di Francesco Scomazzon
Abstract
L’obiettivo dell’articolo è studiare l’organizzazione del potere fascista al confine elvetico con particolare attenzione ai rapporti locali, in un intreccio di collusioni e repressioni che ricadevano sovente a beneficio degli oppositori di regime. Si tenterà inoltre di chiarire le posizioni delle autorità elvetiche di fronte ai reiterati soprusi dei militari italiani, nonché le manovre irredentiste del fascismo su una regione culturalmente e linguisticamente affine come il Canton Ticino. Infine si valuteranno le conseguenze della politica di occupazione tedesca del nord Italia tra il 1943-45, ancora una volta con attenzione alle locali popolazioni e al loro ruolo nel garantire passaggi clandestini in Svizzera a migliaia di italiani, ebrei ed ex prigionieri di guerra.
Abstract english
Ruling at the frontiers: fascism at the Swiss border (1925-1945)
The aim of this article is to study the organisation of Italian fascism on the Swiss border, with particular attention to its relationship with local populations. It will also try to clarify the position taken by the Swiss authorities towards the abuses committed by Italian soldiers, as well as fascism irredentist manoeuvres in a region so culturally and linguistically similar to Italy as the southern Canton Tessin. Finally, the essay will evaluate the consequences of the German occupation policy in northern Italy between 1943 and 1945, and the key-role of local people, who helped thousands of Italians, prisoners-of-war and stateless Jews to cross the border illegally.
Organizzare i controlli
Nel dicembre 1926 Mussolini telegrafò al Comune di Varese annunciando la sua decisione di elevare il circondario ad ente provincia, scindendo così il legame con il dipartimento del Lario risalente all’epoca napoleonica. Una scelta che rifletteva la centralità di un’area periferica ma limitrofa ad una regione culturalmente e linguisticamente affine come il Canton Ticino, culla – evidenziavano i locali maggiorenti fascisti dell’epoca – di una “malvagia minoranza di fuorusciti e rinnegati, sempre pronti a prestare man forte ad ogni aperto o oculato tentativo straniero ai danni della Patria” (Lodi; Maniglio 1987, 123). L’affermazione era certamente viziata dal ricordo della precedente esperienza risorgimentale, anche se la riesumazione della vecchia parola “fuorusciti” – come già evidenziato da Garosci (1953) – confermava una distanza amplificata da più vaste macchinazioni, che il nascente Stato totalitario avrebbe cercato di arginare tra difficoltà organizzative e locali abusi di potere. Si trattava di collusioni evidenti soprattutto nella zona compresa tra il lago Maggiore e l’alto Lario, dove i buoni collegamenti con l’alta Italia e la Svizzera meridionale ne avrebbero accentuato il valore, riconosciuto in particolare nell’ultimo tragico biennio di guerra.
In realtà già dal 1926 emerse prepotente il problema di ridefinire quei fragili equilibri regionali indeboliti dalle manovre cospirative di quell’anno, nonché dai successivi espatri per esempio di quadri intermedi e dirigenti socialisti quali Treves, Saragat, Zannerini e Nenni, accolti e soccorsi in Ticino dal fondatore di “Libera Stampa”, Guglielmo Canevascini (Cerutti 1986, 173). Ancora pochi numeri in quel periodo, ma sufficienti ad avviare con le loro macchinazioni e attività pubblicistiche dall’estero, un processo normativo che avrebbe svelato la nuova concezione strategica del fascismo. Le leggi di PS varate nel 1926 anticiparono infatti la ridefinizione di un’amministrazione periferica che, riorganizzata attorno al “Testo Unico della legge comunale e provinciale” del 1934, avrebbe fatto perno sulle nuove province come strumento di controllo per un regime ancora in fase di consolidamento. Non è un caso se tra i diciassette nuovi capoluoghi di provincia, istituiti con la parallela abolizione di settantacinque sottoprefetture, figurassero oltre a Varese altre cinque località di confine, tra cui le città di Savona e Aosta: la prima investita del controllo sulle vie di fuga in direzione della Francia – come aveva dimostrato il caso di Turati – la seconda invece elevata a contrafforte del Vallese e strumento di repressione dei locali particolarismi, stemperati in questo caso con le aggregazioni dei circondari eporediese e canavesano (Riccarand 1978, 153).
