ Operaia Triestina (SOT), fondata nel 1869 da esponenti mazziniani, garibaldini e radicali della SocietĂ del Progresso con lâintento di realizzare lâallargamento del suffragio, la completa separazione tra Stato e Chiesa, la diffusione dellâeducazione popolare, e il miglioramento della condizione operaia attraverso la creazione di un movimento cooperativo e mutualistico (Cattaruzza 1998b, 19-25). In questâambito Giuseppina divenne amica e collaboratrice dellâex garibaldino Edgardo Rascovich, il âpiĂč dinamico ed aperto dei dirigentiâ (Apih 1991, 13; Piemontese 1974, 156) della SOT. Assieme alle Butti fu poi molto attiva nella Sezione femminile, diventandone segretaria nei primi anni Ottanta e collaborando al periodico della stessa SOT âLâOperaioâxii.
âLâOperaioâ esprimeva un orientamento sicuramente democratico. Vi si trovano articoli attenti ai problemi sociali, improntati allâetica del lavoro, alla dignitĂ del lavoratore, e dedicati a cause umanitarie, contro le spese militari e gli eserciti stanziali, contro la pena di morte e per la dignitĂ degli imputati, per la pace tra le nazioni, e per i diritti delle donne (anche se con un indirizzo piĂč conservatore nel corso del tempo). Al di lĂ comunque dei principi di fratellanza tra i popoli, cui ci si richiama sempre, il giornale si caratterizza pure per una spiccata conflittualitĂ verso gli sloveni, a testimonianza da un lato dellâallineamento da parte della SOT al campo liberalnazionale, e dallâaltro del ruolo di primo piano della SOT nella nazionalizzazione dei triestini di lingua italiana.
La pluralitĂ etnica di un territorio viene sostanzialmente negata nellââOperaioâ. Altre nazionalitĂ possono vivere sul medesimo territorio solo in quanto ospiti della nazione maggioritaria. LâitalianitĂ di Trieste Ăš determinata dalla storia, dal fatto di essere stata âuna colonia romana, un municipio italianoâ. Di conseguenza, ogni manifestazione pubblica di diversitĂ nazionale viene intesa quale rivendicazione territoriale, e in quanto tale illegittima, unâespressione di âsciovinismoâxiii. Lâascesa del socialismo classista e internazionalista Ăš seguita dallââOperaioâ con apprensione, sebbene se ne condividano molti obiettivi immediati. In particolare la pluralitĂ linguistica e culturale appare foriera di caos o di disgregazionexiv.
Lâassociazione di un territorio, un popolo, una lingua, una nazione viene affermata riprendendo le consuete immagini della comunitĂ di parentela e di discendenza, utilizzandole con densa valenza di significati, incluso lâorrore per lâillegittimitĂ o la contaminazione, quando ad esempio si deplora il âcosmopolitismoâ dei socialisti che avrebbe condotto allââimbastardimento dellâumanitĂ tuttaâ (âFaustinâ 1888). La metafora della nazione come famiglia definita dai suoi legami di sangue esorcizza nelle zone di confine o nelle fasi di nazionalizzazione la possibilitĂ di scelte diverse, âanazionaliâ. Da qui il passo Ăš breve al concetto di ârazzaâ come paradigma per leggere i fenomeni politici. La rilevanza attribuita a concetti come la stirpe o la razza finisce per introdurre un elemento di fatalismo nella lotta tra le nazioni, che sarĂ negli anni percepita come scontata e inevitabile, al punto da contraddire lo stesso proprio impegno per la pace tra i popolixv, o da esaltare il valore della lotta nazionale di per sĂ©xvi. Anche il contrasto fra cittĂ e campagna, di cui si Ăš giĂ detto, inasprisce lâantagonismo con gli sloveni irrigidendolo in una gerarchia di rapporti che non ammette accordi o cedimentixvii.
Lâirredentismo di Giuseppina Martinuzzi
Come si collocava Giuseppina Martinuzzi in questo complesso discorsivo sviluppatosi in un ambiente di cui era parte? Anche se Ăš difficile circoscrivere la sua concezione nazionale in affermazioni univoche, si riscontrano tuttavia note dissonanti rispetto ai toni or ora considerati. Ă significativo al riguardo un articolo che lei scrisse nel 1886, con il consueto pseudonimo di âCamillaâ, per il quotidiano triestino irredentista âLâIndipendenteâ. Parla di Albona, della sua âpiccola patriaâ, del paesaggio, dellâimpronta veneta e romana sulla cittadina, degli albonesi che âci tengono molto a queste memorie parlanti dâun passato non oscuro nĂš inglorioso; e sanno conservare puro e intatto il loro carattere nazionale, fra mezzo un distretto interamente slavoâ. LâitalianitĂ degli albonesi viene fieramente rivendicata nei confronti dei detrattori, âe se si passa di buon accordo cogli slavi del distretto, ciĂČ vuol dire che Albona sa rispettare i diritti umani e sociali, e conosce lâimportanza della popolazione agricola, e sente che cittadini e campagnuoli, italiani e slavi, colti ed idioti si restringono tutti sotto un solo concetto; quello di uomoâ (âCamillaâ 1886).
Spicca immediatamente lâimplicita contrapposizione a Trieste. Nellâarticolo della Martinuzzi la âpiccola patriaâ albonese sa instaurare rapporti pacifici fra italiani e âslaviâ mantenendo al tempo stesso una fisionomia italiana, non entra in conflitto con il proprio retroterra rurale, e non deflette dai propri principi di uguaglianza e dignitĂ umana. Soprattutto, viene qui riconosciuta la realtĂ della presenza âslavaâ, e senza che ciĂČ comporti, a quanto si legge, pericoli per gli italiani, pur in un âdistretto interamente slavoâ. Probabilmente Ăš stato proprio questo articolo a dettare una lettera di Tomaso Luciani nel 1° luglio di quellâanno, in cui le si ricorda che
ânoi siamo per necessitĂ in istato di guerra: quindi anche nel parlare di Albona (e cosĂŹ di qualunque cittĂ , borgata o localitĂ particolare dellâIstria) noi dobbiamo allargare sempre la vista al paese intiero, dalle Giulie al Quarnaro. Nessuna concessione adunque dobbiamo mai dare nelle polemiche. Se difenderemo il tutto salveremo le parti [âŠ]. Ammettendo che il distretto sia intieramente slavo (tredici e piĂč mila abitanti) lâitalianitĂ dei duemila del capoluogo conterebbe un bel nulla nella opinione pubblica che Ăš regina del mondo.
Ma non Ăš vero che dei tredicimila [tutti] siano prettamente slavi; sono varii dâorigine sono venuti in tempi diversi [âŠ]. Il risveglio culturale delle popolazioni delle nostre campagne in senso slavo va calcolato fino a un certo punto perchĂš Ăš risveglio fittizio [âŠ]. Confermando dunque che nel campo della logica ella ha perfettamente ragione io [âŠ] le consiglio di non far mai concessioni al nemico, ma di valervi nel combatterlo di tutti i diritti, di tutti gli stratagemmi che concede lo stato di guerra. Fatta un giorno la pace tornati fratelli potremo rifare i conti e aggiustarciâxviii.
Si riscontra in questo scambio di idee anche una dimensione di genere, che riproduce il topos ricorrente dellâuomo ârealistaâ che richiama la donna âanima bellaâ allâesistenza di uno âstato di guerraâ e allâinevitabilitĂ del conflitto. In ogni caso appaiono chiare giĂ qui le peculiaritĂ dellâirredentismo di Giuseppina Martinuzzi in questo periodo: il sostegno allâitalianitĂ , quale legittima espressione della propria nazionalitĂ , che non esclude ma implica il riconoscimento della pluralitĂ etnica del territorio, e la prospettiva della âpiccola patriaâ, anchâessa declinata in una dimensione di genere, che, proprio perchĂ© priva di ambizioni egemoniche, legata al territorio concreto e alle sue peculiaritĂ , puĂČ sottrarsi alla logica del conflitto e rende possibile tale riconoscimentoxix. Tuttavia il distacco dallâirredentismo Ăš ancora lontano; piĂč che di critica Ăš forse il caso di parlare di diversa declinazione di un discorso nazionale ancora ampiamente condiviso.
