Elena Musiani
La relazione è stata presentata in occasione del IX seminario internazionale, Nuestro Patrimonio Comun. La frontera de 1989 y la crisis del paradigma revolucionario, organizzato dall’Università degli Studi di Cadice il 9-11 novembre 2009, sotto la direzione di Marie Claude Chaput (Università di Paris Ouest Nanterre-La Défense e Julio Pérez Serrano responsabile del Centro di ricerca spagnola e latino americana dell’Università di Cadice). Il convegno internazionale ha preso spunto dall’anniversario della caduta del muro di Berlino per aprire una più ampia discussione sul significato storico e storiografico del 1989 inteso in senso più ampio di congiuntura storica e di transizione a livello europeo ed extraeuropeo.
Uno spettro si aggira nel cuore dell’Europa(Bernardo Valli, “La Repubblica”, 9 novembre 1989). Il titolo è sicuramente emblematico per sintetizzare le reazioni della stampa italiana1 di fronte alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989. Dalla lettura dei numerosi articoli pubblicati da “La Repubblica”, uno dei principali quotidiani nazionali italiani, nei giorni che immediatamente seguirono la caduta del muro di Berlino, quella che emerge con immediata e ripetuta evidenza è una sensazione insieme di incertezza ma anche di inquietudine, sentimenti che rimarranno una costante per tutti gli ultimi mesi del 1989.
L’idea di fondo era che il destino della Germania, e con esso dell’intera Europa, fosse in bilico tra un passato sicuramente non positivo e un futuro ancora più oscuro e indefinito perché giunto quasi inaspettatamente:
La precipitosa, travolgente vicenda tedesca oscilla tra questi due poli, tra un fiducioso ottimismo sia pur venato dallo scetticismo dell’esperienza, e un’incredulità favorita dall’impossibilità di immaginare quel che potrà essere l’avvenire (“La Repubblica”, 9 novembre 1989).
Anche gli osservatori diretti – e questa sensazione si avverte in generale in tutti i corrispondenti del quotidiano italiano – non esitano a celare la loro incapacità di offrire un giudizio razionale e obiettivo sull’avvenimento e gli aggettivi e sostantivi più frequenti che accompagnano le inchieste sono “precipitoso”, “stravolgente”, “meraviglia”.
Da un lato la meraviglia davanti a quei giovani (e non giovani) che hanno sottratto a Berlino Ovest il peso della protesta, e che ora lo esercitano con stile prussiano-protestante, con dignità, senza violenza, e con una dose di romanticismo in cui non manca un pizzico del sarcasmo del vecchio, caro, Grosz. Dall’altro la perplessità di fronte a quel vuoto apertosi sotto i piedi di un regime che fino a un mese fa imponeva più regolamenti da caserma che leggi da repubblica. La voragine si è spalancata nel cuore dell’Europa (“La Repubblica”, 9 novembre 1989).
Diverso l’accento scelto da “Avvenire”, quotidiano di area cattolica, che nei titoli e nei commenti non esita a porre l’accento sul crollo del sistema comunista: il 10 novembre il giornale titola: Il muro è infranto e il commento che segue è tutto concentrato sul fallimento del governo della Germania est:
Il muro di Berlino è stato virtualmente abbattuto. Il partito comunista ha deciso di aprire le frontiere con la repubblica federale i cittadini tedesco-orientali potranno passare direttamente nella RFT senza nessuna formalità la decisione ha effetto immediato l’afflusso dei profughi dalla Germania est sta creando gravi problemi nella Germania federale (Arrigo Buongiorno, “Avvenire”, 10 novembre 1989).
L’aspetto che sceglie invece di enfatizzare l’“Unità”, una delle voci di più lunga tradizione della sinistra italiana, è quello della caduta del muro inteso come una rivoluzione di popolo, di una scelta di libertà compiuta da persone animate da ideali di democrazia, solidarietà, giustizia, l’idea cioè che in Germania e in generale nell’est europeo si stava assistendo a una rivoluzione democratica, una rivoluzione per cui si era seriamente battuto anche il partito comunista italiano.