L’istituzione dei nuovi enti fu accompagnata pertanto da una riorganizzazione amministrativa che avrebbe comportato non solo un’espansione dell’apparato poliziesco, a partire dalla creazione di una Divisione polizia di frontiera e trasporti, ma una più profonda ristrutturazione dei servizi nelle quindici province di frontiera. Raggruppate in cinque zone con sede nelle prefetture di Genova, Torino, Como, Bolzano e Trieste, ciascun settore sarebbe stato affidato ad un funzionario di PS responsabile dei servizi a cui si sarebbero rivolti i prefetti delle singole province (Canali 2004, 107). I collegamenti e gli scambi tra l’antifascismo interno e i centri esteri sollecitarono così nuovi strumenti di contrasto a un’emigrazione politica che, ancora limitata numericamente, iniziava a guardare con crescente interesse alla vicina e neutrale Confederazione. Se nel 1929 la Svizzera accoglieva infatti soltanto trentadue fuorusciti, di cui tredici a Ginevra e appena nove in Ticino (Cerutti 1986, 178), la sua funzione di transito verso la Francia aveva rafforzato agli occhi del fascismo l’importanza di quelle provincie adiacenti ai tre cantoni meridionali di Vallese, Ticino e Grigioni. Si trattava in particolare dei circondari di Torino, del Cuneese e della neo-istituita provincia di Aosta raggruppati nella seconda zona di frontiera, ma soprattutto il terzo settore: oltre cento chilometri di una frastagliata linea che attraversava Novarese, Comasco, Valtellina e – dopo la revisione amministrativa del 1927 – anche le provincie di Varese e Vercelli1.
Di fatto il lavoro dei funzionari di PS in quelle cinque zone di confine si dimostrò inadeguato e talvolta controproducente. Benché fossero organi tecnici di collegamento tra prefetture e Viminale, quegli agenti svelarono in breve tempo le difficoltà nel coordinamento dei vari corpi impegnati nei servizi di frontiera, non di rado scavalcati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Istituita agli inizi del 1923 e subito investita da un’incontrollata proliferazione di reparti, la Milizia “impresse una forte spinta alla fascistizzazione dello Stato” (Poesio 2010, 29) creando però delle resistenze con carabinieri e guardie di finanza. In particolare la sovrapposizione e commistione di interessi politici con obiettivi militari finirono per vanificare quegli sforzi conciliatori perseguiti dai funzionari di PS. Oltretutto il carattere espressamente fascista delle camice nere, contraddistinte anche da elementi politicamente turbolenti, concorse ad aggravare i rapporti con le altre forze, che invece – almeno in un primo momento – accolsero positivamente la nuova formazione. Durante il 1927 la Guardia di finanza, impegnata con almeno quattromila unità nei tradizionali compiti di vigilanza fiscale, aveva ipotizzato infatti una revisione delle forze a favore dei reparti confinari della Milizia, da affiancare ai pochi carabinieri tra il Verbano e il passo di Santa Maria allo Stelvio, in alta Valtellina2.