Di lĂŹ a poco infatti Giuseppina Martinuzzi si imbarcava nella fondazione e nella direzione della rivista letteraria âPro Patriaâ, concepita come âbraccio culturaleâ dellâassociazione irredentista omonima. La societĂ Pro Patria era stata fondata a Rovereto nel 1885 in reazione ai tentativi di penetrazione nel Trentino da parte dei pangermanici Deutsche Schulvereine (associazioni per le scuole tedesche), da cui mutuava statuti e finalitĂ xx. Sciolta dâautoritĂ per sospetto irredentismo, sarebbe rinata nel 1890 sotto il nome di Lega Nazionale, coltivando stretti contatti con la SocietĂ Nazionale Dante Alighieri al di lĂ del confine. Nel Litorale austriaco la Lega Nazionale si sarebbe soprattutto contrapposta agli âslaviâ, ingaggiando una competizione con lâomologa SocietĂ Cirillo e Metodio per la conquista e la nazionalizzazione delle giovani generazioni.
Fu nellâautunno del 1887 che Giuseppina Martinuzzi palesĂČ pubblicamente la sua intenzione di sostenere il lavoro della Pro Patria con un giornale letterario da lei direttoxxi. Sin dallâinizio dovette scontrarsi con lo scetticismo generale e con gli stessi ambienti irredentisti che concepivano per una donna un ruolo puramente ausiliario (Apih 1991, 17-21) e trovavano anomalo il fatto stesso che dirigesse una rivista (Scotti 1978-1981, 239). Fu lei comunque a spuntarla, e il primo numero di âPro Patriaâ vide infine la luce nel maggio 1888. Il periodico ebbe invero unâesistenza alquanto travagliata, angustiata dalle difficoltĂ economiche e politiche, come il sequestro del sesto fascicolo nel settembre 1889, che causĂČ il cambiamento del nome in âPro Patria Nostraâ. Nonostante un appello personale della Martinuzzi nellâottobre di quellâanno a tutti e ventinove i deputati della Sinistra al parlamento del Regno italiano, la rivista chiuse definitivamente i battenti allâinizio del 1890, vittima probabilmente di un mancato accoglimento nella realtĂ locale, del fatto cioĂš che âa Trieste era ormai difficile pubblicare senza adeguato sostegno politicoâ (Apih 1991, 27). Nondimeno, in questo esperimento appare chiara la determinazione di Giuseppina Martinuzzi a infrangere consolidate barriere di genere e a rivendicare il suo diritto a partecipare pienamente, in prima persona, allâattivitĂ patriottica (Apih 1991, 23).
âPro Patriaâ annoverava collaboratori vicini alla Martinuzzi per rapporti personali o affinitĂ politiche, come Tomaso Luciani (che produsse un saggio a puntate su Pietro Kandler e una raccolta a piĂč riprese di proverbi albonesi), la poetessa Elda Gianelli o i poeti ribelli e anticlericali Filippo Zamboni e Mario Rapisardi, ma anche altri piĂč lontani come Giulio Cesari (Cesari 1929, 111), il poeta Riccardo Pitteri, cofondatore della Lega Nazionale, Zaccaria Maver, che vi scrisse un articolo filosofico di impianto positivista e un articolo contro il socialismo, il docente ed ex sacerdote Mario Tedeschi, esule nel Regno, di cui la rivista pubblicĂČ lo scritto Il sentimento nazionale degli istriani studiato nella storia, volto a dimostrare lâessenziale italianitĂ degli istriani e lâantichitĂ della loro civiltĂ , di contro al carattere intrusivo e barbaro della presenza âslavaâ. La rivista si caratterizzava quindi per unââambigua fisionomia nazionalistaâ (Curci Ziani 1993, 196), ovvero un approccio alquanto eclettico, in cui versi e bozzetti letterari si trovavano fianco a fianco ad articoli filosofici e scientifici, gli annali istriani alla bibliografia foscoliana, i versi di Omero alle credenze popolari, Verga alle poesie dialettali, i processi alle streghe in Trentino alla poesia popolare romena e alla letteratura femminile in Italia, nonchĂ© alla recensione di Sullâoceano, lo scritto di De Amicis â un autore caro alla Martinuzzi e senzâaltro affine alla sua sensibilitĂ â dedicato allâemigrazione italiana transoceanica. Come si vede, la dimensione locale si combinava con lâesigenza di estendere lo sguardo, di allargare lâorizzonte, presentando un quadro composito e articolato dellâesperienza culturale italiana anche nelle sue forme popolari, marginali, periferiche, e riuscendo ad âattirare [âŠ] una viva attenzione per la letteratura triestino-istriana in tutta la letteratura italiana di quel tempoâ e ad assicurarsi lâadesione anche di intellettuali croati e sloveni (Scotti 1978-1981, 240).
Lâabbandono dellâirredentismo e lâapprodo al socialismo
Conclusa lâesperienza di âPro Patriaâ, nella prima metĂ degli anni Novanta maturĂČ il distacco di Giuseppina Martinuzzi dagli ambienti irredentisti. Tra le tappe che scandirono questo percorso, conclusosi con lâiscrizione al Partito socialista nel 1896, vanno certo annoverati i due scontri che lei ebbe con la luogotenenza, il primo nel 1891, per un articolo pubblicato sul periodico roveretano âIl Raccoglitoreâ in cui si condannava, in sintonia con lâopinione della grande maggioranza della cittĂ , lâabolizione del portofranco di Trieste; il secondo nel 1894 per un articolo apparso sullââIstriaâ lâanno prima, in cui si elogiava la Lega Nazionale e si parlava di âpopolazioni italiane soggette allâAustria (Apih 1991, 27-28). Ma a comminarle due volte la âsevera redarguizioneâ era stato il podestĂ liberalnazionale Ferdinando Pitteri, eletto a quella carica proprio per la professione dâirredentismo che ora sanzionava in lei: âCosĂŹ sapeva costui sconfessare i sentimenti dâitalianitĂ di fronte alle autoritĂ austriacheâ, sarebbe stato anni dopo il commento della Martinuzzi alla vicendaxxii. Non manca comunque anche in questo caso una chiara dimensione di genere, evidenziata dal fatto che lei fosse sottoposta a procedimento disciplinare per aver trasgredito i confini della sfera femminile, per aver espresso il suo patriottismo in unâattivitĂ pubblica e politica. Ă questo lâevidente sottinteso di una lettera scrittale da Luciani il 22 novembre 1891, in cui il vecchio mentore la richiama al ruolo della âmaestra-madreâ e allâopportunitĂ di âvelareâ âcerti concettiâ:
âQuello che Ăš succeduto [âŠ] doveva succedere, [âŠ] mi meraviglio anzi che non sia successo prima di addesso, mi pareva perfino châella talvolta desideri e provochi lâevento come un trionfo. Mâintenda bene perĂČ: tacqui perchĂš non ho mai disapprovato i pensieri e i concetti châella veniva svolgendo⊠ma ho pensato piĂč volte che certi concetti avrebbe dovuto velarli come si velano le cose delicate⊠Deplorerei châella abbandonasse il paese e il pubblico insegnamento⊠Importa educare con alti ideali la generazione che le cresce dâintorno⊠à sulle ginocchia delle madri che si formano gli eroiâ (cit. Apih 1991, 27-28).
Al tempo stesso Giuseppina Martinuzzi compĂŹ un processo di revisione critica dei miti e delle pratiche del nazionalismo del suo tempo, che lâavrebbe portata a rigettare gli aspetti piĂč trionfalistici e autoritari per valorizzare invece il filone ribelle e antimoderato dellâereditĂ risorgimentale, il patriottismo che trascolora nel cosmopolitismo e nella lotta per tutta lâumanitĂ oppressa. Le ambizioni e le sconfitte coloniali dello stato italiano le dovevano dare non pochi spunti al riguardo, a cominciare da due poesie, Alle madri italiane dopo Amba Alagi e Dopo MacallĂš, questâultima andata perduta (Scotti 1978-1981, 245, n. 6). Lâode Alle madri italiane, pubblicata sul âRaccoglitoreâ alla fine del 1895xxiii, mostra ancora lâampia influenza di topoi e figure centrali nel discorso nazionale ottocentesco, quali la âmaternitĂ dolorosaâ e il valore dellâonore e del sacrificio per la patriaxxiv; essa tuttavia rimane, nelle parole di Elio Apih, âforse lâultimo suo scritto ispirato a un sentimento nazionale inteso alla maniera liberale, cioĂš distinto dalla valutazione storica e socialeâ (1991, 29).