Sono giorni entusiasmanti per noi europei. Vediamo in televisione il sorriso, il pianto, la felicità dei berlinesi nella notte in cui si sono finalmente ritrovati insieme. A ciascuno di noi credo sarebbe piaciuto essere in mezzo a loro, a festeggiare, a vivere un momento come quello. Cioè uno di quei momenti che segnano e cambiano la storia di una nazione. In questo caso è qualcosa di più, è la storia di un continente visto che il teatro è la Germania, che il soggetto è un popolo e che il tema è quella della democratizzazione dell’est, che sta abbattendo le grandi barriere costruite in Europa (“l’Unità”, 11 novembre 1989).
Accanto a queste prime sensazioni (di gioia mista a inquietudine per l’area di sinistra e di condanna verso i regimi dell’est da parte dell’area cattolica) la vera questione che emerge con forza sulla stampa italiana è quella che il corrispondente di “Repubblica”, Bernardo Valli, non esita a definire come “questione tedesca”, la quale si “risveglia come un dinosauro immortale sepolto sotto il cuore dell’Europa” (“La Repubblica”, 9 novembre 1989). Nonostante in quei primi giorni dell’89 non si parlasse ancora di riunificazione, risulta evidente come la questione sarebbe presto diventata di inevitabile attualità. “Non stupisce – continua Valli – che pur ammirando la protesta democratica molti si augurino che i funerali della Rtd avvengano il più tardi possibile. È tormentata la questione tedesca che ci accompagnerà sempre più in questa fine di secolo. Essa è inevitabile perché è naturale, legittimo che sia posta. Ma è più facile osservarla mentre attraversa la storia letteraria. Cioè quando essa è un nobile fantasma” (“La Repubblica”, 9 novembre 1989).
Il principale sentimento che dunque attraversa le pagine di “Repubblica” è quello dello sgomento, sentimento che svela una malcelata preoccupazione per uno scenario storico che era stato deplorato fino a quel momento (la divisione in due dell’Europa, la cortina di ferro…) ma che si vedeva “disciolto troppo velocemente”, quasi senza lasciare il tempo di trovare una cornice alternativa in cui scrivere la storia d’Europa.
A quali formidabili avvenimenti abbiamo infatti assistito negli ultimi mesi. In una trentina di settimane, una breccia dopo l’altra, gli assetti dell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale sono in gran parte crollati. Già adesso l’Europa somiglia pochissimo, quasi niente, a quel che era stata in questo quarantennio: e presto sarà un’altra (altri equilibri politici, altre relazioni economiche, altri legami culturali) anche se per ora nessuno può dire esattamente come sarà. La terminologia che avevamo usato per decenni, l’ottica con cui guardavamo alla spaccatura del Continente sono già finiti nella soffitta della storia” (Sandro Viola, “La Repubblica”, 10 novembre 1989).
Cosa potrà sostituire il muro? Questa è la domanda di fondo che si avverte tra le righe degli interventi che si succedono di giorno in giorno e anche di pagina in pagina su “La Repubblica”; quale sarà il volto della nuova Europa? Aprire la porta di Brandeburgo ha rappresentato “liberare” i cittadini di Berlino est ma anche aprire un varco nella storia. La sensazione che viene trasmessa è quella che abbattendo il muro – fatto innegabilmente positivo – si sia tuttavia abbattuto “uno dei pilastri portanti dell’Europa divisa”. Compito dei governanti europei avrebbe dovuto essere d’ora in avanti quello di costruire le fondamenta di una nuova Europa, unita ma allargata, fondamentalmente diversa dall’Europa a sei immaginata da Robert Schumann, Jean Monnet e Alcide De Gasperi.
Anche sull’“Unità” nei giorni immediatamente successivi la caduta del muro le analisi propongono gli interrogativi sul futuro della Germania; il 12 novembre un articolo dal titolo La storia si riapre e ancora una volta si pone l’accento sulla scelta di democrazia del popolo tedesco e della “nuova” Urss di Gornaciov:
Il muro di Berlino non era soltanto chiusura militare e politica di una frontiera, ma simbolo della contrapposizione fra due mondi e terribile testimonianza di una inimicizia mortale. Era inoltre letteralmente il recinto di un campo chiuso in sé stesso per evadere dal quale si rischiava la vita […].