Si trattava di un migliaio di “Cacciatori alpini confinari” del Comando 2a Legione MVSN di Milano, ripartiti nelle tre coorti – l’antica denominazione militare ripresa dal fascismo – di Varese, Menaggio e Sondrio. L’idea era rafforzare la loro presenza nelle fasce di retro frontiera, in particolare nelle zone dell’alto Comasco sguarnite di efficaci ostacoli ai passaggi clandestini, ma gli insufficienti risultati finirono tuttavia per indebolirne la vigilanza. Gli sforzi organizzativi vennero così annullati dai dissapori per la crescente influenza dei “confinari”, lungi dal garantire una piena e fattiva collaborazione con PS e carabinieri. Durante un sopralluogo a Lanzo d’Intelvi sul finire del 1926 il commissario per il terzo settore, Alfredo Soldi, riscontrò ad esempio un’estrema facilità di passaggio, registrata anche “sul monte Generoso dove si circola indisturbati: ritengo – informava l’ufficiale alla prefettura lariana – che ciò dipenda principalmente dal fatto constatato che molte brigate di Finanza non hanno l’organico delle guardie al completo”3. Oltretutto la Milizia era indicata anche bersaglio di spari da parte di sconosciuti. “Lo Spluga – riportava una segnalazione fiduciaria per l’alta Valchiavenna – è quasi incustodito e di là un carabiniere in alta uniforme giorni orsono passò dall’altra parte. Sul lago sono insufficientissime le misure di PS. I contrabbandieri fanno i loro comodi; molta è la cocaina che passa in Italia. Grande è l’attrito tra la Milizia e la PS”4.
In questo clima di disordine chi azzardava passaggi irregolari avrebbe comunque eluso i valichi ben vigilati a favore di quelli secondari, dove le perquisizioni, specie a scopo politico, raramente venivano eseguite. Si trattava di percorsi sovente appannaggio di popolazioni locali, ma anche di camicie nere che non si lasciavano sfuggire qualche illecita occasione per integrare i magri guadagni. Un’indagine della prefettura aostana risalente all’estate 1930 svelò proprio quelle intese accentuate soprattutto tra i militari nativi della regione, “perché – denunciava un ex milite – hanno proprio nel sangue la mania del contrabbando e l’istinto degli accompagnatori di persone che vogliono passare clandestinamente la frontiera, perché questo hanno fatto i loro nonni, i loro padri e lo fanno anche loro”5. La scarsa disciplina e talvolta il debole attaccamento al corpo, ma anche l’arroganza che derivava dall’esserne parte, si rispecchiavano in forme di prevaricazione sia nei confronti delle locali popolazioni, sia negli occasionali rapporti con le guardie svizzere, non di rado oggetto di maltrattamenti, ingiurie e comportamenti arbitrari. Una presenza molesta rilevata dal ministro di Svizzera a Roma, Georges Wagnière6, poi minimizzata da Mussolini sostenendo quasi paternalisticamente che le truppe di frontiera “ne pèchent que par ignorance et par excès de zèle, mais – riprendeva nella lettera per l’ambasciatore – soyez bien certain qu’il n’y a, de leur part, nessun dolo”7. Tuttavia l’irrigidimento elvetico nei controlli persuase Roma ad una maggiore cautela, soprattutto a difesa dei molti italiani residenti nel Paese, nella convinzione che “qualsiasi incidente sarà certamente risolto in breve tempo e con reciproca soddisfazione”8. Un’illusione che avrebbe condizionato i successivi rapporti con Berna, scardinando oltretutto quell’acclamato rigore fascista sui confini settentrionali. L’impossibilità di arginare la diffusa indisciplina tra i militari spinse così il Viminale a ridurre gli effettivi, destinando una parte consistente di quelle duemila unità complessive al circondario aostano, dove i flussi migratori iniziavano ad alimentare anche i primi esperimenti di opposizione al regime9.
