Tunisi: evoluzione urbana da metà Ottocento a fine Novecento

di Cosimo Damiano Lacorte

Abstract

Lo scopo di questo saggio è offrire una breve ricostruzione della storia urbana della città di Tunisi in un lasso di tempo lungo un secolo e mezzo, che va dalla metà dell’Ottocento fino alla fine del Novecento. La scelta di questo periodo è dovuta a una serie di fattori: storici, politici, sociali ed economici. Tra la fine del diciannovesimo secolo e per tutto il ventesimo secolo, la Tunisia è stata infatti interessata da una serie di riforme e di modifiche, che hanno contribuito ha rimodellare il paesaggio urbano di molti centri abitati. Le città più grandi, come Tunisi, sono andate incontro a mutamenti maggiori, in quanto rappresentavano, e rappresentano tutt’ora, spazi di aggregazione più aperti alla diversità e quindi più inclini al cambiamento.

Tutte le città del Nord Africa hanno affrontato espansioni eccezionali nel corso degli ultimi cento anni, anche grazie al miglioramento delle condizioni e della speranza di vita, che hanno fatto aumentare esponenzialmente il numero di residenti in ogni centro abitato. La rapida crescita ha portato con sé problemi legati alla qualità dei servizi urbani, all’inquinamento e alla possibilità di trovare una casa.

1 – Urbanistica e architettura di Tunisi nella seconda metà del XIX secolo

1.1 Caratteristiche principali delle città del Nord Africa

La città vecchia di Tunisi (medina) rientra in un ristretto gruppo di città islamiche che presenta un sito di importanza mondiale che è continuato a crescere e a svilupparsi durante tutta la sua esistenza. Dalla conquista islamica del settimo secolo e fino al ventesimo, la città vecchia è riuscita a preservarsi quasi intatta, senza essere stravolta o demolita, perdendo solo i bastioni durante il secolo scorso.

Prima di analizzare il periodo storico preso in esame in questa prima parte, è giusto soffermarsi un attimo sulle caratteristiche che rendono uniche le città tradizionali del Nord Africa.

Durante il corso della loro storia, le città del medio oriente e del Nord Africa sono sempre state viste come città di natura islamica”, ma la verità non è proprio questa. Bisogna ricordare che molte di queste città hanno ospitato nel corso dei secoli grandi comunità cristiane e ebraiche, mentre in altre la popolazione musulmana è diventata la maggioranza solo nell’undicesimo secolo. La denominazione di città islamica appartiene agli studiosi orientalisti dei secoli precedenti, i quali ritenevano che il fattore della religione islamica fosse determinante nella vita di tutte le genti del medio oriente e, come nel nostro caso, del Nord Africa, tanto da influenzare la struttura e la natura stessa dell’intera regione e delle città al proprio interno.

Per molti storici orientalistici, tra cui George Marçais (1945), una città come Tunisi era principalmente un luogo di scambio commerciale, dove la gente si recava per concludere i propri affari. Dal momento che la città richiamava una moltitudine di gente, si decise di edificare anche una moschea capiente e altre zone dedicate alla comunità, come ad esempio i bagni pubblici e le terme. Vista la natura dell’Islam, che spinge i suoi credenti alla preghiera collettiva, e quindi a ritrovarsi tutti insieme in un determinato posto, la religione è stata vista come una causa dello sviluppo e della crescita della città. Le moschee rappresentano la soluzione perfetta per la creazione di spazi comunitari in cui raccogliere gente e sono spesso collocate al centro delle città. Intorno alle moschee erano invece posti dei mercati (suk) nei quali si poteva trovare ogni sorta di bene. La maggiore prossimità verso la Grande Moschea si ritiene fosse legata alla qualità delle merci proposte dal mercante, e quindi all’affidabilità di quest’ultimo.

Marçais ci dice che nella città vi erano due o tre strade principali che consentivano l’accesso e il passaggio ai carri. Dalle vie primarie partivano poi quelle secondarie, più strette, che portavano agli orti e poi alle dimore degli abitanti. Le strade secondarie erano tantissime e si diramavano in tutte le direzioni, formando un tessuto stradale fittissimo. La pianta delle case era a forma di ” L”, in modo da garantire una certa privacy domestica, infatti il lungo corridoio all’ingresso non permetteva di vedere all’interno. Inoltre, anche le finestre erano piccole ed erano posizionate abbastanza in alto. Le poche finestre di dimensioni maggiori presentavano invece una sorta di copertura di legno e in molti casi anche una grata.

Marçais continua la sua analisi della città islamica spostandosi dalla casa al quartiere. In genere ogni quartiere aveva la propria identità, sulla base delle religioni o delle minoranze etniche, e poteva essere identificato attraverso essa. Ogni quartiere era dotato di cancelli propri e quindi in caso di necessità poteva chiudere i collegamenti con l’esterno.

Ad ogni modo, molti elementi presenti nel modello di città islamica appena descritto si possono riscontrare anche in alcune città europee del periodo preindustriale. Per quanto riguarda la forma a L delle case, si può affermare che non è stata introdotta durante il periodo islamico, ma ha origini ben più antiche. È possibile quindi che sia stata mantenuta anche nei secoli successivi in quanto si adatta bene ai precetti islamici di separazione dello spazio pubblico e privato. Ciò che a Marçais sfugge è però lo stile e i modelli di alcune città presenti nella stessa regione che però esulano dagli schemi da lui individuati. Ad esempio, in Yemen le case non avevano degli orti che mettessero in contatto la casa con l’esterno, ma era prevalente la struttura abitativa torreggiante. Inoltre, elementi come le mura, i bagni pubblici e le terme, sono riscontrabili in numerose altre culture, anche aldilà del mediterraneo e persino in anticipo di parecchi secoli rispetto al caso tunisino. Anche la composizione delle strade è totalmente paragonabile a quella di tantissime altre città europee. Ed è del tutto normale che alcune famiglie appartenenti allo stesso gruppo etnico o sociale abbiano costruito dei quartieri della città in modo autonomo e in base alle proprie esigenze e alle proprie attività.

La città islamica inizia a differire da quella europea solo durante il Rinascimento, quando i vari elementi disgiunti della città, finora costruiti senza un legame comune, iniziano ad essere messi insieme armonicamente. Gli architetti italiani, ad esempio, iniziano a mettere insieme i concetti di prospettiva e di scala e a utilizzarli nel contesto architettonico, al fine di rimodellare le città.

Per capire meglio i fattori che hanno influenzato la logica urbanistica delle città premoderne bisogna tenere presente anche i fattori ambientali. Per una città sorta ai limiti del deserto era ad esempio più conveniente avere delle strade strette, in modo da avere maggiore riparo durante le tempeste di sabbia.