Oggi non solo le due Germanie non sono più separate e nemiche, ma la frontiera sull’Est d’Europa si riapre e ciò e destinato a ridare nuova identità politica e culturale all’intero continente con conseguenze per ora imprevedibili ma certo di immensa portata pratica e ideale. Siamo testimoni di qualcosa che muta e rinnova, proprio negli anni conclusivi del secolo, la storia del Novecento (“l’Unità”, 12 novembre 1989).
È innegabile, prosegue il giornalista che l’azione sia partita dall’alto, tuttavia non si può negare
che l’iniziativa sovietica è nata dalla crisi di un sistema che sta rompendo radicalmente con se stesso e con la propria storia, e che da questa rottura trae la linfa necessaria per contribuire alla costruzione di una storia nuova…. è una lezione indimenticabile: non c’è democrazia che si costruisce attraverso il totalitarismo, come non ci può mai essere nessuna scissione tra i mezzi e i fini, è tutta una visione del mondo che si va concludendo (“l’Unità”, 12 novembre 1989).
E accanto ai soliti interrogativi si sottolinea la scelta del Pci al nuovo corso europeo:
finalmente la storia si riapre. Noi comunisti italiani possiamo guardare ad essa con animo aperto perché da tanto tempo ci muoviamo in direzione di un’affermazione piena della democrazia (“l’Unità”, 12 novembre 1989).
Sulle pagine del giornale fondato da Gramsci non mancano poi i toni polemici rivolti alla politica degli Usa, timorosi, secondo l’“Unità”, di perdere il controllo sulla Nato, un controllo nato dal sistema di tensione della guerra fredda.
Quando il funzionario del Dipartimento di Stato, Fukuyama, proclama la fine della storia, in realtà esprime il timore che essa possa fare a meno di un’egemonia americana da tempo in declino e che gli avvenimenti ad Est sono destinati ad accelerare. Sull’Europa ricade la responsabilità di formulare ipotesi di sviluppo del proprio autogoverno (“l’Unità”, 12 novembre 1989).
Anche “Avvenire” si chiede quale sarà il futuro che attende l’Europa:
Insomma l’irresistibile processo storico della riunificazione tedesca messosi in moto con la paurosa rapidità dei fatti vitali minaccia di abbattersi come una valanga sull’Europa del mercato unico progettata a tavolino dalle élites finanziarie delle due sponde dell’atlantico. La “nuova” Germania fa incombere sul progetto razionalizzante una minaccia di tutt’altro genere. Che tipo di minaccia? L’illuminismo di cui noi europei siamo tutti impastati ci spingerà temo a definirla “irrazionale” due volte in questo secolo la Germania ha già scagliato contro l’Europa l’irrazionale che cova endemico dentro la patria di Faust e la seconda volta (con Hitler) aveva la faccia inequivoca del satanico (“Avvenire”, 10 novembre 1989).
E contro i valori del satanismo “Avvenire” propone la “rivolta condotta da laici e cristiani in nome dei valori dell’Europa cristiana e laica che pone al primo posto la persona e la sua libertà; che considera lo stato al servizio della società civile che rifiuta ogni annullamento dell’individuo nel collettivo”, una rivolta che ha condotto al crollo del regime comunista e che ha come protagonista principale Giovanni Paolo II:
di tali valori il papa polacco é stato il più alto interprete non é certo un caso che per la prima volta proprio nella sua patria il partito comunista abbia dovuto cedere il potere ad un cristiano sociale, che si dichiara fedele non solo alla dottrina cattolica ma anche all’eredità popolare di Sturzo. I valori religiosi e le organizzazioni delle chiese cristiane sono stati il punto di riferimento privilegiato del processo pacifico di rinnovamento che ha cancellato la più grande vergogna del nostro continente: quel muro che divideva in due una città della stessa lingua e della stessa tradizione e segna, l’apertura del muro, la fine della situazione ingiustamente sottoscritta a Yalta: la divisione in due blocchi di quel continente le cui radici ideali, che sono cristiane, vanno dall’atlantico agli urali (“Avvenire”, 10 novembre 1989).