La gestione del potere tra collusioni e repressioni
Nonostante le continue violazioni territoriali, piuttosto frequenti nel corso del 1927, il Consiglio federale imboccò la strada della conciliazione evitando così possibili contraccolpi dalle divergenze con Roma. Quella che Georges Wagnière aveva definito una vera e propria caccia al turista, in realtà era attribuibile solo in parte all’indisciplina dei militi, che avevano individuato nelle gite turistiche e in qualche escursione in montagna un’abile copertura all’espatrio di antifascisti. In quell’anno il capo della polizia Arturo Bocchini segnalava per esempio che dal Comasco “passeggiate turistiche sul lago e in montagna avrebbero mascherato lo sconfinamento di numerosi neo fuorusciti diretti a Parigi (via Berna-Friburgo). Si tratterebbe in maggior parte di repubblicani concentratisi a Milano da più parti d’Italia”10. L’informativa faceva riferimento ad alcuni precedenti espatri per la val d’Intelvi, dove il fallimento nella gestione dei controlli rafforzò quei traffici illeciti evidenti anche nelle regioni alpine occidentali. Oltretutto il blocco dell’emigrazione determinò ad esempio nel solo capoluogo aostano tra gli anni Venti e il 1944 più di trentamila arrivi e circa venticinquemila partenze per l’estero – nella quasi totalità irregolari – contribuendo anche all’aumento del numero dei suoi abitanti: tra il 1921 e il 1936 la città di Aosta passò infatti dai novemila agli oltre sedicimila residenti (Janin 1968, 312). Una situazione che avvantaggiò soprattutto i militanti più attivi da tempo residenti in Francia, capaci di sfruttare quell’intreccio di emigrazione economica ed esilio politico per introdurre e diffondere nel Regno fogli come l’Umanità, Il Becco giallo o il Corriere degli Italiani. Si trattava di percorsi alternativi ai più efficienti ma insicuri canali ferroviari che, tuttavia, continuavano ad avvalersi per quegli smerci di spedizionieri italiani e di qualche giornalista svizzero. D’altronde la notizia che un corrispondente a Lugano della basilese National Zeitung, Adolfo Saager, continuasse a ricevere stampati dall’Italia ancora nei primi mesi del 1930, fece particolare scalpore perché successiva all’ondata di arresti che aveva seguito il fermo a Milano del ticinese Giuseppe Peretti. Il coinvolgimento di questo operaio delle officine ferroviarie bellinzonesi, accusato di collusioni con gli ambienti anarcosindacalisti del romagnolo Pietro Costa11, sollevò infatti delle serie preoccupazioni sia a livello cantonale, per l’ondata emotiva abilmente sfruttata da Saager, sia nel Regno dove l’arresto del manovale svelò collusioni ben più ampie12 (Carolini; Dal Pont 1980, 380). A poche settimane di distanza l’ispettore generale di PS, Francesco Nudi, poté così desumere che “se Peretti con tanta costanza e fiducia, da tre anni per lo meno, affrontando rischi è venuto qui a portare questi soccorsi ai compagni d’Italia […]; se è giunto perfino a condurre qualcuno dalla Svizzera, segretamente, e non si sa a quale scopo, sarebbe negare il vero se si dubitasse che egli partecipava in toto alle macchinazioni degli anarchici milanesi, servendo da tratto di congiunzione fra costoro e quelli elvetici”13.
In effetti alcune segnalazioni sulle corrispondenze tra familiari di detenuti e un “comitato anarchico pro-figli dei carcerati d’Italia” a Ginevra14, dimostravano l’impossibilità per il regime di scardinare una rete che, alimentandosi soprattutto di un’istintiva ribellione popolare alla situazione economica, continuava ad assicurare traffici illeciti, passaggi clandestini e contrabbandi valutari. Connivenze occasionali, sommate ai continui dissapori tra i corpi di guardia, resero possibile espatri anche dai varchi dell’alto Varesotto, provincia dove furono individuati almeno trecento propagandisti attivi tra il 1926 e il 1943. (Carolini; Dal Pont, 1980). Se si fa eccezione per i fermi di Mario Levi e Segre Amar – frutto di delazione e pretesto per la stampa fascista di scatenare la prima campagna antiebraica (Michaelis 1982, 77) – ancora nei primi anni Trenta il valico doganale di Ponte Tresa era segnalato dai locali contrabbandieri come un passaggio ideale, favorito anche dai persistenti dissapori tra i militari di guardia. “Non vi è nessuna colleganza fra le diverse autorità d’ordine – informava una nota prefettizia – anzi ognuno cerca di fare il proprio servizio, infischiandosene delle malefatte che entrano nell’ordine dell’altro […]”15. Una situazione analoga riscontrata pure al confine con il basso Mendrisiotto, dove “un gran traffico di persone, in gran parte contrabbandieri, va e viene dall’Italia […]. Si trova strano che sia possibile tanto traffico di gente, perché la frontiera è ben sorvegliata”16.