Ad ogni modo, sarebbe scorretto dire che l’Islam non abbia avuto delle ripercussioni sullo sviluppo delle città. Brunschvig (1947, 154) sostiene ad esempio che l’intimità familiare è sempre stata un precetto fondamentale per l’islam, tanto da preferire la creazione di spazi privati a discapito di quelli pubblici.

Ad ogni modo le città islamiche dell’antichità erano molto diverse tra loro, assumendo caratteristiche differenti in base alla posizione geografica, al clima e ad altri fattori storici quali l’economia e la politica. In quasi tutte le città del Nord Africa gli spazi pubblici erano scarsi, mentre in Mamlouk Cairo e a Damasco c’erano ampi spazi in grado di ospitare parate. Ciò che invece sembra essere costante quasi ovunque è la presenza di strade strette e fitte. Tunisi incarnava appieno proprio questo tipo di città islamica.

Per molti secoli le città islamiche sono state considerate un groviglio caotico di strutture e di vie, tant’è che molti storici parlano di un “modello anarchico” di forme. Creswell (1979, 63), ad esempio, lo definisce un “labirinto caotico di vie e di vicoli ciechi”, mentre Lassner (1970, 15) sostiene che i primi coloni musulmani fossero privi del senso costruttivo che aveva caratterizzato le civiltà classiche. È doveroso però osservare che anche Roma non presentava una pianta perfettamente ortogonale.

Questo disgusto da parte degli storici per le città islamiche affonda le radici nei secoli più antichi. Prima del diciottesimo secolo, il Cristianesimo aveva identificato l’islam come una religione basata sulla violenza e sulla depravazione, giustificandone così la diffusione tra i musulmani. Questa convinzione è sopravvissuta fino al diciannovesimo secolo, quando si è iniziato a identificare l’intera regione del Nord Africa come il punto d’accesso all’Oriente, che nell’immaginario dell’epoca era il posto ricco di harem, eunuchi, incensi e giardini aromatici.

Anche la Tunisia non sfuggì alla critica degli storici orientalisti basata sui preconcetti. Boddy (1985, 244) afferma che la Tunisi del diciassettesimo secolo fosse una città “corrotta e depravata come poche” e che “succedevano strane cose al suo interno”. Le città del Medio Oriente furono inoltre sempre viste dagli storici come un ammasso pittoresco di edifici, che si allontanavano dal gusto estetico degli europei dell’età dei lumi, convinti di dover esportare la propria cultura civilizzata e razionale anche al di fuori dell’Europa. È così che Francia e Gran Bretagna, nonostante le loro differenze, decisero che il destino aveva assegnato ad esse il compito di rimodellare l’Oriente.

1.2 L’influenza dell’islam sulla struttura della Medina

Mettendo da parte la visione ormai obsoleta delle città islamiche come agglomerato di strade e case senza una logica, si può passare ad analizzare se esistono invece elementi che le contraddistinguono da quelle cristiane. Come si è già detto le città sono il prodotto di più fattori: il territorio, il clima, la tecnologia, il metodo di trasporto e tutto ciò che concerne gli usi e i costumi di una popolazione. Ad ogni modo non c’è nulla di “islamico” nel clima del Medio Oriente, eppure ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo delle abitazioni. Allo stesso modo non c’è nulla di “islamico” nella divisione in quartieri in base a gruppi sociali o familiari, infatti anche in molte città medievali europee avveniva lo stesso fenomeno. Wirth (1982) abbandona la visione dei vecchi orientalisti e stabilisce che in realtà non esiste un modello di città islamica, poiché ogni suo elemento è già presente in città più antiche. Per Wirth solo il suk è un elemento originale, vagamente influenzato dalla religione, ma non per questo si può definire l’Islam “l’architetto” del sistema urbano.

Storici più radicali come Ismail (1972) affermano invece che la forma delle case delle città musulmane è dovuta proprio ad alcuni precetti islamici, come ad esempio la necessità di avere un solo piano e di non estendersi in altezza, al fine di non ostentare orgoglio o arroganza. Ismail afferma che anche i materiali sono scelti tra i più fragili per rimanere coerenti con la natura di questo mondo.

Mettendo da parte il caso estremo di Ismail, è innegabile che l’Islam ha lasciato il proprio segno in molte città del Medio Oriente e non solo per via di alcuni edifici caratteristici, come ad esempio la moschea e i bazar. Janet Abu Lughod identifica tre tipi diversi di contributo che l’Islam ha apportato alla creazione delle città. Per primo, la distinzione sociale tra i membri della umma (la comunità islamica), i dhimmi (la gente protetta) e il resto della popolazione ha portato a dinamiche di separazione spaziale all’interno della città. Secondo, la successiva divisione in sesti ha dato una forma di organizzazione ai vari spazi. Terzo, il sistema legale che non disciplinava in modo rigido a chi spettassero i diritti su una certa terra, ma lasciava la risoluzione del conflitto alle parti coinvolte. Per quanto riguarda il primo punto, ogni blocco osservava poche regole giuridiche divise in base alla classe sociale di appartenenza, ma vi era anche un certo grado di libertà individuale. In Marocco, ad esempio, si è cominciato a perseguitare gli ebrei solo nel diciannovesimo secolo, e in molte città europee la segregazione religiosa aveva avuto origini più antiche. Il secondo e il terzo punto, invece, sembrano spiegare meglio la creazione del tessuto urbano delle città islamiche.

Akbar (1985, 529) offre una spiegazione dell’irregolarità della pianta delle città musulmane attraverso il fenomeno dell’occupazione delle mawat, ossia delle terre non occupate (letteralmente “morte”). Ognuno poteva reclamarne una e stabilirsi al suo interno, ma doveva fare attenzione a garantire un accesso al pezzo di terra confinante che sarebbe potuto diventare proprietà di qualcun altro. Si doveva quindi lasciare una porzione di terreno detta harim (zona proibita) per assicurare una futura espansione. Lo Stato era del tutto assente durante il processo decisionale di occupazione di una mawat e il ritaglio di una harim. È dovuta quindi a ciò l’irregolarità delle strade della medina.

1.3 I cambiamenti del paesaggio urbano a fine Ottocento

Nel diciannovesimo secolo Tunisi era una tecnicamente una città musulmana con qualche minoranza etnica, principalmente ebrei e poi cristiani, caratterizzata da una fitta composizione di case con cortile. Anche gli edifici legati alla religione dominante seguivano il modello dei grandi spazi interni.

Le prime modifiche urbane del secolo furono apportate principalmente da due gruppi: immigrati italiani e immigrati maltesi. In modo minore, anche alcune famiglie autoctone politicamente influenti ebbero modo di rimodellare parti della città.

I migranti europei giunsero a Tunisi attratti dalla prospettiva di nuove possibilità commerciali, portando con sé abilità mercantilistiche carenti nella popolazione musulmana. Si stabilirono nella parte orientale della Medina, vicino al Bab Bhar e ai rispettivi consolati, presenti sul territorio urbano già da qualche secolo. I nuovi abitanti contribuirono a edificare nuove strutture all’interno della zona delimitata dai bastioni seguendo lo stile italiano dell’epoca, in prossimità dei futuri Viali della Commissione. I nuovi edifici erano destinati a diventare appartamenti o empori pronti ad ospitare merce d’importazione.