Poco tempo dopo lei inizia uno scambio epistolare con una vittima illustre delle imprese coloniali italiane, il generale Oreste Baratieri, ex governatore della colonia Eritrea, che, sconfitto alla battaglia di Adua nel 1896, venne ritenuto responsabile di tutte le disfatte militari in Etiopia, arrestato e sottoposto ai âpiĂč atroci vituperiâxxv da parte della stampa nazionale. Giuseppina Martinuzzi scrive articoli in sua difesa sul âRaccoglitoreâ e sul giornale socialista triestino âIl Lavoratoreâ, sâinforma presso Scipio Sighele dellâimminente processo e, evidentemente, delle possibilitĂ di scrivere a favore di Baratieri anche sui periodici romani, diventa infine amica dellâormai ex generale, che nel frattempo era stato prosciolto dalle accuse e messo a riposo. Baratieri le manda una copia del suo libro Memorie dâAfrica; si dichiara vittima delle autoritĂ politiche e militari italiane, che ne hanno fatto un capro espiatorioxxvi; riconsidera criticamente le scelte della classe dirigente del Regno, che ha preferito inseguire velleitĂ di potenza anzichĂ© la coesione socialexxvii; si dimostra invece piĂč esitante su altre sollecitazioni, dal socialismo ai âtorbidi di Milanoâ fino allâinsegnamento nella lingua materna per le popolazioni alloglotte (âIo non conosco abbastanza la quistione; ma se il fatto Ăš quale Ella lo dice, nessun dubbio che giustizia, progresso, umanitĂ , bisogno di luce impongano di lasciare agli Slavi il campo libero dellâistruzione nella propria linguaâxxviii). Dâaltra parte, Ăš significativo lâinteresse di Giuseppina Martinuzzi nei confronti dellâex garibaldino ed ex âirredentoâ Baratieri (proveniva dal Tirolo e aveva italianizzato il cognome originario Baratter), in quanto riflette un percorso analogo al suo medesimo, la scelta per lâItalia da oltre confine, il trauma vissuto a proposito di un aspetto basilare dellâideologia e dellâesperienza nazionale di tardo Ottocento quale il valore militare e lâespansione coloniale, il ripensamento e il distacco proprio su tale motivo centrale. Lo stesso suo âsondarloâ su determinati temi politici puĂČ ben riflettere il desiderio di trovare in lui unâaltra figura di âpatriota ribelleâ al pari di Filippo Zamboni o di Amilcare Cipriani, sui quali avrebbe scritto e tenuto conferenzexxix, patrioti che non persero mai di vista la causa della fratellanza tra i popoli e che finirono incompresi, emarginati o addirittura proscritti nello Stato italiano di fine Ottocento. Tali figure, cosĂŹ significative per la Martinuzzi sia nella sua fase âirredentistaâ sia in quella âsocialistaâ, sembrano incarnare la continuitĂ dei suoi ideali e dare ragione del suo passaggio al socialismo internazionalista.
In quel periodo invero, oltre a Giuseppina Martinuzzi, furono diverse a Trieste le personalitĂ della galassia liberale e democratica italiana â Angelo Vivante, Carlo Ucekar, Giovanni Oliva e Valentino Pittoni â che abbandonarono la prospettiva nazionale e ad aderirono al movimento socialista conferendogli, proprio in ambito triestino, quellâimpronta spiccatamente internazionalista che lo differenziava da quello trentino. Per una sorta di eterogenesi dei fini, la SOT doveva rivelarsi un semenzaio di quel socialismo classista e cosmopolita da essa considerato sin dallâinizio con apprensione e diffidenza. A diversi triestini che provenivano da quellâesperienza la visione nazionale appariva ora angusta e regressiva.
Il socialismo austromarxista
A partire dagli anni Ottanta furono introdotti nellâImpero asburgico, sulla scia della Germania bismarckiana, i primi elementi di sicurezza sociale. LâobbligatorietĂ dellâassicurazione sociale e il suo carattere universalistico, indipendente cioĂš dalla nazionalitĂ del beneficiario, mettevano in crisi, specialmente per la parte italiana, il mutualismo volontario e interclassista su base nazionale quale era stato rappresentato fino ad allora in primo luogo dalla SOT; ancor piĂč mettevano in discussione le modalitĂ di governo nella cittĂ giuliana, retto sulle prerogative municipali della Costituzione di Trieste del 1850 e gestito nellâinteresse della borghesia italiana, a difesa esclusiva della comunitĂ italiana. LâĂ©lite irredentista triestina da parte sua si oppose finchĂ© potĂ© a tali cambiamenti, protestando contro tali politiche di âsnazionalizzazioneâ da parte di Vienna. Altri italiani tuttavia, che giĂ avevano sviluppato una sensibilitĂ sociale spesso proprio allâinterno della SOT, maturarono in questo contesto pure âla coscienza dellâantagonismo degli interessi di classe insieme alla convinzione che [âŠ] la lotta dovesse essere rivolta alla trasformazione dello stato austriaco in senso laico e democraticoâ (Millo 1998, 157).
Per la Martinuzzi la âscopertaâ della dimensione di classe con la conseguente âuscitaâ, nelle sue parole, da una prospettiva esclusivamente nazionale, rappresentĂČ lâattraversamento di una soglia, o ancora una volta la trasgressione di un confine, come confermano le allusioni sgradevoli alla sua etĂ e al suo sesso da parte della stampa nazionalista (Apih 1991, 29) o lâostracismo comminatole da determinati ambienti borghesi triestini (Piemontese 1974, 156). In ogni caso fu una svolta decisiva, come emerge dalla solennitĂ di una sua âannotazioneâ di qualche anno posteriore allâadesione al socialismo:
âLa gran causa del riscatto sociale richiamĂČ a sĂ© i miei pensieri e sentimenti: mi detti a studiare la dottrina sociale dei grandi pensatori Marx Engels ed altri, e dal ristretto campo del nazionalismo uscii per lavorare in quello della lotta di classe. I nazionalisti mi han detta traditrice della patria, mi hanno perseguitata, io continuai nellâazione facendo conferenze, scrivendo nei giornali sotto vari nomi, pubblicando opuscoli, aiutando coi miei risparmi pecuniari la diffusione dellâidea. In tale apostolato oggi 15-9-1900 mi propongo di perseverareâxxx.
La centralitĂ della lotta di classe, ovvero la scelta di privilegiare la modernizzazione delle istituzioni e lâampliamento dei diritti di cittadinanza per tutti allâinterno dello Stato, comportava allora il riconoscimento della pluralitĂ nazionale e della sua legittimitĂ sul territorio. I socialisti triestini di lingua italiana accolsero quindi con piena convinzione quella revisione del discorso nazionale e della teoria marxista che va sotto il nome di austromarxismo (favoriti in questo anche da una costellazione di rapporti di forza e di condizioni politico-sociali che li contrapponevano ai connazionali liberali anzichĂ© spingerli alla collaborazione come in Istria o in Trentino) (Cattaruzza 1998a, 218-220); svolsero inoltre un importante ruolo di mediazione tra lâaustromarxismo stesso e le tradizioni risorgimentali italiane che avevano formato parecchi tra loro, a cominciare dal federalismo democratico di marca cattaneana (Agnelli 1978, 221-280).
Questa opera di mediazione, che anticipava e accompagnava quella piĂč nota dei âtriestini a Firenzeâ, ebbe luogo per esempio sul âLavoratoreâ, delle cui pagine culturali erano responsabili Lajos Domokos e Giuseppina Martinuzzi (Rossi 2011, 94); o nelle conferenze del Circolo di Studi Sociali, fondato nel 1899, unâistituzione di cultura positivista e socialista tra le piĂč vivaci e prestigiose del panorama triestino che vide piĂč volte la Martinuzzi tra i suoi relatori; o nei convegni del 1905 (uno tra italiani del Regno e dellâImpero e un altro internazionale italo-austriaco) (Agnelli 1978); o in scritti come Irredentismo adriatico di Angelo Vivante e il volume di Lajos Domokos Trieste di dieci anni prima, entrambi pubblicati in Italia e rivolti al pubblico italiano del Regno. Proprio al Risorgimento italiano si richiamava Domokos a conclusione di Trieste: âLâinternazionalismo nostro, in Austria, non puĂČ essere che il federalismo di Giuseppe Garibaldi e Carlo Cattaneoâxxxi. E Valentino Pittoni considerava i fermenti internazionalisti in Austria un piccolo esempio âdi quel che potrĂ essere domani una federazione piĂč grande di nazioni, una federazione europea o mondialeâ (Agnelli 1978, 246).