Elenco delle operazioni di servizio eseguite dal Commissariato per la terza zona di frontiera dal 1° gennaio al 31 dicembre 1931 |
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Settori della terza zona di frontiera |
|||||||
Domodossola |
Luino | P.te Tresa | P.to Ceresio | Chias
so |
Tirano | ||
città | scalo | ||||||
arresti per tentato espatrio clandestino |
18 |
6 |
13 |
1 |
1 |
19 |
18 |
arresti al reingresso nel Regno per espatrio clandestino effettuato in epoca precedente |
12 |
18 |
2 |
1 |
0 |
0 |
29 |
arresti per favoreggiamento d’espatrio |
0 |
1 |
2 |
1 |
0 |
0 |
0 |
arresti per altri motivi |
71 |
7 |
5 |
3 |
2 |
6 |
48 |
fermi per sospetto di espatrio clandestino |
2 |
1 |
3 |
0 |
2 |
2 |
8 |
fermi per misure di PS |
100 |
107 |
59 |
18 |
60 |
68 |
37 |
denunce di persone espatriate clandestinamente |
24 |
15 |
8 |
0 |
1 |
1 |
3 |
denunce di favoreggiatori |
1 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
denunce per reato di contrabbando |
126 |
0 |
16 |
10 |
14 |
33 |
221 |
perquisizioni al passaggio della frontiera |
4 |
584 |
1128 |
334 |
157 |
2425 |
35 |
stranieri respinti |
13 |
73 |
5 |
6 |
0 |
28 |
30 |
connazionali non ammessi al transito in uscita dal Regno |
5 |
23 |
5 |
4 |
2 |
120 |
82 |
persone segnalate all’ingresso nel Regno |
32 |
169 |
95 |
112 |
107 |
1318 |
34 |
persone segnalate all’uscita dal Regno |
25 |
139 |
95 |
120 |
94 |
1185 |
27 |
tessere di frontiera sequestrate o ritirate |
0 |
0 |
52 |
0 |
15 |
69 |
7 |
numero di giornali o stampe sequestrate |
3 |
3100 |
119 |
0 |
31 |
1 |
0 |
operazioni di sequestro di contrabbando |
85 |
2 |
26 |
13 |
24 |
352 |
211 |
Fonte: Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 17. Commissariato di frontiera, elenco operazioni, 1932
L’elenco delle operazioni compiute durante il 1931 nel terzo settore di confine contrastavano tuttavia con quelle ampie e vaghe connivenze che, ricorrenti nei dispacci prefettizi, di fatto sfuggivano alle misure di vigilanza. Anche i pochi arresti per espatrio clandestino, a fronte delle numerose perquisizioni, lasciavano intravedere lucrosi contrabbandi di passaporti falsi, talvolta prerogativa di certi ambienti deviati dell’amministrazione ticinese. Randolfo Pacciardi, che si era stabilito a Lugano da metà anni Venti, parlava infatti di “cinquecento [franchi] da versare in anticipo […] trafficando al dipartimento di polizia di Bellinzona con compiacenti funzionari; altri cinquecento a missione compiuta. Gli stessi “falsari” – riferiva l’esule repubblicano al connazionale, e futuro primo ambasciatore dell’Italia democratica a Berna, Egidio Reale – davano poi appuntamento in Italia a chi doveva espatriare e gli consegnavano il documento svizzero” (Palma 2003, 77). Queste collusioni maturate in un ambiente dominato dalla figura di Canevascini e dal foglio socialista “Libera Stampa”, il primo giornale antifascista in lingua italiana pubblicato in Europa, non produssero gli effetti desiderati. La continua introduzione di giornali, riviste e manifestini propagandistici, rivolti anche a molti giovani ora chiamati alle armi, venne in parte annullata dagli stessi destinatari che, per immaturità politica, pericoli di denunce e delazioni quotidiane, finivano per consegnare alle autorità quei fogli, dimostrando così la completa sottomissione al regime. Questo in parte sopperiva al disordinato sistema di vigilanza sulle frontiere, che ancora nei primi anni di guerra continuavano ad essere zone del tutto permeabili.