Alcune famiglie benestanti della città si arricchirono grazie ai propri commerci e utilizzarono i ricavi per costruire e espandere le loro dimore all’interno della Medina, acquistando pezzi di terreno confinanti e annettendoli a quelli propri. Nella parte settentrionale delle città, il Dar Mohammed Khaznadar e il Dar el-Pacha, che appartenevano a questa categoria, costruirono un’immensa residenza seguendo lo stile architettonico italiano. Ad ogni modo, la stragrande maggioranza delle famiglie ricche tunisine preferì comprare dei terreni al di fuori della Medina e costruire lì le nuove residenze, per vivere più vicine al palazzo del Beylicato che si trovava nel quartiere del Bardo.

Fino alla metà del diciannovesimo secolo, gli ebrei erano stati costretti a vivere nelle zone poco salubri del ghetto. Dopo le riforme volute dal bey Mohammed nell’ottobre del 1857, la popolazione ebraica acquisì sia il diritto di vivere fuori dall’Hara, sia il diritto di acquistare delle terre.

Gli Yahoud el-Grana, un gruppo di ebrei provenienti dalla Toscana, che si era stabilito a Tunisi durante il diciottesimo secolo, sfruttò subito la nuova situazione, riuscendo a trarne vantaggio. Sebbene la maggior parte degli ebrei fosse ancora povera, la famiglia Grana riuscì ad acquistare terreni ad est di Tunisi, al di fuori delle mura, cominciando a espandere la città in quella che poi sarebbe diventata la zona delle ville. All’interno delle mura, le minoranze cristiane e ebraiche erano ormai libere di muoversi al di fuori dei rispettivi quartieri storici, e contribuirono anch’essi all’espansione della Medina. Ben Achour (1989) documenta questo fenomeno attraverso lo studio degli archivi generali di Tunisi. La parte di popolazione musulmana fu turbata da questa “invasione di infedeli”, tanto che il comune fu costretto a costruire dei muri al fine di impedire l’accesso ai quartieri a maggioranza islamica.

Allo stesso tempo, i proprietari degli immobili erano ben disposti ad affittare i propri beni situati nella Medina al miglior offerente, non facendo distinzioni tra musulmani, ebrei o cristiani. E dopo l’insurrezione del 1864, per via della situazione economica che era peggiorata, furono spesso costretti anche a vendere. I nuovi proprietari non-musulmani effettuarono numerose modifiche agli edifici che avevano acquisito. Fecero ad esempio allargare le finestre, oppure ne costruirono di nuove sulle pareti che si affacciavano sulle vie.

Negli anni successivi si smise anche di chiudere i cancelli della città durante la notte, in quanto ormai c’era stata una profonda commistione di etnie e diverse zone della città si erano espanse al di fuori delle mura cittadine, come ad esempio il quartiere europeo, che si stava allargando oltre le mura della parte est della città fino a raggiungere il lago.

Nel 1856 iniziarono i lavori per la costruzione del palazzo del consolato francese, durante il periodo di grande espansione coloniale del Secondo Impero. La struttura fu terminata cinque anni dopo, nel 1861. Nello stesso anno fu anche ripristinato l’acquedotto di Adriano, che portava l’acqua potabile a Tunisi dopo un percorso di circa cento chilometri. Grazie anche all’apporto idrico, iniziarono a sorgere sempre più nuovi edifici europei lungo la via che collegava il consolato alla Medina. Vent’anni dopo i moderni edifici torreggiavano lungo tutto il viale che partiva dalla piazza di Bab Bhar, conosciuta all’epoca anche come porta spagnola, e arrivava al palazzo del consolato francese, quattrocento metri più avanti.

Le modifiche più pesanti apportate alla città furono effettuate negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e l’inizio della Prima Guerra Mondiale. Fu allora che la Medina perse completamente il suo primato all’interno della città, e Tunisi assunse un aspetto dualistico: da una parte il cuore musulmano fatto di strade fitte e confuse; dall’altra la città europea che si espandeva seguendo uno schema preciso sulle terre bonificate vicino le rive del lago.

2 – Urbanistica e architettura di Tunisi nella prima metà del XX secolo

2.1 La popolazione musulmana di Tunisi del Novecento

Dal Novecento in poi iniziano ad esserci più dati sulla popolazione di Tunisi. In passato i censimenti avevano riguardato solo la parte di popolazione di origine europea. Con l’inizio del nuovo secolo, vengono conteggiati anche gli abitanti autoctoni, includendo anche i più giovani. A partite da quel momento è possibile quindi delineare come è cambiata la composizione della forza lavoro della città. In questo stesso periodo, Tunisi supera i duecentomila abitanti risiedenti sia in città sia nelle periferie.

È interessante capire come le varie etnie presenti a Tunisi fossero distribuite all’interno della città. Grazie al nuovo censimento quinquennale si può notare come la parte di popolazione musulmana sia aumentata maggiormente nel centro della città nel corso degli anni, scegliendo la Medina come propria dimora, anziché le periferie, nelle quali è stato registrato solo un piccolo aumento di alcune migliaia di unità (Sebag 1998, 404).

I primi dati demografici rilevati nel periodo che va tra la prima e la seconda guerra mondiale ci aiutano a capire in che modo fosse ripartita la parte di popolazione attiva. Il 12,5% aveva un’attività di vendita o di commercio e risiedeva nei quartieri più vicini ai suk. Il 10,3% lavorava nel settore industriale, che comprendeva sia le vecchie fabbriche, sia quelle più moderne. Il 45,6% della popolazione tunisina musulmana sopravviveva affidandosi a lavori stagionali, passando da un lavoro all’altro continuamente e senza nessuna certezza.

Ad ogni modo, della popolazione musulmana attiva non facevano parte solo i tunisini delle famiglie risiedenti nella città da generazioni, ma vi erano anche gruppi che erano arrivati da altre città vicine e che si erano specializzati in una professione specifica. È il caso dei gerbani che detenevano il monopolio delle drogherie della città, tant’è che il termine gerbano era ormai diventato sinonimo di droghiere. I gerbani però non si limitarono a commercializzare solo caffè, tè e spezie, ma ampliarono il loro mercato, estendendolo anche a stoffe e tessuti tipiche della propria isola, e anche a grano, frutta e legumi. I loro affari erano così estesi che un intero suk, quello di al-Leffe, era ormai conosciuto come suk dei gerbani (Sebag 1998, 406).