Neppure nel Litorale, tuttavia, lâapproccio austromarxista sarebbe riuscito nel lungo termine ad arginare le spinte centrifughe su base nazionale allâinterno dello stesso socialismo. La socialdemocrazia a Trieste era organizzata, in ottemperanza alle risoluzioni del Congresso di Vienna del 1897, in tre sezioni: italiana, slovena e tedesca, questâultima molto minoritaria. Quali fossero i rapporti tra la componente italiana e quella slovena nel movimento operaio triestino Ăš una questione aperta, in cui molto dipende da come si considerano taluni elementi contrastantixxxii. Vi era certamente la sincera volontĂ di costruire rapporti di solidarietĂ e di fratellanza tra i socialisti e i proletariati di lingua diversa, e il tentativo, altrettanto sincero, di seguire âpratiche multinazionaliâ (Rutar 2004, 337-341) nellâattivitĂ politica, quali le manifestazioni del Primo Maggio o la traduzione nelle riunioni miste, di cui dĂ testimonianza la stessa Martinuzzi (Martinuzzi 1911a in Cetina 1970). Da questo punto di vista si puĂČ scorgere in questo austromarxismo il tentativo di creare ciĂČ che Homi Bhabha ha chiamato un âterzo spazioâ (Bhabha 2004, 54-56, 312-313), ossia un âluogoâ dove italiani e sloveni potevano non solo âincontrarsiâ su un piano di paritĂ , ma anche, in prospettiva, ârinegoziareâ segni, significati e rapporti sociali, âdestabilizzandoâ le costruzioni nazionaliste che si andavano allora consolidando. Al tempo stesso non mancavano le tensioni, dovute in gran parte allâassenza di pari dignitĂ delle due maggiori comunitĂ nazionali nella considerazione reciproca, e al disagio per la rottura con il proprio âretroterraâ nazionale in seguito alla scelta socialista (problemi lamentati specialmente dai socialisti di origine operaia) (Rutar 2004, 328-330). Per dirla ancora con la Martinuzzi, âa Trieste fra italiani, slavi e tedeschi, malgrado lâidentitĂ del programma, esiste un separatismo esteriore che rende difficile, talora impossibile lâunanimitĂ dellâintesaâ (Martinuzzi 1909a in Cetina 1970, 169). Per una nazionalitĂ subalterna come quella slovena, inoltre, riscatto nazionale e riscatto sociale tendevano in ogni caso a combinarsi, se non addirittura a identificarsi, come mostra il successo tra gli operai sloveni di Trieste dellââorganizzazione nazionale operaiaâ Narodna Delavska Organizacija, fondata nel 1907, formidabile concorrente dei socialdemocratici che considerava âtraditori della causa slovenaâ (Rutar 2003, 39), capace di appropriarsi dellâiconografia e delle parole dâordine socialiste quali paritĂ di diritti, lotta di classe e democrazia, ma declinandole in senso esclusivamente nazionale, tanto da rifiutarsi per principio di agire contro i datori di lavoro sloveni e negare invece solidarietĂ ai lavoratori italiani, specie se immigrati dal Regno (Rutar 2004, 311-313). Da parte italiana vi furono pure divisioni sulla questione nazionale, come attesta la formazione, nel 1909, attorno al deputato Silvio Pagnini, del âGruppo autonomo di Trieste del Partito Socialista Internazionaleâ e di una Camera del Lavoro autonoma, in difesa dellâitalianitĂ della cittĂ e in polemica con lâindirizzo austromarxista della maggioranza del partito.
Tali incertezze nella ricezione dellâindirizzo austromarxista si riflettevano anche nei risultati elettorali, dopo che nel 1907 fu introdotto in Austria il suffragio universale maschile, nella speranza, da parte governativa, che lâavanzata dei partiti popolari cattolico e socialista rallentasse le spinte nazionali disgregatrici. Effettivamente quellâanno le elezioni per il Reichsrat videro il Partito Socialdemocratico diventare il secondo partito dellâImpero dopo i Cristiano-sociali; a Trieste in particolare si verificĂČ una forte affermazione socialista e una netta sconfitta dei liberalnazionali, che non riuscirono a eleggere candidati al primo turno. Ma la polarizzazione e lâantagonismo nazionale crescenti, nonchĂ© nuove strategie di approccio ai ceti popolari, ridimensionarono di molto il profilo socialista, come nelle elezioni comunali e dietali del 1909 e del 1913, e nelle politiche del 1911, in cui prevalsero i liberalnazionali. Lentamente veniva preparandosi lo scenario per i conflitti degli anni successivi.
Giuseppina Martinuzzi socialista
Tra i socialisti del Litorale Giuseppina Martinuzzi era senzâaltro la figura femminile di maggior rilievo. Era amica e collaboratrice di Lajos Domokos, come si Ăš detto, nonchĂ© del conterraneo albonese Giuseppe Lazzarini (Giuricin 2010, 91, n. 113), il quale pure era attento al plurinazionalismo dellâIstria (Giuricin 2010, 91-99). Da irredentista lei aveva guardato allâItalia; ora, pur continuando a seguire le vicende dâoltreconfine â come mostrano tra lâaltro le ricerche di Gian Luigi Bettoli, che hanno portato alla luce le sue collaborazioni alla stampa socialista friulana (n. 29) â riteneva cruciale per il socialismo il contesto multinazionale asburgico e, in ambito locale, il superamento di un altro confine, lâantagonismo tra italiani e âslaviâ.
Si Ăš visto come giĂ da irredentista Giuseppina Martinuzzi prediligesse la dimensione locale della âpiccola patriaâ e come esprimesse un certo disagio di fronte alle ambizioni di potenza espansionistica delle imprese coloniali italiane. Da socialista la sua critica âfemminileâ alle concezioni nazionali dominanti divenne ancora piĂč radicale. Se lâidea della ânaturalitĂ â della patria e del sentimento nazionale Ăš data senzâaltro per scontata nei discorsi del tempo, sottolineando questa naturalitĂ la Martinuzzi riconduce lâuna e lâaltro a una sfera intima, famigliare, istintiva, affettiva, che va difesa dalla violenza della storia o dallâoppressione causata dai rapporti politici e sociali esistenti. CosĂŹ, poichĂ© la patria âsâimpone [âŠ] al cuore dellâuomo come un istinto naturale, come un dovere socialeâ, Ăš fatto obbligo di ârispettare le patrie altruiâ e le lingue altrui, âperchĂ© tutte le favelle sono espressioni del pensiero umano; perchĂ© tutte hanno un compito di civiltĂ da disimpegnare; perchĂ© Ăš un delitto contro natura lâimpedire il libero e pieno esercizio della cara lingua materna, che si ama perchĂ© nostra, non perchĂ© illustreâ (Martinuzzi 1899b in Cetina 1970, 54 e 56, enfasi nel testo). Viene qui quasi parafrasato Herderxxxiii, i cui echi si avvertono anche nei brani seguentixxxiv:
âLingua materna e nazione concorrono a formare un concetto unico, inscindibile. [âŠ] Dal sentimento nazionale deriva anche il diritto e il dovere di coltivare la lingua materna, perchĂ© in essa si rispecchia il nostro pensiero, perchĂ© essa Ăš vincolata ai ricordi della nostra infanzia, perchĂ© nessunâaltra lingua potrĂ rispondere cosĂŹ bene ai sentimenti dellâanimo nostroâ (Martinuzzi 1911a in Cetina 1970, 217).
In particolare:
âVisto che ogni nazione ha dei pregi speciali, che ognuna lavora col proprio genio nellâarmonia del progresso universale, cade la boriosa presunzione di considerare la nostra nazione come il luminare delle genti, e di pretendere per essa privilegi che soffocano lâaltra ed egemonie che per legge di evoluzione non si reggono piĂč. [âŠ]
Il nazionalismo [âŠ] mira a deprimere la meravigliosa plasticitĂ del pensiero umano col tentativo di assimilare i popoli uniformando le favelle che ne sono lâespressione: il nazionalismo disprezza la sublime feconditĂ della natura quando disprezza una qualsiasi favella: commette delitti contro natura collâarma della prepotenza, che si chiama potere costituito, od Ăš egemonia economica e per conseguenza anche morale, strappa dalle labbra dei popoli soggetti la cara lingua materna, che Ăš luce riflessa del pensiero ed impone unâaltra che Ăš freddo suono degli organi vocaliâ (Martinuzzi 1900b in Cetina 1970, 79)xxxv.
La Martinuzzi riporta cioĂš il sentimento nazionale e i fattori che lo determinano (quali la lingua e la cultura) a una dimensione sostanzialmente prepolitica. Alla base vi Ăš lâidea di una giustizia naturale che impone la difesa di ogni popolo e delle sue caratteristiche culturali contro le pratiche coloniali o di assimilazione forzata. Dâaltra parte lei Ăš pronta a riconoscere la storicitĂ del fenomeno nazionale, inclusi la transculturalitĂ e âlâincessante incrociamento delle schiatteâ (Martinuzzi 1899c in Cetina 1970, 72), fino ad affermare che ânon esiste una civiltĂ , nĂ© prettamente italiana, nĂ© prettamente tedesca, francese, inglese o slava, ma sibbene ne esiste una che tutte le compendia e nomasi civiltĂ umanaâ (Martinuzzi 1900b in Cetina 1970, 80). Le sue conclusioni non sono quindi dissimili da quelle di Cattaneo nella valorizzazione della pluralitĂ linguistico-culturale e nel rifiuto delle pretese di egemonia. Tuttavia, proprio per legittimare, a fronte della montante âboria delle nazioniâ, lâeterogeneitĂ etnica e culturale quale Ăš data dalla storia, abbandona la dimensione politica della patria per volgersi invece alla natura e alla giustizia materna.