Minacciare e sorvegliare: il fascismo in Canton Ticino
L’aggravarsi della situazione internazionale accentuò gli illeciti rapporti tra i due Stati, senza scalfire però un’amicizia confermata da Mussolini ancora nel 1934. Il 6 ottobre di quell’anno, di fronte agli operai riuniti in piazza Duomo a Milano, il duce sottolineò infatti gli ottimi rapporti che legavano l’Italia alla Confederazione e in particolare al suo cantone di lingua italiana, prospettando la ratifica del trattato di conciliazione appena rinnovato per altri due lustri. “Noi desideriamo soltanto che sia conservata e potenziata l’italianità del Canton Ticino – osservò Mussolini – e ciò non soltanto nell’interesse nostro, ma soprattutto nell’interesse e per l’avvenire della Repubblica Svizzera”17. L’affermazione faceva allusione a quel progressivo “intedeschimento” della regione, sollevato dal capo del fascismo già nei primi anni Venti quando, rivolto al vecchio Giolitti, abbozzò nel suo primo discorso alla Camera le “gravi preoccupazioni per la sicurezza della Lombardia e di tutta l’Italia settentrionale” (Cerutti 1986, 32).
A distanza di un decennio quei timori furono in parte confermati dallo sviluppo dei primi movimenti filonazisti, che non solo iniziavano ad erodere la presunta influenza italiana su una regione ritenuta culturalmente e linguisticamente affine, ma incominciavano a polarizzare anche i primi esuli tedeschi che ravvisavano un comune fronte antifascista con i rifugiati italiani. Durante il 1933, quando i rapporti tra Roma e Berlino non erano ancora improntati ad una piena e reciproca fiducia, una nota confidenziale da Zurigo informava che “il noto scrittore Emil Ludwig da qualche tempo naturalizzato svizzero, si è fatto promotore di un vasto movimento intellettuale contro i governi reazionari fascisti, movimento che avrà sede ad Ascona (Ticino) ed al quale hanno già aderito il noto prof. Einstein, che si è pure naturalizzato svizzero, Henri Barbusse, Guglielmo Ferrero, ecc. Sembra che nel Ticino debbansi rifugiare tutti gli intellettuali ebrei di Germania che militavano quasi esclusivamente nei partiti di sinistra”18. Questa nuova infiltrazione politica, accompagnata da un rinnovato antifascismo, ravvivò il focolaio irredentista maturato nei primi anni Dieci attorno all’Adula di Salvioni e Bontempi, poi ripreso dopo una ventina d’anni sulle colonne della romana “Rassegna Italiana” da Dante Severin. L’autore, e futuro redattore dell’“Archivio Storico della Svizzera Italiana”, evidenziava l’opportunità di un deciso rafforzamento della presenza italiana nella regione come argine sia al montante antifascismo, sia alla crescente invadenza del Reich che, già da diverso tempo, iniziava a farsi sentire anche nel vicino Grigioni (Codiroli 1990, 176).