Nel complesso, la popolazione tunisina musulmana non rinunciava alle proprie tradizioni legate alla casa. Per tutta la prima metà del secolo gli abitanti continuarono a vivere nella città vecchia, ossia nella Medina e nelle periferie vicine. Le famiglie più ricche occupavano la parte alta della Medina e spesso possedevano interi palazzi. I più poveri, invece, risiedevano nei quartieri periferici di Bab al-Jazira e Bab al-Suwayqa. La città nuova costruita nei decenni precedenti dagli europei a ridosso di quella vecchia rappresentava invece un luogo sconosciuto alla fetta di popolazione più povera. Alcuni si recavano nella parte nuova della città solo per lavorare, fare acquisti o effettuare uno scambio, ma al calar della notte, ognuno tornava delle proprie case della Medina o delle periferie.

Gli alloggi della città nuova erano dei palazzi che ospitavano più appartamenti. Quest’ultimi erano collegati tra di loro da corridoi e scale interne e avevano finestre che si affacciavano direttamente sulla strada. Erano quindi poco adatte allo stile di vita della popolazione tunisina musulmana, che fino a quel momento aveva preferito abitare in case che garantivano una privacy maggiore. Solo dopo la Prima Guerra Mondiale, alcune famiglie tunisine cominciarono a sfruttare la maggiore apertura garantita dalle nuove leggi approvate, beneficiando così di alcuni appartamenti concessi in affitto a basso costo. La maggior parte di queste nuove famiglie che andò a occupare la zona tra la città araba e la città europea contribuì a creare e ad allargare i quartieri di El-Omrane e di Taoufik tra gli anni Venti e gli anni Trenta.

In questi quartieri le case erano circondate da giardini con vegetazione alta, in modo da offrire maggiore intimità alla famiglia mettendola al riparo da orecchie indiscrete (Berthod 1931).

Nel giro di pochi anni, la città antica cominciò a svuotarsi e parte della popolazione si travasò nei quartieri poco distanti dalla Medina e dalla zona europea, preferendo sempre più le comodità offerte dalle case moderne. I quartieri favoriti dalla popolazione tunisina musulmana di quel periodo furono La Goulette, de Sidi-bou-Said e La Marsa.

2.2 Popolazione ebraica a Tunisi

In seguito al censimento indetto agli inizi dei primi anni del Novecento, sono disponibili dati anche sulla popolazione ebraica residente a Tunisi. Nel giro di pochi anni, dal 1921 al 1936, il numero degli ebrei presenti nella città vecchia passò da 19.029 a 27.345, con una crescita del 43%. Nelle periferie l’aumento del numero di ebrei fu minore, si registrò infatti una crescita di poco più di mille abitanti partendo dai tremila censiti all’inizio degli anni Venti (Sebag 1998, 412).

Gli ebrei tunisini hanno giocato un ruolo economico fondamentale nel tessuto urbano della città. Erano in molti a esercitare professioni come il sarto, il calzolaio o l’orafo. Quasi metà della popolazione ebraica degli anni venti era però impegnata nel commercio e era possibile incontrare mercanti ebrei in diversi suk. Ciascuno aveva una sua esclusività: al-Wuzar, per stoffe e tessuti; al-Bey, per tende e sete; al-Grana, per calzature e indumenti.

In seguito, gli ebrei tunisini ricoprirono ruoli commerciali sempre più importanti, fino a occuparsi dell’importazione di tessuti, macchinari e materie prime e dell’esportazione di cereali, olio e lana. Successivamente, negli anni trenta, cominciarono ad aprire numerosi negozi nella città vecchia dedicati alla vendita al dettaglio dei nuovi prodotti introdotti dall’Europa. Gli ebrei tunisini furono i primi a dedicarsi al commercio di automobili e elettrodomestici, contribuendo a diffonderne l’utilizzo. Alcuni ebrei tunisini cominciarono a inserirsi anche nei settori di produzione industriale, assumendo ruoli di amministrazione in molte aziende.

Tra gli anni venti e gli anni trenta si ebbe un aumento della diseguaglianza sociale dovuta a una borghesia sempre più avara di profitti e disposta a speculare sul mercato immobiliare e sul settore industriale, spesso a discapito di quello agricolo. Inoltre, gran parte dei liberi professionisti si trovò a fare i conti con una realtà che offriva sempre meno lavoro occasionale, preferendo avere un numero ridotto di lavoratori stabili.

Ma l’avanzamento sociale della minoranza ebraica favorì anche una maggiore scolarizzazione, non solo presso l’Alliance Israélite Universelle, ma anche nelle scuole pubbliche di Tunisi.

Il tasso più alto di scolarizzazione nella popolazione ebraica tunisina ebbe delle ripercussioni sullo stile di vita e sui luoghi abitati dagli ebrei, nonché sulle norme familiari. Per molti questo momento segnò anche un declino delle pratiche religiose e dell’identità ad esse associata, spingendo molti tunisini ebrei a richiedere la cittadinanza francese. Nonostante ciò, Tunisi fu la città del Nord Africa di quel periodo con più ebrei naturalizzati (Sebag 1998, 415).

L’avanzamento sociale della popolazione ebraica tunisina influì anche sulla distribuzione di quest’ultima nel contesto urbano. I più poveri continuarono ad abitare nel quartiere dell’Hara, un quartiere che continuava a essere vittima del degrado, con edifici fatiscenti e scollegato dal resto della città per quanto riguardava i servizi base (Hubac 1934). Questa emergenza si tradusse nell’adozione di piani di riqualificazione urbana nel quartiere ebraico, abbattendo gli edifici più vecchi e pericolosi per sostituirli con strutture abitative a più livelli nelle quali ricollocare le famiglie di quell’area.

Gli ebrei più ricchi, invece, si erano spostati nelle abitazioni della parte più nuova della città, ossia nei quartieri europei. A testimonianza di questo grosso riversamento di ebrei tunisini nei quartieri della città nuova vi è la sinagoga su l’avenue de Paris, inaugurata alla fine del 1937.

Un’altra piccola parte di popolazione ebraica preferì allontanarsi dalla città e occupare le zone nelle periferie più vicine, contribuendo a sviluppare i quartieri de L’Ariana, de La Goulette, de La Marsa e di Hammâm-Lif, costruendo anche sinagoghe e specifici negozi alimentari per le proprie esigenze rituali.

2.3 Popolazione europea a Tunisi

Durante i primi decenni del Novecento, la popolazione di origine europea presente a Tunisi continuò a crescere sempre più, non solo per via dei nuovi nati sul territorio, ma anche grazie ai nuovi flussi che arrivavano dall’Europa. Ormai i tempi delle migrazioni di massa dal vecchio continente, tipiche del periodo coloniale, erano un ricordo passato, ma i nuovi arrivi sul territorio tunisino erano comunque maggiori rispetto alle partenze. La maggior parte degli immigrati europei proveniva dalla Francia o dall’Italia e in percentuale più bassa dal resto dell’Europa. La popolazione europea a Tunisi registrò una crescita senza precedenti durante gli anni a cavallo tra le due guerre, passando da 81.450 abitanti nel 1921 a ben 115.653 abitanti nel 1936 (Sebag 1998, 416).