Riprendendo e rielaborando la consueta metafora della patria come madre e in un contesto etico e retorico prepolitico in cui âla patria, come la madre, deve essere buona egualmente con ognuno dei figliâ (Martinuzzi 1909b, 8), Giuseppina Martinuzzi sviluppa in diversi scritti il tema delle âdue patrieâ: la patria borghese, ultima manifestazione di una patria in realtĂ oppressiva, ingiusta e tirannica per la maggior parte dei suoi figli, basata su rapporti di gerarchia, di sfruttamento e di dominio, portata alla violenza e alla guerra, fomentatrice di nazionalismi contrapposti che âtendono a isolare le popolazioni fra loroâ (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 87) e sono particolarmente perniciosi âin queste nostre provincie di nazionalitĂ mistaâ Martinuzzi 1909b, 19), ma ad un tempo distruttrice di tutti i valori e legami ânaturaliâ, compresi quelli nazionalixxxvi; e la patria socialista, che nei suoi tratti senzâaltro utopici Ăš marcatamente femminilizzata, una âmatriaâ che, ânon altrimenti di amorevole madre, tende le sue braccia a tutti i figli, e tutti li vuole eguali, e per tutti nella stessa misura pensa, gioisce e patisceâ (Martinuzzi 1899b in Cetina 1970, 55), e in tal modo appare come la realizzazione nella societĂ di rapporti di âgiustizia naturaleâ analoghi a quelli che sussistono nella famiglia: âNella famiglia dunque immagine piccina, microscopica di quella societĂ che noi intravediamo nel futuro, si riflettono i concetti che il socialismo propugnaâ (Martinuzzi 1909d in Cetina 1970, 190). In quanto fondata sul âprincipio internazionaleâ, la patria socialista si apre naturalmente in una âpatria immensaâ che abbraccia lâintera umanitĂ â e non in astratto, ma diventando, come afferma la nostra autrice con lo sguardo al Litorale Adriatico, âuna patria giusta e imparziale con le diverse stirpi coabitatrici; rispettosa delle minoranze linguistiche, e protettrice di quelle, che uscite or ora dalle distrette [sic!] economiche e dalle condizioni servili, non hanno dietro di loro una storia di fatti illustri, e perciĂČ vengono dette barbare dai preinciviliti dominatori conterraneiâ (Martinuzzi 1909b, 33).
Quanto la visione improntata alla âmatriaâ socialista potesse radicalmente opporsi al discorso patriottico dominante appare chiaro in due articoli scritti dalla Martinuzzi per âIl Lavoratore Friulanoâ in occasione della guerra di Libia, che fanno da stridente contrappunto allâode Alle madri italiane dopo Amba Alagi composta oltre quindici anni prima. Allora si consolavano le madri attraverso il topos della âmaternitĂ dolorosaâ, il valore del sacrificio per la patria che riscatta il lutto materno, adesso le si apostrofa rudemente per la loro apparente acquiescenza alla spedizione militarexxxvii; lĂŹ si mette da parte il dubbio sul âdesio delle altrui patrieâ con la visione dellââItalia unanimeâ stretta attorno alle âMadri dâeroiâ, qui si sottolinea lâimmoralitĂ dellâimpresa e lâinutilitĂ del sacrificioxxxviii; lĂŹ patria e maternitĂ erano concordi, se pure con qualche tensione, qui sono fondamentalmente contrapposte, come nella sarcastica conclusione: âViva la patria, madri italiane, e abbasso la maternitĂ â (Martinuzzi 1911f in Bettoli 2003); lĂŹ si evocava in prospettiva il riscatto di unâutopia coloniale improntata al âcivil pensieroâ e fatta propria dagli stessi popoli âda fiere bande or cintiâ, qui ci si appella alle âMadri italiane, arabe e turcheâ in nome di quella ânota acuta, disperataâ che Ăš âuguale in tutte le lingue. [âŠ] Italiana, araba o turca chi distingue la madre?â (Martinuzzi 1912 in Bettoli 2003). La maternitĂ annulla di per sĂ© le gerarchie etniche e coloniali e rivendica lâuguaglianza tra i popoli.
Allo stesso modo la realtĂ multietnica e plurilingue di territori come lâIstriaxxxix viene rivendicata di contro allâincapacitĂ dei nazionalisti di andare oltre le categorie di âproprietĂ â e âospitalitĂ â:
âIn questa terra di cosĂŹ brevi confini vivono, da oltre undici secoli, due popoli dâorigine diversa, cui distingue tuttora la lingua, il grado dâincivilimento e le condizioni economiche. Non si tratta nĂ© di indigenato per gli uni, nĂ© di ospitalitĂ per gli altri; ambi sono istriani. Ragione dunque vorrebbe, ed anche giustizia, che si considerassero eguali nei diritti e nei doveri; che le due lingue fossero per lâuno e per lâaltro, libero e rispettato mezzo di progressivo incivilimento; e che si aiutassero vicendevolmente nella dura lotta quotidiana per lâesistenzaâ (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 88).
Quella âpiccola patriaâ, che giĂ nel periodo âirredentistaâ si riconosceva condivisa con altri, diventa ora, in una prospettiva socialista, âcomune patria istrianaâ (Martinuzzi 1900b in Cetina 1970, 80), intesa come âun complesso di genti varie, un cumulo di fatti e di memorie prossime e remote, collegate in unâunitĂ storica e geograficaâ (Martinuzzi 1899c in Cetina 1970, 74, corsivi miei); âspezzare il legame dei reciproci doveri o dirittiâ significa quindi ferire âil cuore della patria, in cui ambe le schiatte devono trovarsi riunite, coinvolte dallo stesso palpitoâ (ibid.). Sia da irredentista che da socialista la Martinuzzi vede la sua societĂ in termini nazionali determinati essenzialmente dalla lingua materna, in termini appunto âherderianiâ; ovvero non câĂš nei suoi scritti il senso di vivere in una societĂ in qualche modo âibridaâ, come appare anche solo nellâaccenno di Vivante che âle due collettivitĂ linguistiche sono tuttâaltro che nette e definiteâ (Vivante 1997, 122). In ogni caso, la preoccupazione di Giuseppina Martinuzzi Ăš allora quella di demistificare e decostruire le strutture ideologiche del nazionalismo italiano e âslavoâ, il mito della supremazia per civiltĂ superiore e diritto storico da una parte, lâillusione dallâaltra di migliorare le proprie condizioni socioeconomiche confidando nella supremazia numerica della propria nazionalitĂ . I due nazionalismi che si contendono la regione sono visti come espressione di interessi classisti o comunque reazionari che dividono e asserviscono i âdue proletariatiâ (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 89), aizzandoli lâuno contro lâaltro, quando i ceti superiori, la vita moderna e piĂč in generale tutto quanto crea progresso sono in realtĂ internazionali (Martinuzzi 1911a in Cetina 1970)xl.
Per la Martinuzzi comunque i due nazionalismi non sono simmetrici, ma esprimono condizioni sociali diverse: âse i socialisti potessero sostenere cause nazionali, essi in Istria dovrebbero prender la parte degli slavi, perchĂ© proletari, perchĂ© deboli, perchĂ© tuttora in istato di civile schiavitĂčâ (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 94). La situazione di oppressione legittima cioĂš lâaffermazione della propria soggettivitĂ nazionale in una prospettiva di emancipazione che la nazionalitĂ egemone deve riconoscere per senso di giustizia: âNessuna distinzione dunque per noi socialisti puĂČ esistere fra le due nazionalitĂ del paese. Tutto ciĂČ che si riferisce alla cultura di queste nazionalitĂ deve egualmente interessarciâ (Martinuzzi 1911a in Cetina 1970, 222). Significativamente, a dare la misura del progresso Ăš la situazione della âdonna slava dellâIstriaâ (Martinuzzi 1899c in Cetina 1970, 74): se nelle lotte nazionali ânon ci sarĂ redenzione per la donna slavaâ non ci sarĂ â progresso civile, non economico rifiorimento neppure per glâitalianiâ (ibid., 75).