Dal punto di vista degli interessi particolari del Cantone – scriveva Severin – non è quindi da sconsigliare un maggior assorbimento di nostri connazionali nella compagine svizzero-italiana; vale a dire – per quanto la cosa possa sembrare inopportuna e contraria ai principi nazionali fascisti – che l’ottenimento della cittadinanza svizzera potrebbe essere consentito in più larga misura […]. Il problema etnico del Canton Ticino è dunque risolvibile nel quadro della costituzione elvetica stessa. Il fatto che gli italiani vedono di buon animo e si studiano di far comprendere l’urgenza di tale soluzione non deve far credere a presunte ingerenze. In più d’una occasione il Governo Fascista ha dato prove inequivocabili di amicizia, di comprensione e più d’una volta ha dimostrato che l’indipendenza elvetica è almeno utile per l’equilibrio e la pace europea, quanto quella austriaca19.
Benché la tesi non sollevasse questioni apertamente irredentiste, provocò tuttavia dei malumori sfociati nell’espulsione di Severin dalla Confederazione. Un atto inviso al neoministro d’Italia a Berna, Attilio Tamaro, non tanto per quelle improbabili accuse di indebita ingerenza negli affari cantonali, quanto per la mancata difesa di un’italianità che Mussolini avrebbe garantito portando al Gottardo le frontiere del Regno. Il tentativo di riaffermare il controllo su quel cantone, dove persistevano anche infiltrazioni di matrice nazionalsocialista, avrebbe tuttavia compromesso la condizione degli italiani residenti, paragonata dal diplomatico a quella delle “popolazioni rurali austriacanti del Friuli e del Trentino prima della guerra di redenzione”20. Il problema delle incessanti e arbitrarie espulsioni di molti italiani dal piccolo Stato investì anche il consigliere federale Motta che, nonostante i toni elogiativi riservati al capo del fascismo dopo l’incontro di Monaco, richiamò i suoi concittadini ad un maggiore rispetto verso il potente vicino. Anche l’appello alla moderazione rivolto a certa carta stampata, verso la quale lo statista airolese avrebbe comunque assicurato di mettere “nel difenderla tutto l’ardore della mia convinzione”21, cadde nel vuoto di fronte ad una popolazione in buona parte avversa al fascismo. “I più – evidenziava l’ambasciatore Tamaro – soffrono di tutti i morbi della democrazia e della psicosi della frontiera, sono quindi decisamente ostili alla nostra politica […]. Vogliono in grande maggioranza essere italiani e lo dicono in tutti i toni, ma ciò significa per loro, specie in questi tempi, unicamente parlare italiano”22.
Di fatto le autorità svizzere e ticinesi si piegarono a quell’ingombrante vicino che, nonostante la sua vaga politica di penetrazione culturale, poteva comunque garantire un adeguato argine alle minacciose infiltrazioni del Reich tra gli ambienti estremisti elvetici. Così le critiche sollevate da qualche foglio locale, o gli sporadici dileggi ai militari italiani, talvolta “circondati da un’atmosfera di avversione e apostrofati con parole ingiuriose”23, continuarono a disturbare un clima intralciato anche dalle posizioni tutt’altro che accomodanti di alcuni consiglieri ticinesi.
Il Tarchini – così scriveva a Palazzo Chigi nel 1940 il ministro Tamaro – è un vecchio e incorreggibile antifascista che non lascia occasione per far sentire questo suo veleno. L’Antognini, l’anno scorso, in seguito a un preteso incidente di frontiera, sollevò la stampa ticinese contro l’Italia, dichiarò pubblicamente che non sarebbe più andato nel nostro Paese e si comportò indegnamente, sotto ogni riguardo, verso di noi. Il Canevascini, socialista, è in rubrica per respingimento. Il Lepori tempo fa doveva essere messo nella stessa rubrica e non so perché la misura sia stata poi trasformata in sorveglianza24.