La popolazione francese a Tunisi raddoppiò durante le due guerre, ma ciò fu dovuto anche a un saldo naturale tra il numero delle nascite e quello delle morti, che assicurò una crescita costante nel tempo.

Inoltre, tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, molte famiglie francesi decisero di lasciare la Francia per ricongiungersi con i propri cari nella capitale tunisina.

I francesi che vivevano nella città vecchia erano ancora numerosi e superavano il numero di quelli che vivevano nelle periferie di Tunisi. Solo dopo gli anni trenta cominciò a esserci un spostamento della popolazione francese verso i quartieri moderni della città, come Montfleury, a sud, o Jeanne d’Arc, le Belvédère e Cité-Jardins, a nord (Berthod 1931, 48). Una buona parte della popolazione francese preferì spostarsi anche verso le periferie, scegliendo i quartieri di La Goulette e La Marsa a nord.

La popolazione francese a Tunisi non fu l’unica a crescere durante i primi decenni del Novecento, anche quella italiana, secondo i rilevamenti, continuò ad aumentare per tutto lo stesso periodo e non solo grazie a un saldo naturale positivo, ma anche per via di nuovi italiani che continuavano ad arrivare nella capitale tunisina. I migranti italiani furono così tanti che l’amministrazione del protettorato decise di schedare tutti i nuovi arrivati nel paese per tenere un conteggio più accurato. Molti però mettono in dubbio l’esattezza dei numeri che ci sono giunti, sostenendo che le autorità francesi avessero deliberatamente sottostimato il numero di italiani presenti a Tunisi al fine di sottrarli a eventuali rivendicazioni da parte dello stato fascista italiano (Sebag 1998, 421). Tuttavia, la percentuale della popolazione italiana attiva nel periodo tra le due guerre resta comunque attendibile.

La stragrande maggioranza della popolazione italiana a Tunisi, circa il 60%, lavorava nel settore industriale. Erano molti gli italiani alla guida sia di aziende alimentari, occupandosi ad esempio della lavorazione della pasta, sia di imprese edili, impegnati nella costruzione di mattoni. La manodopera italiana era composta da lavoratori specializzati e si occupava di tutti quei lavori che i lavoratori tunisini poco qualificati non potevano compiere. Inoltre, vi erano artigiani specializzati in molteplici settori: sarti, calzolai, meccanici, idraulici, elettricisti.

Ma aldilà della ripartizione della popolazione attiva in base alle professioni svolte, è interessante capire anche come era suddivisa la struttura sociale italiana all’interno di Tunisi e delle sue periferie. Il quadro risulta essere poco omogeneo. Vi era innanzitutto la ricca borghesia composta all’inizio da ebrei livornesi che si erano stabiliti a Tunisi durante il secolo precedente, ma che in seguito si era allargata, raccogliendo tra le sue file anche nuovi borghesi siciliani e cattolici. Erano per la maggior parte degli imprenditori: proprietari di vasti terreni, capi di industrie manifatturiere e di imprese di costruzione.

Gli amministratori del protettorato, nel tentativo di favorire un popolamento di Tunisi a maggioranza francese, dedicarono vantaggi esclusivi ai lavoratori francesi, escludendo quindi i lavoratori italiani. Ad ogni modo, quest’ultimi, godevano di benefici ai quali i lavoratori tunisini non avevano comunque accesso (Bonura 1929, 35).

I quartieri a maggioranza italiana poterono tuttavia conservare un certo grado di autonomia nella gestione degli spazi destinati all’associazionismo e alla cultura. La Società Dante Alighieri per la cultura e l’insegnamento della lingua italiana, istituita nel secolo precedente, viene ricollocata in un hotel appositamente costruito per essa nel 1926. Anche l’Ospedale Giuseppe Garibaldi fu trasferito nel 1939 in una nuova struttura dotata di attrezzature all’avanguardia. Inoltre, il giornale L’Unione, creato nel 1896, aumentò la tiratura delle sue copie per poter raggiungere un pubblico sempre più ampio.

Una buona parte della popolazione italiana risiedeva nella città vecchia, occupando gli edifici più esterni della Medina, vicino i viali Eglise, vicino i quartieri di Bab al-Jazira a sud e di Bab al-Suwayqa a nord. La maggior parte delle famiglie si era invece stabilita nella moderna della città, continuando ad allargare il quartiere noto come Petite Sicilie, all’interno del quale vi erano sia abitazioni, sia piccole botteghe e negozi. Si trattava di una parte di città che appariva quasi staccata dal resto di Tunisi e che ricordava i borghi siciliani (Luccio 1934, 37). Vi era inoltre una piccola comunità calabrese che risiedeva sulle sponde del lago conosciuta come la Petite Calabre, creata all’inizio del ventesimo secolo. Gli italiani più ricchi si unirono alle altre famiglie europee più ricche, spostandosi nei quartieri più prestigiosi come La Goulette, La Marsa e L’Ariana.

2.4 Mutamenti urbani nella città vecchia

Durante gli anni della Prima Guerra Mondiale Tunisi attraversò una crisi abitativa, che continuò anche negli anni venti. Alla base della crisi c’era lo scarso numero di nuovi edifici costruiti per accomodare il crescente numero di persone che arrivavano nella capitale. Soprattutto i giovani di tutta Europa, di ritorno dalla guerra, avevano il desiderio di mettere su casa e formare una famiglia, contribuendo così ad aumentare la domanda di nuovi edifici abitativi. Le autorità del Protettorato cercarono quindi di rimettere in moto l’economia della città attraverso l’assunzione di nuovo personale tecnico e amministrativo. Molti operai qualificati furono però costretti a rifiutare la proposta di lavoro ricevuta a Tunisi e a ritornare in Francia, per via dell’assenza di una soluzione abitativa. Su un opuscolo ufficiale dell’epoca si poteva leggere: “Questa crisi è stata così grave che adesso rischia di compromettere l’avvenire economico del paese e di ostacolare l’assunzione di nuovi funzionari, tecnici e operai necessari alla ripresa economica della Reggenza” (Berthod 1931, 6).

Grazie alla ripresa delle importazioni dalla Francia, il prezzo dei beni usati nell’edilizia si abbassò. I grandi detentori di capitali, desiderosi di trarre profitto da questa nuova situazione del mercato, decisero allora di investire nel mattone. Le autorità del Protettorato introdussero inoltre nuove norme destinate a favorire l’edificazione di nuove strutture abitative, in modo da agevolare gli investimenti nel settore edilizio.