In che modo tuttavia poteva realizzarsi lâauspicato cambiamento? Per Giuseppina Martinuzzi come per gli austromarxisti suoi contemporanei, la via passava in primo luogo attraverso il lavoro politico, lâeducazione delle masse popolari e la fondazione di istituzioni o strutture alternative che dovevano âanticipareâ e preparare la societĂ socialista (Ranchi 1977, 25-29). CiĂČ che perĂČ la differenziava da un Renner o da un Otto Bauer, entrambi appartenenti a una generazione piĂč giovane, era lâassenza di riflessione da parte sua sullâassetto dello Stato multinazionale che traducesse in termini costituzionali i principi della convivenza interetnica riassumibili nellâespressione âpatria comuneâ. La âpatriaâ socialista della Martinuzzi si basava sullâardore degli affetti, sulla nobiltĂ dei sentimenti, sulla disponibilitĂ al sacrificio, cosĂŹ come predicati dal patriottismo ottocentesco, nonchĂ© ovviamente sulla consapevolezza delle condizioni sociali e sulla conoscenza. La sua realizzazione poteva essere accelerata dalla preparazione, dallâimpegno militante, dalla lotta di classe, dalla stessa rivoluzione, oppure al contrario ritardata da neghittositĂ od opportunismi. Da qui il suo costante richiamo ai principi, la sua implacabile ostilitĂ verso i âsocialisti autonomi, apolitici nazionaliâ (Martinuzzi 1909f in Cetina 1970, 173, corsivi nel testo) o âle maledettissime tendenze sindacaliste, riformisteâ (Martinuzzi 1909g in Cetina 1970, 210) dei socialisti italiani del Regno, e la sua lotta personale, che sarebbe proseguita nel Partito Comunista, contro la concorrenza delle osterie, la mancanza di studio o la scarsa partecipazione. In tal modo perĂČ la ricomposizione del conflitto fra italiani e sloveni o croati veniva affidata unicamente alla maturazione politica degli individui, o allâavvenire. Sono pochi nei suoi scritti i riferimenti a possibili misure da intraprendere, a parte la ricorrente richiesta di diffusione dellâistruzione nella lingua materna, o di âuna scuola internazionale che rispetti la lingua materna di ogni fanciullo e li educhi tutti indistintamente, non soltanto per la patria, ma piĂč assai per lâumanitĂ â (Martinuzzi 1911g in Cetina 1970, 126). Ora saluta lâesperanto (Martinuzzi 1909a), ora accenna alla Svizzera quale esempio di âquattro nazionalitĂ , unite dal rispetto reciproco [che] vivono in perfetto accordo, in piena libertĂ â, mostrando che âla pluralitĂ delle lingue non rompe il vincolo delle patrieâ (Martinuzzi 1900a in Cetina 1970, 98), senza perĂČ menzionare le istituzioni federali elvetiche. Nella sua revisione delle idee correnti di patria e di nazione, mancano ancora alla Martinuzzi gli strumenti per pensare in termini di unitĂ europea o di assetti federalistici.
Resta tuttavia straordinariamente moderna la sua concezione della patria plurinazionale, uno spazio cioĂš dove la cognizione di esperienze, di interazioni, di memorie comuni, il sentimento affettivo di appartenenza e i rapporti di solidarietĂ e di obblighi reciproci hanno luogo tra soggetti deliberatamente diversi e prescindono del tutto dalla visione di unâunitĂ particolaristica costruita o istituzionalizzata, dallââetnicitĂ fittiziaâ, nelle parole di Ătienne Balibar, che Ăš stata alla base dello stato nazionale e dellâimmaginario patriottico (1991, 96). In particolare Giuseppina Martinuzzi decostruisce radicate gerarchie culturali rivendicando il valore e il contributo di tutte le civiltĂ xli e si preoccupa che venga data voce a chi non trova ascoltoxlii.
Di lĂŹ a poco la Prima guerra mondiale avrebbe posto traumaticamente fine al dibattito sulle questioni nazionali e alla ricerca di una soluzione ai conflitti di nazionalitĂ . La stessa impostazione austromarxista non resse ai colpi di Sarajevo nel giugno 1914. I socialisti italiani di Trieste, che avevano energicamente difeso la scelta internazionalista contro gli stessi compagni italiani del Regno, dovettero ora confrontarsi con i socialisti di lingua tedesca, in maggioranza raccolti attorno alla loro nazione e a difesa delle ragioni degli Imperi Centrali (Cattaruzza 1998b, 173-182). La delusione fu troppo forte per Angelo Vivante che, caduto in preda a una crisi nervosa, morĂŹ probabilmente suicida nel 1915. Il contesto bellico e il secco dualismo amico-nemico cancellavano sfumature e distinguo. Quello stesso anno il giovane Scipio Slataper, che poco tempo prima aveva insegnato agli italiani che âogni cosa Ăš duplice o triplice a Triesteâ (Slataper 1954, 134), diede alle stampe uno scritto dal titolo I confini necessari allâItalia, in cui sosteneva lâesigenza del controllo dellâAdriatico da parte italiana e passava sopra la presenza dellâaltra nazionalitĂ , attribuendo lââottusa resistenza che perpetua lingua e costumi nazionaliâ principalmente a un mondo contadino comunque incapace di una vera e propria agitazione nazionalista (ma sconsigliava misure troppo rapide o estreme, confidando invece nella âcapacitĂ civileâ degli italiani e nel carattere circoscritto del nazionalismo âslavoâ) (Slataper 1986, 40 e 39); quindi si arruolĂČ volontario nellâesercito italiano riconciliandosi pubblicamente con il concittadino ultranazionalista e ora commilitone Ruggero Timeus â comâĂš noto, ambedue morirono entro lâanno. Giuseppina Martinuzzi, cui probabilmente era estranea âlâinquietudine dei moderniâ, pur testimoniando un crescente pessimismoxliii, resistette alla guerra e ai rivolgimenti successivi tenendo fede alle sue posizioni. I tempi erano comunque cambiati e la sua attivitĂ doveva giocoforza assumere un tono minore, per terminare infine nella natia Albona, dove lâormai ottantenne educatrice, scrittrice e militante passĂČ gli ultimi mesi della sua vita collaborando con i comunisti croati locali e conquistandosi lâaffetto dei contadini dei dintorni (Cetina 1970, 34).
Lâoblio in cui cadde dopo la morte era anchâesso un segno dei tempi. E tuttavia la sua opera, nella sua singolaritĂ , ci consente di mettere a fuoco snodi significativi della dinamica dei confini etnonazionali in unâarea plurilingue. La sua visione sarebbe rimasta a lungo nellâombra anche per la cultura democratica in Italia, alla quale sarebbe mancato in particolare il senso concreto della presenza, dei diritti, dellâuguaglianza dellâAltro sul territorio, e la considerazione critica verso lâegemonia del proprio gruppo nazionale con cui lei aveva precorso i tempi nella sua deliberata, consapevole trasgressione dei confini.
i La prima definizione della Venezia Giulia, corrispondente alla denominazione ufficiale austriaca di âLitorale adriaticoâ, fu data da Graziadio Isaia Ascoli nel 1863 âcon lâintento di attribuire unâidentitĂ unitaria italiana a territori che erano stati la risultante di accorpamenti di possedimenti asburgici e venezianiâ (Cattaruzza 2007, 20).
ii âSlavoâ Ăš il termine con cui gli italiani hanno sussunto sloveni e croati in unâunica categoria, spesso con connotazioni spregiative. Esso veniva infatti specificamente usato nelle zone mistilingue contese (non si riferiva cioĂš agli sloveni e ai croati fuori dal Litorale) e sottolineava una presunta mancata maturazione nazionale di quelle popolazioni, la loro caratterizzazione come gruppo etnico âaltroâ rispetto agli italiani, indistinto e âprepoliticoâ. In quanto termine dalle pesanti connotazioni ideologiche, storicamente adoperato come strumento di costruzione di rapporti sociali asimmetrici, nel presente saggio, se non rientra in una citazione, sarĂ usato solo tra virgolette e in senso ârelazionaleâ (in rapporto ad esempio agli italiani), quando lâespressione âsloveni e croatiâ risulterebbe nel contesto troppo legnosa.
iii La distinzione concettuale tra un ânazionalismo civicoâ di origine o ispirazione occidentale, di orientamento liberale, basato sullâappartenenza a una nazione territoriale o sulla lealtĂ a determinate istituzioni nazionali, quindi âinclusivoâ, e un nazionalismo âetnicoâ proprio dellâEuropa centro-orientale o delle realtĂ extraeuropee (post)coloniali, basato su appartenenze âascrittiveâ come lâetnia, la lingua, la religione, e quindi di per sĂ© âesclusivistaâ e tendenzialmente illiberale e autoritario, Ăš stata elaborata negli anni Quaranta del secolo scorso e diffusa in ambito internazionale principalmente da Hans Kohn (1944). In Italia una distinzione analoga fu formulata proprio in quegli anni da Federico Chabod che aveva contrapposto una concezione âvolontaristicaâ della nazione propria della tradizione culturale francese e italiana a una ânaturalisticaâ maturata nella cultura tedesca (Chabod 1961, basato sulle lezioni tenute nellâa.a. 1943-1944). Nonostante sia ancora presente soprattutto nel discorso pubblicistico, tale distinzione Ăš stata di recente messa in discussione soprattutto per le implicazioni ideologiche in essa contenute e per lâimpossibilitĂ di separare analiticamente la presunta componente âcivicaâ o volontaristica da quella âascrittivaâ (cfr. tra gli altri Brubaker 1999; Kuzio 2002; in italiano Banti (2000; 2011).