Più “prosaicamente” il 12 novembre 1989 Alberto Ronchey scriveva sulle pagine di “Repubblica”: La Germania è all’anno zero, parafrasando il celebre film di Roberto Rossellini. Il vero problema che si cela dietro le folle di berlinesi dell’est che “invadono” le strade dei quartieri dell’ovest, e che tutti i giornali italiani descrivono con toni che vanno dall’entusiastico al gioioso, è invece più seriamente quale sarà il futuro della Germania e con essa dell’Europa intera: sarà possibile una transizione alla democrazia, sarà giusto “abiurare” il comunismo e il leninismo come, afferma Ronchey, sta già avvenendo in Polonia e in Ungheria? Di fatto il vero quesito e il vero timore sotteso dietro tutti questi interrogativi è la questione della riunificazione della Germania, dal momento che non esiste una storica nazione tedesca orientale e che appare ormai inevitabile andare verso la riunificazione delle due Germanie, ma, ed è questo un fatto innegabile, una Germania unita fa paura all’Europa. Anche perché pensare alla Germania unita fa pensare immediatamente alla Germania di Bismarck e, in tal senso, le citazioni si sprecano sulla stampa italiana. Anche se nei giorni immediatamente successivi all’apertura delle frontiere le cancellerie dei due stati tedeschi sembrano restare ferme sull’idea che debbano continuare a esistere due stati tedeschi separati, la difficoltà del dialogo tra la cancelleria di Berlino e quella di Bonn evidenzia come “aprire la porta di Brandeburgo” non abbia significato risolvere “la questione tedesca”. Nessuno sa, scrive Repubblica, “dove andrà la storia, che mai come in questi giorni ha camminato da sola” (“La Repubblica”,12 novembre 1989).
È anche evidente fin da subito come le frontiere non saranno più le stesse e come, soprattutto, occorrerà considerare europei popoli che fino ad ora erano sembrati estremamente lontani anche se separati solo da una “cortina immaginaria”.
Ma soprattutto bisognerà abituarsi a considerare ormai vicini, appunto europei, problemi e personaggi che consideravamo lontani, vagamente esotici, laggiù nel mondo comunista (Sandro Viola, “La Repubblica”, 10 novembre 1989).
Accanto a questo vi è il timore di una “esplosione” della questione delle minoranze in Europa, quelle che Ronchey il 12 novembre definiva “le pulsioni nelle nazionalità sovietiche”. La caduta di prestigio della superpotenza (Urss) “non farebbe che incoraggiare le rivendicazioni di baltici, moldavi, ucraini, caucasici, turchestani” (“La Repubblica”, 12 novembre 1989). Per questo ci si chiede addirittura se Gorbaciov non abbia fatto “un errore di calcolo”, non abbia “perso il controllo degli eventi”. Timore, questo, avvertito anche dalla parte cattolica:
sarebbe bene non dimenticare che quel che avviene oggi in Germania e anche in Polonia in Ungheria nella pancia dell’impero sovietico dove ribollono le nazionalità. È tuttavia un fatto della vita, con tutti i rischi anche mortali che la vita reale fa incombere su noi viventi. È il rischio che nasce dall’aprirsi della gabbia di Yalta, da una libertà, da orgogli, da radici ritrovate” (“Avvenire”, 10 novembre 1989).
Altro aspetto interessante che emerge sulla stampa italiana relativamente alla caduta del muro riguarda le conseguenze che l’avvenimento determinò sulla politica italiana.
Le conseguenze principali si verificarono all’interno del Pci (allora guidato dal segretario Achille Occhetto) che a partire da quella data innestò un processo di modifica a partire dal nome, seguito poi dall’eliminazione del simbolo della falce e martello: ebbe così inizio la famosa “svolta della Bolognina” (da cui si originò il Partito democratico della sinistra, con il simbolo della Quercia), un processo che da allora non si è ancora veramente arrestato2.