Si era già cercato con una vecchia legge del marzo del 1897 di incoraggiare la creazione di case a buon mercato destinate alle famiglie più povere, in modo da concedere dignità abitativa anche ai più disagiati, ma la mancanza di finanziamenti rese la nuova norma legislativa totalmente inefficace. La nuova legge adottata il 15 dicembre 1919 disciplinava meglio in che modo i proprietari delle nuove case potevano avere accesso alle detrazioni fiscali o agli aiuti finanziari, ma fu necessario anche creare negli anni successivi un organo pubblico che facesse da ponte fra lo Stato e i cittadini. Nel 1921 nacque così la Caisse Mutuelle de Crédit Immobilier, che aveva il compito di assegnare i finanziamenti alle società o agli individui meritevoli e controllare il processo costruttivo (Sebag 1998, 433).

Con la nuova spinta alla creazione di soluzione abitative a buon mercato, le autorità del Protettorato riuscirono ad arginare la crisi abitativa che arrestava la crescita del paese. Allo stesso tempo, però, si favorì anche un popolamento di coloni francesi, che arrivavano a Tunisi per ricoprire i posti di funzionari e dirigenti e che potevano avere accesso a una villa moderna a basso costo. Su un opuscolo ufficiale dell’epoca si poteva leggere: “L’attrattiva di quelle nuove case che migliorano e si abbelliscono giorno dopo giorno […] rende possibile ospitare sul suolo tunisino un buon numero di compatrioti meritevoli, radicando così la nostra razza e la nostra civilizzazione” (Berthod 1931, 6).

Durante gli anni del primo dopoguerra, le società per la creazione di case a buon mercato crebbero di numero. Tra le più note a Tunisi ci furono, oltre alla più famosa società di Franceville creata nel 1911, la società Mutuelleville, Bellevue e El-Omrane del 1920, Crémieuxville e Beau-Site del 1928, e La cagna del 1930. Anche nelle periferie della città sorsero quartieri di case a buon mercato, come ad esempio La Goulette nel 1920 nella zona settentrionale di Tunisi.

Gli aiuti pubblici per la costruzione di nuove case portarono successivamente alla creazione di nuovi centri satelliti nei pressi della capitale, con una conseguente espansione dello spazio urbano. I dati disponibili indicano una media di cinquecento nuovi edifici ogni anno durante il ventennio 1920-1939, con un picco nell’ultimo periodo degli anni trenta. Il numero di edifici continuò a salire anche durante gli anni della grande crisi mondiale degli anni Venti, a dimostrazione dell’efficacia dei provvedimenti presi dalle autorità del Protettorato.

3 – Una città ridisegnata sull’emergenza abitativa

3.1 Le trasformazioni maggiori

Negli ultimi trent’anni la città di Tunisi è andata incontro a mutamenti enormi. Il paesaggio, le strutture urbane e le attività in esse contenute hanno raggiunto un livello di complessità ormai lontano dal vecchio modello coloniale: Tunisi si è guadagnata lo status di metropoli. Come tutte le metropoli, anche essa deve fare i conti con il problema abitativo. Sono numerosi i grattacieli che sovrastano la città e i quartieri residenziali hanno avuto un’espansione costante sin dagli anni ottanta. Vi è stata invece una scarsa attenzione per le soluzioni abitative per chi ha un reddito basso, chi insomma non può permettersi una villa.

Secondo Fredj Stambouli (1996, 51), i rapidi cambiamenti che hanno interessato la città di Tunisi si possono riassumere in tre fattori. Il primo è rappresentato dalla diseguaglianza sociale sempre più in aumento che ha portato ai primi problemi sulle soluzioni abitative, creando anche una netta divisione tra i quartieri residenziali e quelli destinati alla classe media, con edifici più simili a quelli della vecchia tradizione di Tunisi. Secondo, l’emergenza del mercato libero ha portato a una liberalizzazione del settore immobiliare, aprendo le porte a investitori privati e alle banche. Tutto ciò ha incoraggiato una speculazione smodata che ha dato il via a una segregazione urbana in base al reddito, facilmente visibile sia nel centro della città, sia nei quartieri di nuova realizzazione. Terzo, la società è in cerca di una nuova identità che però non vuole discostarsi da quello che è lo stile internazionale riguardo all’architettura e all’urbanizzazione, ossia uno stile che abbraccia forme eterogenee, tipico delle società trainate nel mercato mondiale dalla classe media emergente.

Dopo gli anni settanta, le autorità locali abolirono numerosi divieti che impedivano ai mercati finanziari e ad altre forze esterne di intromettersi nello sviluppo urbano di Tunisi. Furono ad esempio eliminati i limiti sul prezzo dei terreni edificabili e fu smantellato il monopolio dell’industria costruttiva che fino ad allora era appartenuto allo stato.

Il centro di Tunisi era rimasto immutato dal 1969 e solo negli ultimi decenni è stato sottoposto a notevoli cambiamenti, dovuti soprattutto alla presenza di società internazionali e nazionali che hanno scelto il centro della città come propria base operativa per svolgere gli affari. Il cambiamento interessa specialmente Mohammed V Avenue, un viale intorno a cui è nata una forte competizione per aggiudicarsi il controllo urbano sia attraverso l’acquisizione di vecchi edifici, sia attraverso l’edificazione di nuovi (Stambouli 1996, 52).

Come ogni centro di affari internazionali, anche Tunisi ha deciso di dotarsi di una zona industriale relativamente eco-sostenibile, ospitando famose compagnie come Ford, IBM, Peugeot. Mentre le spiagge a nord del lago della città sono state ripulite e ospiteranno un complesso urbano mastodontico: ben 1500 ettari divisi in uffici, appartamenti di lusso e centri commerciali. Si tratta di un progetto ad alto grado speculativo finanziato dall’Arabia Saudita e da fondi internazionali. Una volta ultimato fornirà una dimora a circa duecentomila abitanti e la data di fine dei lavori è prevista per il 2020.

In fine, l’ultima grande opera è l’autostrada Tunisi Nord, che collega il campus dell’Università di Tunisi all’aeroporto internazionale. A fianco all’autostrada vi è una città che fa parte della zona metropolitana di Tunisi, Manar, che ospita numerosi quartieri abitativi della classe media.

Tunisi, ad ogni modo, non è cresciuta solo per popolazione e superficie, ma il cambiamento ha interessato anche la struttura principale della città, portando a un conseguente mutamento di tutte le funzioni e dell’organizzazione dello spazio urbano. Questo mutamento strutturale è avvenuto poco dopo l’indipendenza tunisina del 1956 e ha avuto una doppia natura. Da un lato si è trattato di un rinnovamento centrifugo, che ha interessato le zone periferiche portando a una espansione urbana. Dall’altro, c’è stato un effetto centripeto, che ha portato alla riqualifica e alla promozione di spazi urbani del centro cittadino (Abdelkafi 1989, 24).