iv Mi riferisco ovviamente a Scipio Slataper, ad Angelo Vivante, a Gemma Harasim, ai fratelli Carlo e Giani Stuparich, e ad altri (cfr. 1985, 2 voll., v. anche i saggi introduttivi al catalogo della mostra documentaria dallo stesso titolo in Marchi et al. 1983).
v Raicich cita il poligrafo, poliglotta e cultore della lingua e delle lettere romene, Giovenale Vegezzi Ruscalla che considerava i diritti linguistici delle minoranze una âriprovevole anomalia» in contrasto con il principio di nazionalitĂ ; coerentemente egli invitava i 40.000 italiani in Dalmazia ad assimilarsi e a perdere lâidentitĂ nazionale italiana.
vi La suddivisione dellâEuropa in âmappe mentaliâ costruite sulla base di criteri normativi o geopolitici Ăš discussa in generale in Schenk 2002. Lo studio della costruzione delle aree periferiche europee ha preso le mosse in grande misura dal concetto di orientalismo elaborato da Edward Said alla fine degli anni Settanta; per lâEuropa orientale il capostipite Ăš Wolff 1994; per lâEuropa sudorientale il filone di studi sui Balcani quale luogo mentale e alter ego negativo dellâOccidente Ăš stato aperto da Todorova 1997. Il Sud quale âregione storicaâ Ăš stato indagato piĂč recentemente in Schenk Winkler 2007. Da questi studi di carattere europeo Ăš generalmente escluso un altro âconfine culturaleâ, quello nordoccidentale con lâarea gaelica (successivamente gaelico-cattolica) e segnatamente con lâIrlanda; in realtĂ tale confine sembra anticipare sin dal Medioevo dinamiche riscontrate in altri contesti europei (cfr Leerssen 2006, 25-35). In questa prospettiva Ăš interessante notare come la Venezia Giulia si sia trovata, da un punto di vista italiano, al confine tra due di questi luoghi mentali: la Mitteleuropa da una parte e lâEuropa sudorientale in senso lato dallâaltra.
vii Sulle modalitĂ in cui il pregiudizio anticontadino Ăš potuto sconfinare e sfociare nel razzismo cfr. anche Poggio 2000.
viii Cfr. Fabris 1878; Pro Patria 1879, 104. Lâopera, pubblicata anonima, era stata scritta in realtĂ da Giovanni Bovio e da Matteo Renato Imbriani, perlopiĂč da questâultimo (Sabbatucci 1970, 474, n. 20); sullâirredentismo democratico di questi anni v. Finelli 1998.
ix Al riguardo Rusinow paragona la situazione istriana a quella irlandese.
x GiĂ nel 1870 il primo programma jugoslavo unitario, formulato a Lubiana, prevedeva lâinclusione di Trieste nella progettata nuova entitĂ (cfr. Apih 1988, 61). Infatti, âla nascente borghesia slovena si volgeva a Trieste come sua sede naturale e suo sbocco al mare sentendone il fascino e il prestigio e considerando la cittĂ come il maggior centro urbano sloveno per la sua alta percentuale etnica, superiore persino a Lubiana» (Capuzzo 2001, 69).
xi Inoltre, data lâingente quantitĂ di risorse destinata dal Comune alla difesa o alla promozione dellââitalianitĂ â, la qualitĂ della vita era per altri aspetti molto bassa: âLa rete di canalizzazione, lâapprovvigionamento idrico e le condizioni igieniche generali versavano in condizioni miserevoliâ (Cattaruzza 1989, 54); âla mortalitĂ infantile era superiore a quella delle altre cittĂ italiane; per tubercolosi Trieste occupava uno dei primi posti in Europa (5â°)â (Apih 1988, 78).
xii SullââOperaioâ vi sono riferimenti al ruolo della Martinuzzi allâinterno della SOT (ad esempio, nel numero dellâ11 marzo 1881, o del 5 maggio 1882). Invece, a una disamina dei fascicoli del periodico in possesso della Biblioteca civica âAttilio Hortisâ di Trieste la firma della stessa Martinuzzi appare rarissima, contrariamente a quanto scrive Giulio Cesari, che cioĂš âsi vedono comparire sullâ âOperaioâ piĂč frequentemente i nomi di Adele e Argelia Butti, e quello di Giuseppina Martinuzzi, maestra albonese, allora di fervidi sentimenti irredentistici e che doveva essere poi rubata alla causa nostra dalla ideologia socialistaâ (Cesari 1929, 75-76). Vi si trovano in effetti diversi articoli delle sorelle Butti, specialmente tra la fine degli anni Settanta e lâinizio degli anni Ottanta; probabilmente la Martinuzzi, in quanto segretaria, aveva redatto i suoi articoli anonimamente. Cesari inoltre riporta che âLa sezione femminile nellâ81 iniziĂČ una serie di conferenze, oratrici la Martinuzzi e le sorelle Buttiâ (ibid., 78).
xiii Cittadino della mia cittĂ !, âLâOperaioâ, 11 marzo 1881.
xiv âMa ciĂČ che poi Ăš un colmo, una cosa che non mi sarei mai aspettata, Ăš il sentire che un operaio bravo, intelligente, che sempre fu stimato da molti suoi amici e conoscenti per un buon triestino, abbia potuto lasciarsi sfuggire la bestemmia che Trieste Ăš cittĂ cosmopolita, ove tre elementi predominano: lâitaliano, lo sloveno ed il tedesco. [âŠ] Ora qui, a Trieste, si Ăš sempre parlato e si parla un dialetto italiano, un dialetto che Ăš compreso da tutti quanti abitano le sponde dellâAdriatico, vi sieno nati o meno. Quindi, il voler formare unâassociazione in cui oggi si parli italiano, domani tedesco, posdomani sloveno, e ciĂČ col pretesto di lasciare a tutti libertĂ di pensiero e di sentimenti politici, per essere uniti solo nelle questioni economiche e materiali, Ăš semplicemente un assurdo, Ăš un voler rendere impossibile il raggiungimento di quello scopo, che pure sta in testa al vostro programma. La nazionalitĂ , la lingua, non sono opinioni politiche, amici miei; lo Stato stesso con le sue leggi ha riconosciuto il diritto naturale di tutelarle, di difenderle, al di fuori di ogni considerazione politicaâ(âFaustinâ 1888, corsivo nel testo). Lâoperaio a cui si fa riferimento Ăš Antonio Gerin, promotore e primo presidente della Confederazione Operaia Internazionale.
xv âAh, si ha un bel gridare che la solidarietĂ della sofferenza universale ha abbattuto le frontiere, e che esiste unâumanitĂ e non piĂč nazioni! Vi sono avversioni di razza che nessuna idea umanitaria varrĂ mai a distruggere. Tra Germania e Francia la lotta data non dal 1870, ma da secoli: Ăš un episodio del grande conflitto tra latini e teutoni, che arde dalla comparsa di questâultimi in Europa, e finirĂ col mondoâ, Socialismo nazionale, âLâOperaioâ, 19 febbraio 1897.
xvi Come in questo comunicato dellâassociazione irredentista Pro Patria, pubblicato dallââOperaio» senza commenti: âLe nazionalitĂ che non lottano a difendere il sacro, minacciato diritto, si affievoliscono, si avviliscono, decadono: ma la lotta le rialza, le rinfranca e mette in luce le qualitĂ piĂč elette», Pro Patria, âLâOperaioâ, 16 novembre 1888.âLâOperaioâ ospitava sulle sue colonne i comunicati dellâassociazione.
xvii Ad esempio, la delusione per lâelezione nel 1885 al Parlamento di Vienna del rappresentante del partito sloveno Giovanni Nabergoi, Ăš manifestata in termini che tolgono qualsiasi legittimitĂ allâespressione di interessi diversi e alla stessa legge democratica del numero a causa della supposta inferioritĂ dei loro portatori: il rovesciamento del rapporto di subordinazione, qui rappresentato dalla vittoria elettorale, viene letto come una provocazione cui rispondere con una dichiarazione di guerra, il cui unico esito possibile Ăš la sconfitta finale del nemico, nonostante la sua vittoria momentanea (Abbiamo vinto!, âLâOperaioâ, 13 giugno 1885).
