di Giovanni Fineschi
Il libro La guerra italiana per la Libia(1911-1931)” (Il Mulino, Bologna, 2011), è solo l’ultimo contributo dato sul tema da Nicola Labanca, in un percorso di ricerca che lo ha ormai da tempo consacrato come uno dei maggiori studiosi italiani di storia militare e specificamente di storia del colonialismo italiano. Un libro pubblicato a cento anni di distanza dall’inizio del conflitto in Libia;un territorio, che come altri paesi africani è stato oggetto in questi ultimi anni di una guerra civile che ha portato al crollo del regime di Gheddaffi. Si mette in risalto il volto della guerra, della conquista, del ruolo dei militari e della violenza coloniale esercitata dagli italiani in Libia, in un conflitto che è non solo liberale ma anche fascista. Dominare la cosiddetta Quarta sponda fu per Giolitti e Mussolini non solo una questione di possesso su qualche territorio ma un problema di acquisizione dello status di grande potenza o addirittura del poter accarezza il sogno della grande nazione imperialista.
Prima dell’invasione della Libia, l’Italia liberale sapeva ben poco del territorio che andava a conquistare. Il governo che portò l’Italia in guerra fu il quarto presieduto da Giolitti; che operava in esso una torsione verso l’espansionismo muscolare, al fine di dar risposta alle aspettative dei nazionalisti. Quella che comunemente viene detta Guerra di Libia (1911-1913) impegnò l’esercito con circa un terzo dei suoi effettivi ed il costo finanziario fu altissimo, imponendo al bilancio un peso senza paragoni per una guerra coloniale. Una prima conquista in cui affiorarono numerosi problemi legati alla necessità di collocamento di un alto numero di soldati italiani presenti, al clima in quanto si combatté su territori desertici a cui i soldati non erano abituati, alla scarsa collaborazione delle popolazioni civile. La guerra italo-turca finì con il trattato di Losanna, con il quale i turchi cedettero la Tripolitiana e la Cirenaica all’Italia mantenendo però una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Si trattò di una guerra di transizione che sancì l’inizio di quella contro i libici. Questa seconda fase andò di pari passo con l’avvento del fascismo; e fu proprio con Mussolini che lo strumento militare mutò completamente rispetto al decennio precedente; gli ufficiali delle truppe coloniali dovettero sganciarsi dalla propria esperienza europea e iniziare un processo di apprendimento basato sullo studio dell’avversario. L’indigenizzazione, la motorizzazione dei reparti furono tra le caratteristiche portanti di questo nuovo strumento militare. La conquista della Libia, forse, rientrava per il fascismo e per i suoi maggiori esponenti in un piano molto più ampio di ciò che in realtà fu. Mussolini in un celebre discorso di fronte al Gran Consiglio del Fascismo (4 febbraio 1939) dichiarò che nessun popolo europeo poteva sentirsi libero se non avesse avuto accesso agli oceani. Il piano di Roma era quello di allungare il dominio italiano della Libia verso sud e da lì verso Oriente e l’Oceano Indiano, fino a raggiungere l’Atlantico. La Libia sarebbe servita per minacciare ad est l’Egitto inglese e a ovest il blocco tunisino-algerino francese per garantirsi una presenza nell’Oceano.
Alla fine di Gennaio del 1932 Badoglio, anche dopo l’impiccagione del maggior esponente della guerriglia libica Omar al-Mukhtar, dichiarò stroncata la ribellione. In realtà le altisonanti affermazioni del Maresciallo corrisposero solo in parte a verità, come confermò tra l’altro la divisione in due aree della libia: una sotto amministrazione civile, l’altra, la zona del sud sotto governo militare. Badoglio e Graziani lasciarono la Libia nel 1934 sostituiti da Italo Balbo, fascista di primo rilievo che aprì le porte alla colonizzazione demografica: migliaia e migliaia di coloni italiani furono chiamati a coltivare le terre libiche.
Alcune brevi osservazioni basteranno ad evidenziare il rilievo di questo contributo di ricostruzione interpretativa della vicenda libica. Sul piano della comparazione Labanca mette in risalto le differenziazioni che ci furono tra il colonialismo fascista e quello delle potenze europee, dopo la fine della Prima guerra mondiale e la crisi economica del 1929. Mentre le altre potenze cominciarono a riconoscere certe legittimità e a discutere delle riforme coloniali dei loro territori conquistati, l’Italia avviò con la guerra libica una politica estremamente aggressiva – ordinando la conquista militare della Somalia e della Libia, organizzando campi di lavoro – che avrebbe avuto il suo compimento con la campagna d’Etiopia e con la cristallizzazione del pregiudizio razziale nelle leggi del 1938.
Un’altra importante riflessione da fare è quella riguardante la condotta della guerra, nella prima parte di stampo liberale e nella cosiddetta riconquista di stampo fascista. Mentre nella prima, seppur in alcuni momenti, fu dura in altri si attenuò come ad esempio attraverso l’attuazione della “politica degli Statuti” volta a concedere ampie autonomie ai libici, una cittadinanza speciale e uno statuto. Il fascismo utilizzò sempre una violenza estrema; una violenza insita nell’ideologia fascista, presente già nella Penisola che con lo squadrismo aveva creato un’atmosfera di terrore. L’ideologia di Mussolini nutriva un’avversione razziale contro i nativi, ma soprattutto contro gli intellettuali e i notabili locali che osavano modernizzarsi e sfidare il Colonialismo. La repressione fu durissima e culminò con la creazione dei campi di lavoro, volti all’estirpazione della resistenza; non solo l’opinione araba fu sdegnata da tale creazione ma anche l’opinione internazionale ne rimase scossa, anche se non ci furono grandi manifestazioni di protesta. Rastrellamenti e perquisizioni erano all’ordine del giorno. Inoltre possiamo affermare che la forza e la violenza delle truppe italiane, nel periodo della riconquista, poté esercitarsi anche perché la resistenza anticoloniale si indebolì fortemente, perse l’appoggio di molte popolazioni, vide la scomparsa di molti leader ma soprattutto non ebbe un sostegno adeguato dall’opinione pubblica internazionale.
Altro elemento di rilievo è il silenzio che fu fatto cadere sulla questione dopo la dichiarazione di pretesa soppressione della resistenza autoctona, che consentì al fascismo di indirizzare le proprie mire espansionistiche verso altre terre: il Corno d’Africa e l’Etiopia in particolare. Un silenzio che in qualche modo ha riguardato anche gli storici, almeno fino all’apertura di una più intensa stagione di studi sulla storia militare e sulla storia del colonialismo tra gli anni Settanta ed gli anni Ottanta-Novanta.
È da sottolineare pure, da ultimo, che il volume contribuisce ad abbattere il muro ancora oggi ben saldo degli “italiani brava gente”, e ad abbattere stereotipi contro la cui durezza già altri si sono impegnati proficuamente. Anche per questo una lettura ed una conoscenza diffusa ben oltre le accademiche di questo volume, appare senza dubbio auspicabile.