Tra il 1956 e il 1969, la periferia esterna di Tunisi continuò ad estendersi sino ad abbracciare le zone abitative più isolate, mentre il centro della città affrontò un periodo di stallo, forse anche a causa delle ex-potenze coloniali che abbandonavano il territorio. Tra il 1970 e il 1985, la città finì con l’inglobare totalmente le zone periferiche più esterne, riuscendo a raggiungere persino i centri più isolati. Il modello di espansione ha quasi la forma di un guanto, con le strade e superstrade che collegano la metropoli agli insediamenti urbani satelliti vicini.

L’area totale urbanizzata della città di Tunisi è passata da 40 chilometri quadrati nel 1956 a 105 chilometri quadrati nel 1975, fino a raggiungere i 200 chilometri quadrati nel 1996. Con il completamento del progetto urbano sulle sponde meridionali del lago, la città ha guadagnato un’altra dozzina di chilometri quadrati (Signoles 1985). La città vecchia, la Medina, è un centro medievale che si estende per soli tre chilometri quadrati. È curioso però notare come il rapido accrescimento delle zone urbane non corrisponda a un aumento demografico. Infatti, negli ultimi decenni la popolazione dell’area metropolitana non è cresciuta più a ritmi elevati come un tempo. Le cause di questo rallentamento sono da ricercarsi in alcune politiche adottate dal governo tunisino riguardo la famiglia, ma anche ad altri fattori come i lavoratori migranti che si spostano per lavorare.

Nonostante la popolazione della Tunisia iniziò a crescere rapidamente a metà degli anni quaranta e per tutti gli anni successivi, la città rimase più o meno la stessa fino agli anni settanta. Questo perché molti europei abbandonarono i territori in seguito all’indipendenza liberando spazio abitativo, ma anche perché la città vecchia fu sempre densamente popolata. Solo dalla metà degli anni settanta la città cominciò ad espandersi a un ritmo sostenuto, ma la crescita della popolazione non era l’unico motivo. Vi erano anche altri fattori, tra cui l’alto tasso di affollamento che esisteva nella zona urbana centrale, area in cui era impossibile creare nuove soluzioni abitative in grado di accogliere nuovi abitanti. Inoltre, i redditi più alti avevano spinto una grossa fetta della popolazione a cercare un alloggio più confortevole. Le case cambiarono così la propria struttura e le proprie dimensioni, cercando di accomodarsi più a quelle che erano le nuove necessità della classe media. Cominciarono a scomparire le case di piccole dimensioni, e le case che un tempo avevano accolto più famiglie contemporaneamente, a metà degli anni ottanta accoglievano un solo nucleo familiare.

Le famiglie mononucleari divennero così la norma, specialmente nella fascia di popolazione appartenente al ceto medio, e questo contribuì a creare una forte domanda per nuovi spazi abitativi. Inoltre, l’aspirazione a nuovi tipi di comfort, importati anche da altri paesi del Mediterraneo del nord, portò a un mutamento nella struttura delle singole case. Si passò così da una pianta essenziale e semplice a una pianta più estesa e articolata, tipica delle ville familiari. Tutto ciò ha portato a un’espansione urbana orizzontale della città, creando aree a scarsa densità di popolazione e quartieri formati interamente da villette a schiera. La villetta è diventata la struttura abitativa principale delle nuove zone urbane periferiche (circa il 95%) (Stambouli 1996, 55).

Sul finire degli anni novanta, la struttura della città presentava sostanzialmente tre poli principali. Al nord c’era la parte di popolazione benestante stanziata in un complesso residenziale formato da ville lussuose e ben allacciato a tutti i servizi pubblici. Al sud, invece, la pianificazione delle abitazioni per le classi meno abbienti aveva collocato le case nei pressi delle zone industriali con un alto tasso di inquinamento. Infine, nella zona occidentale della città fecero la loro comparsa degli spazi abitativi spontanei, ma solo la metà di questi figurava nei depositi catastali cittadini. Furono specialmente utili ai lavoratori con redditi bassi che non potevano permettersi un mezzo di trasporto o villette in periferia.

La creazione di soluzioni abitative alternative è stata una costante degli ultimi settanta anni. È famosa ad esempio la baraccopoli di Jebel Lahmar del 1943 a cui fece seguito la creazione di alloggi popolari nell’area di Tadhamen nella parte ovest della città nel 1975. Nel bene o nel male, anche il fenomeno delle baraccopoli ha contribuito alla continua espansione della città, nonostante gli sforzi incessanti da parte delle autorità locali di demolire i siti interessati. Vi è una grossa fetta di popolazione tunisina che vive in questi alloggi di fortuna e la mole di questo fenomeno potrebbe influenzare il futuro accrescimento della città di Tunisi.

Si possono identificare sostanzialmente tre fasi nell’evoluzione delle case popolari. La prima riguarda la nascita spontanea degli alloggi nel periodo di poco precedente all’indipendenza, tra il 1943 e il 1956. Chiamata la fase delle bidonville, interessava la parte di città che metteva in comunicazione la Medina medievale con il nuovo centro urbano di creazione francese. La seconda fase ha riguardato la parte già edificata delle città vecchia, dove fino agli anni ottanta si proseguì con la creazione di nuove strutture su più piani, portando al sovraffollamento cittadino di quelle aree. La terza, e ultima fase, interessa le case popolari nella periferia della città, per un certo aspetto simili alle baraccopoli di metà novecento, ma differenti dal un punto di vista urbano e sociale. Gli abitanti di queste zone non sono lavoratori migranti arrivati da poco in quelle zone, ma sono cittadini del ceto basso che si sono spostati dalle zone sovraffollate, povere e decadenti della città e si sono insediati negli alloggi di fortuna di più recente creazione. Le nuove baraccopoli sono comunque più sicure e meno fatiscenti rispetto a quelle di mezzo secolo fa, ma si trovano su terreni che spesso sono stati acquisiti in modo illegale dagli attuali proprietari (Stambouli 1996, 56).

Si può dire che dal 1975 l’area metropolitana di Tunisi sia andata incontro a un rimodellamento della sua struttura urbana, soprattutto per quanto riguarda le zone residenziali e abitative. La vecchia struttura della medina-bidonville, tipica di molte città colonizzate dagli europei, ormai è scomparsa quasi del tutto. La periferia di Tunisi è oggi il nuovo spazio in cui i progetti di urbanizzazione possono trovare maggiore espressione e lo sarà sicuramente anche nei prossimi anni.

Il rimodellamento di Tunisi ha interessato l’intera città: dal nord-est, sulle vie di Mohamed V Avenue, fino ad arrivare alle spiagge del lago ai piedi delle colline a sud. È proprio qui che le multinazionali hanno deciso di costruire i propri uffici e dove molti hotel di lusso sono stati edificati. Fa tutto parte di un progetto di promozione turistica chiamato Carthage shores: hotel a cinque stelle, casinò, centri commerciali lussuosi, tutti portati a termine in una decina d’anni.