xviii Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Fondo Martinuzzi, Busta XLI / fasc. iv, a-d, Corrispondenza.
xix Il richiamo alla âpiccola patriaâ Ăš lungi dallâessere contingente a questo articolo. Elio Apih sottolinea lâidentificazione della Martinuzzi con lâIstria interna, per cui a Trieste non acquisĂŹ mai quella âmentalitĂ urbanaâ (in termini gramsciani) in contrapposizione ideologica alla campagna (Apih 1991, 14). Secondo Giacomo Scotti âquando la Martinuzzi usava la parola âpatriaâ indicava lâIstria e, molto spesso, quel âpiccolo lembo di terraâ che era la sua Albonaâ (Scotti 1978-1981, 237). E a proposito di una rassegna delle scrittrici triestine pubblicata sul âMattinoâ nel 1894, la stessa Martinuzzi commentĂČ che âSi vuole ostinatamente annoverarmi fra le scrittrici triestine, benchĂ© io non cessi di dichiararmi alboneseâ (Scotti 1978-1981, 244).
xx Sul ruolo delle associazioni scolastiche (non solo tedesche) nella nazionalizzazione dei territori dellâImpero e nella formazione di frontiere linguistiche cfr. Judson 2006, specialmente 1-65.
xxi Elio Apih sottolinea come nella fondazione della Pro Patria lei avesse percepito soprattutto âil linguaggio romantico risorgimentale e lâatteggiamento populistico con cui questa si presentĂČ alla pubblica opinioneâ (Apih 1991, 17).
xxii Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Fondo Martinuzzi, Busta XLI / fasc. VIII, a-c.
xxiii Giuseppina Martinuzzi, Alle madri italiane dopo Amba Alagi, estratto dal âRaccoglitoreâ del 17 dicembre 1895, posseduto dalla Biblioteca civica âAttilio Hortisâ, Trieste.
xxiv Al dubbio espresso nella terza strofa: âOh, perchĂ© mai desio / Delle altrui patrie, spinge / Lunge dal suol natio?â viene contrapposta lâesortazione a sottomettersi ai destini patri, ad annullare il lutto individuale nel legame sacrale con la collettivitĂ nazionale: âChiniam la fronte! [âŠ] Madri! A nessun chiedete / Conto dei figli morti. / Era destin! [âŠ] Madri, tergete il pianto: [âŠ] Guardate! Italia unanime / Madri dâeroi vi acclama, / E a vendicarvi suscita / Di nuove gesta brama». La strofa conclusiva evoca unâutopia coloniale che purifica la violenza della guerra e riscatta il sacrificio dei soldati: âQuando sullâafra terra / AvrĂ lâItalia impero, / Non piĂč in virtĂč di guerra / Ma di civil pensiero, / Ricorderanno i popoli / Da fiere bande or cinti, / Con riverenti pagine / DellâAmba Alagi i vintiâ.
xxv Appunto di Giuseppina Martinuzzi, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Fondo Martinuzzi, Busta XLI, fasc. iv â b, Corrispondenza Martinuzzi, Lettere ricevute dal gen. O. Baratieri 1897-1899 e altri appunti concernenti lo stesso.
xxvi Ibid, lettera del 25 febbraio 1898.
xxvii Ibid, lettera da Wiesbaden del 26 maggio 1898, n.13.
xxviii Ibid, lettera senza data, n. 14.
xxix Su Zamboni v. il testo della Conferenza popolare tenuta da Giuseppina Martinuzzi al Circolo di Studi sociali di Trieste, 1910: Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Fondo Martinuzzi, Busta XLII, fasc. II, v. anche gli articoli scritti dalla Martinuzzi per âIl Lavoratore Friulanoâ (Martinuzzi 1911b; Martinuzzi 1911c; Martinuzzi 1911d), raccolti in Bettoli 2003; una versione contenente il materiale documentario su Giuseppina Martinuzzi dal titolo La costruzione del Partito Socialista nel Friuli occidentale dalla fine del diciannovesimo secolo alla dittatura fascista. La pianura. La pedemontana fra Livenza e Cellina. Parte seconda: nel vortice della guerra mondiale Ăš accessibile in http://www.storiastoriepn.it/wp-content/uploads//LIBRO2.pdf, ultimo accesso: 20 ottobre 2013. Su Cipriani v. Martinuzzi 1913, nonchĂ© gli articoli per âIl Lavoratore Friulanoâ Martinuzzi 1909e e Martinuzzi 1911e in Bettoli 2003.
xxx Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Fondo Martinuzzi, Busta XLI / fasc. VIII, a-c.
xxxi Cit. in Agnelli 1978, 239. Per Marina Cattaruzza tuttavia i socialisti triestini, con lâadesione convinta e coerente al socialismo classista e internazionalista, avrebbero infine maturato la ârottura radicale con la tradizione e lo spirito del Risorgimento: Cattaruzza 1998a, 223.
xxxii Cfr. ad esempio, nella storiografia piĂč recente, Cattaruzza 1998b e Rutar 2004.
xxxiii Nelle parole di Herder: âCiascuno ama il suo paese, i suoi costumi, la sua lingua, sua moglie, i suoi figli, non perchĂ© siano i migliori del mondo, ma perchĂ© sono quelli concretamente suoi, e ama in loro se stesso e i suoi sforziâ (Herder 1788, 27).
xxxiv Il richiamo a Herder Ăš stato giĂ osservato da M. Rossi (Rossi 2011, 97-98).
xxxv Per un evidente errore tipografico, nel testo citato si trova al posto di âboriosaâ (chiaro riferimento alla âboria delle nazioniâ di vichiana memoria) la parola âlaboriosaâ.
xxxvi âLa borghesia ha distrutto la famiglia, obbligando la donna al lavoro della fabbrica: ha cancellato il carattere nazionale, sottoponendo il lavoro al giogo del capitale straniero: ha cancellato la patria obbligando i lavoratori allâemigrazione: ha cancellato lâamore, colle unioni dâinteresse, di convenienza: ha calpestato ogni moralitĂ con la seduzione delle fanciulle del proletariatoâ (Martinuzzi 1909c in Cetina 1970, 111).
xxxvii âMadri dâItalia, avete voi un cuore che ama, unâintelligenza che pensa, una volontĂ che agisce? [âŠ] Parlo con voi, mentre i reggitori della vostra patria vi portano via i figli per farne dei briganti. Parlo con voi e vi domando: – Avete rinnegato il sublime affetto materno, o siete diventate sĂŹ vili e codarde da non azzardare unâazione collettiva di protesta?â (Martinuzzi 1911f in Bettoli 2003, 300).
xxxviii âPei vostri figli resi invalidi sono le promesse: – saranno mantenuti a spese della patria. Menzogna! I compagni di Garibaldi furono lasciati languire a migliaia nella miseria. Ed avevano dato una patria agli italiani! Quale ricompensa avranno i figli vostri, mandati a violentare la patria degli altri?â (Martinuzzi 1911f).
xxxix Ă lâIstria infatti, non Trieste, il punto di osservazione privilegiato della Martinuzzi per quanto riguarda la questione nazionale e i rapporti tra italiani e âslaviâ.
xl Ă questo il senso della seconda parte del titolo.
xli Ad esempio: âNoi del secolo ventesimo siamo gli eredi, non di una civiltĂ , ma di tutte quelle che esistettero in precedenza, perchĂ© tutte hanno contribuito a dirozzare lâanimale umano primitivo; ognuna gli ha dato una spinta, perchĂ© esso proceda e si elevi. Roma antica non Ăš comparsa in un paese primitivo; essa ha combattuto contro popoli giĂ progrediti, e, per dominare su tutti, ha distrutto la pace, il benessere di popolazioni agricole e industriali; ha raso al suolo fiorenti cittĂ , ha sterminato colle sue invasioni militari milioni di uomini; sâĂš impossessata della loro cultura e vi sovrappose, con la forza del vincitore, il carattere latino e la sapienza delle sue leggi. [âŠ] Essa non fu nĂ© piĂč, nĂ© meno umana dei popoli da lei soggiogatiâ (Martinuzzi 1911a in Cetina 1970, 221).
xlii Cfr. il racconto Fra italiani e slavi, dove vengono segnatamente tematizzati il linguaggio, la comunicazione, la comprensione (Martinuzzi 1914).
xliii GiĂ evidente in alcuni articoli apparsi sul âLavoratore Friulanoâ prima della guerra, ad es. Martinuzzi 1911e.
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Biografia
Biography