L’“Unità” dedica numerosi articoli all’indirizzo preso dal segretario del Pci, sottolineando come la sua scelta vada letta all’interno di un cammino verso la democrazia che il partito ha già intrapreso da alcuni anni e che non intende assolutamente rompere con i valori e la tradizione della sinistra italiana
Un’occasione per richiamare la necessità che tutte le forze democratiche diano il proprio contributo affinché i valori della lotta di liberazione nazionale vengano trasmessi alle nuove generazioni. E questo è tanto più importante, ha detto Occhetto, in giorni decisivi per l’Europa, quando crolla il muro di Berlino (“l’Unità”, 13 novembre 1989).
E richiamandosi alla storia ed ai valori della lotta di liberazione in Italia:
Da questo traggo l’incitamento a non continuare su vecchie strade ma ad inventarne di nuove per unificare le forze del progresso. Dal momento che la fantasia politica in questo fine ’89 sta galoppando, nei fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che allora fu dimostrato nella Resistenza (“l’Unità”, 13 novembre 1989).
Il commento dell’allora segretario della Dc, Ciriaco De Mita, fu al contrario, che “finalmente” si innestava in Italia una vera democrazia, “da adesso è possibile una competizione tra forze popolari alternative” (“l’Unità”, 26 novembre 1989). Tuttavia una lieve incertezza sul vero futuro dell’Italia non veniva nascosta in quegli stessi giorni dall’“Avvenire”, il quale, se pur accogliendo con grande favore la scelta del mutamento in casa comunista, si poneva il problema del destino della stessa Dc, la cui politica si era fondata, dal 1945 in avanti, sull’opposizione al comunismo. “Ma – si leggeva – se l’argomento domani non avrà più ragione di esistere con quale messaggio si potrà allora attirare i voti della borghesia, degli incerti?”(“Avvenire”, 15 novembre 1989).
Non è poi di secondo conto il fatto che dalle macerie della politica dell’89 cominciò anche a nascere in Italia un fenomeno politico che cercò, in modo diverso, di modificare progressivamente il destino di quella che viene ormai definita la I Repubblica: il fenomeno della Lega (nata come movimento nel 1990). È del 5 giugno 1991 un articolo di “Repubblica” titolato: Bossi alza il muro del nord.
Umberto Bossi, il leader della lega nord, ha deciso di costruire il suo personale muro di Berlino. Lo farà domenica 16 giugno in quel di Pontida, paese bergamasco, un luogo ormai classico nella mitologia leghista, quando proclamerà formalmente la costituzione della Repubblica del nord, la prima delle tre macroregioni in cui vorrebbe dividere l’Italia (“La Repubblica”, 5 giugno 1991).
Tante sono le domande che i giornalisti italiani si pongono in quei giorni che seguono i fatti dell’89, poche quelle a cui riescono a trovare una risposta definitiva:
crollano le dighe, gli steccati, i cordoni sanitari; l’Europa centrale cancellata da Yalta e dalla scomparsa della Germania come reale soggetto politico emerge ancora confusamente ma irresistibile e mette perciò stesso in crisi una quantità di certezze e di obiettivi: avrà ancora un senso la Comunità politica europea, troppo a lungo declinata al futuro ed ora a rischio d’esser scavalcata dal procedere degli eventi? Avranno un senso i negoziati sul disarmo nucleare e convenzionale, mentre gli stessi dati geo-politici del problema cambiano di ora in ora sotto i nostri occhi? Avrà un senso la Nato nel momento in cui del Patto di Varsavia non resta che il ricordo e un pallidissimo rituale, e molti dei suoi membri fondatori fanno ressa agli sportelli delle banche capitalistiche in cerca di aiuto?” (Eugenio Scalfari, “La Repubblica”, 14 novembre 1989).
Resta innegabile comunque che la sensazione principale fu che il processo storico, innestato dalla caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, fosse ormai inarrestabile. A rimanere sospeso era il destino della Germania e con essa dell’Europa unita.
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- La presente relazione prende in considerazione solo una parte delle reazioni della stampa italiana, in particolare sono stati analizzati articoli tratti da “La Repubblica”, “La Stampa”, “L’Unità” e “L’Avvenire”. [↩]
- Il titolo di “Repubblica” del 25 novembre 1989 è Occhetto abbatte il muro del PCI. [↩]