Anche il settore secondario di Tunisi è continuato a crescere per tutto lo scorso millennio ed è in crescita anche attualmente. I nuovi edifici e i nuovi complessi industriali si sono potuti realizzare anche grazie alla presenza di una solida infrastruttura urbana, che comprende servizi come trasporti, fognature, depuratori, che è stata potenziata e accomodata alle varie necessità nel corso degli anni novanta. È stato ad esempio introdotto a fine secolo un sistema di trasporto denominato light metro che consente agli abitanti delle periferie del sud, del nord e dell’ovest di raggiungere il centro cittadino in tempi brevi e in condizioni sicuramente preferibili a quelle offerte dai normali autobus pubblici che erano già presenti sul territorio. Alla metro si aggiunge un altro prodigio della tecnologia, ossia il depuratore delle acquee, che ha cambiato drasticamente le condizioni dell’igiene a Tunisi. Infine, c’è la bonifica delle zone inquinate al nord del lago, che ha reso possibile ampliare la città di circa duemila ettari. In questo modo circa mezzo milione di abitanti ha potuto trovare una casa nella periferia esterna.

3.2 La fine di una crisi

La costruzione della maggior parte delle case abusive nei quartieri periferici della città è avvenuta durante gli anni Settanta, mentre si registrava il boom economico che ha interessato un po’ tutta la regione, seguito da un sostenuto incremento demografico. L’edificazione di queste zone residenziali fu una risposta da parte del popolo delle baraccopoli e della vecchia città della medina all’emergenza abitativa che stava continuando a peggiorare sin dagli anni dell’indipendenza, e può essere considerata a tutti gli effetti una mobilitazione sociale di grosse dimensioni che cercava di far fronte a un problema comune. Gli abitanti meglio integrati nel tessuto economico e lavorativo della città, che disponevano di un salario più alto o che erano riusciti a mettere alcuni risparmi da parte, furono in grado di comprare degli appezzamenti di terreno nelle periferie più esterne di Tunisi, riuscendo poi anche a costruire una casa. Non appena completate, i proprietari si spostavano nelle nuove case e procedevano ad affittare il vecchio alloggio nelle baraccopoli, assicurandosi così anche una entrata di denaro che si andava ad aggiungere al normale stipendio.

Gli anni settanta rappresentano quindi un decennio di trionfo per la popolazione in piena crisi abitativa, in quanto i cittadini avevano trovato in modo autonomo una soluzione al problema. D’altra parte, c’è anche la sconfitta dello Stato, che non riuscì mai a mettere in atto un piano adeguato per risolvere l’emergenza legata alle abitazioni, che affliggeva gran parte della popolazione di Tunisi. Il fallimento si può riscontrare in più fattori (Chabbi 1986a, 12): gli standard troppo alti con i quali venivano costruite le nuove case popolari; il numero di case completate e messe a disposizione era comunque troppo basso rispetto alla domanda; i cittadini più poveri erano comunque esclusi a causa dei prezzi non troppo permissivi.

L’unica soluzione fu quindi prendere in mano la situazione dal basso e rivolgersi a un mercato dominato da una sorta di edilizia pirata, in modo da ritagliarsi un pezzo di terra per sé ai confini estremi della città e costruire una casa senza alcun aiuto pubblico, sia perché l’atto era di per sé illegale, sia per la difficoltà delle modalità con cui si poteva accedere ai finanziamenti pubblici per costruire una casa (Chabbi 1986b, 14).

Una ricerca condotta dagli uffici cittadini di Tunisi ha stabilito che in soli cinque anni, tra il 1975 e il 1980, lo spazio interessato dalla costruzione di nuove abitazioni era di circa 1600 ettari. Quasi la metà delle strutture che sorgevano in quel periodo corrispondeva a case abusive. Per avere una dimensione del fenomeno, basti pensare che le baraccopoli del primo periodo sono arrivate a coprire solo 400 ettari in un lasso di tempo di cinquanta anni. Le case degli anni settanta hanno quindi coperto il quadruplo della superficie in un decimo del tempo. Ma gli anni ottanta non hanno rappresentato la fine di questo fenomeno. Nei dieci anni successivi, la superficie occupata dai quartieri residenziali periferici è raddoppiata nuovamente, arrivando ad ospitare circa il 20% della popolazione totale di Tunisi (Chabbi 1988, 41).

C’è però da sottolineare la natura totalmente differente tra le case popolari costruite dal governo e quelle abusive edificate dai cittadini. Era indubbiamente più facile realizzare una casa libera da ogni vincolo burocratico, slegata dai piani urbani e con costi decisamente più bassi, così le nuove abitazioni potevano meglio adattarsi alle tasche dei futuri inquilini. È stato così possibile porre rimedio alla crisi abitativa e allo stesso momento integrare meglio ogni cittadino attraverso il riconoscimento della legittima proprietà privata di ciascuna abitazione.

Questo fenomeno, però, non è stato privo di lati negativi e di conseguenze inaspettate. Data la posizione periferica di quell’insediamento e considerata la tipologia della popolazione che risiedeva all’interno di esso, ossia lavoratori, si ebbe un cortocircuito del sistema dei trasporti che operava in quelle zone della città. Inoltre, anche tutti gli altri servizi di base, come acqua, elettricità e sistema fognario, faticavano ad arrivare in quelle zone. Infine, bisogna ricordare che l’espansione delle città avviene quasi sempre a discapito dei terreni agricoli che si trovano attorno ad essa, e questo caso non fa eccezione.

La città di Tunisi è entrata del nuovo millennio con una veste del tutto nuova. I processi di modernizzazione e sviluppo hanno trasformato completamente la città, modificando la struttura urbana creata sia nel periodo medievale arabo, sia in quello coloniale francese successivamente. Tunisi ormai è una metropoli a tutti gli effetti e affronta le stesse problematiche legate alla rapida crescita come tutte le altre città sorelle della regione del Nord Africa che hanno condiviso in larga parte la stessa storia della Tunisia.

Con i suoi quasi due milioni e mezzo di abitanti e una superficie di duecento chilometri quadrati, Tunisi dovrà far fronte a diverse sfide se vuole assicurare ai suoi abitanti uno sviluppo continuativo e sostenibile nel tempo. Innanzitutto, dal punto di vista sociale, c’è bisogno di creare una città più egualitaria, che abbia come valori fondamentali la tolleranza e la riconciliazione, due elementi fondamentali se si vuole costruire una società urbana più solidale e equa. Dal punto di vista urbanistico, Tunisi dovrebbe armonizzare la sua struttura troppo frammentaria, puntando a raggiungere un livello di integrità e unione che metta in giusto contatto la parte storica della città, la parte nata nell’età coloniale, la città moderna, la zona a nord dei laghi e tutto il complesso dei piccoli centri urbani satelliti della metropoli. Infine, Tunisi dovrebbe mostrarsi al mondo in una nuova veste più articolata: moderna e autentica, ossia aperta alla globalizzazione, ma attenta alla propria identità.

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