Gli inviti ad evitare contumelie e volgari insinuazioni contro le forze armate italiane ebbero l’effetto di circoscrivere quelle diffamazioni tra i circoli antifascisti ticinesi, senza però modificare i sentimenti di un’opinione pubblica influenzata dall’evoluzione politica internazionale e dai bollettini di guerra. Gli uffici consolari d’Italia a Lugano segnalavano infatti che “il silenzio è sì aumentato, ma lo stato d’animo è sempre lo stesso e l’atteggiamento dei ticinesi è più che mai pronto a manifestare alla prima occasione favorevole la profonda e radicata mentalità antitaliana, a mala pena compressa”25. Le autorità fasciste, ormai ridotto lo spazio di manovra, si limitavano ora a registrare quanto accadeva al di là del confine. Nel dicembre 1940 le crescenti difficoltà sui campi greci e africani obbligarono Mussolini ad abbandonare l’idea di una possibile guerra parallela, e le vaghe mire espansionistiche in direzione della Svizzera cessarono definitivamente. L’abbandono di un’attiva politica estera, e la completa subordinazione ai disegni di dominazione hitleriana, obbligarono così il duce a farsi garante dell’integrità elvetica, nel vano tentativo di affrancarsi dalla schiacciante oppressione alleata. Nell’ottobre 1940 il Ministero dell’Interno fu messo al corrente della vasta simpatia che godeva l’Inghilterra anche tra gli svizzeri d’oltre Gottardo, lungi dal nascondere i propri timori per le conseguenze di un’eventuale vittoria tedesca.
La Germania è estremamente mal vista. Si teme che essa vincendo la guerra – così riferiva un anonimo fiduciario – vorrebbe, nella migliore delle ipotesi, interferire nella politica interna ed economica svizzera, se non addirittura ridurre la Svizzera, come la Slovacchia, ad una specie di protettorato tedesco. Questa prospettiva non può certo sorridere ad un popolo che, come quello svizzero, è stato sempre gelosissimo della propria indipendenza. Nei riguardi del nostro Paese non mi pare che vi siano prevenzioni speciali, anche a causa della molto maggior misura che l’Italia ha saputo sempre conservare nelle sue relazioni con le altre Nazioni. Il fatto però di essere alleati della Germania non ci attira certamente le generali simpatie26.
Un’alleanza che finì per marginalizzarne anche il ruolo arbitrale tra Germania e Svizzera, lasciando scivolare quest’ultima sotto ricatto tedesco. Qualche giorno prima della capitolazione francese il Terzo Reich decretò l’embargo sulle esportazioni di carbone verso la Confederazione, obbligando così il Paese ad estenuanti trattative con gli Alleati – e in particolare gli Stati Uniti – per tutelare una neutralità già da tempo compromessa. Almeno fino al 1942-’43 la Germania riuscì a trasferire oltre Reno ghisa, carbone e materie tessili, mentre le produzioni nella meccanica di precisione prendevano la strada del Reich, attento ad evitare pericolosi strappi politici che avrebbero spostato la precaria neutralità del piccolo Stato sul versante alleato (Kuder 2002, 107).
Delazioni e reti di assistenza negli anni della Repubblica Sociale italiana
L’influenza esercitata da Berlino sulla Svizzera sarebbe emersa nell’ultimo tragico biennio di guerra. Il crollo del fascismo e lo sfaldarsi del suo esercito in quei quarantacinque giorni di contenuti sussulti democratici aprirono le porte alle truppe tedesche che, in assenza di significativi episodi resistenziali, presero facilmente possesso dei principali centri a ridosso della frontiera elvetica. Quelle zone, che il fascismo mai riuscì a controllare ed assoggettare, stavano diventando infatti una calamita per centinaia di militari sbandati, ex prigionieri di guerra alleati e renitenti alla leva, come per quegli ebrei scivolati da un’insopportabile condizione discriminatoria nel baratro delle persecuzioni. Sotto questo aspetto la nascita della Repubblica Sociale segnò non soltanto il restringimento dei già esili margini di manovra italiani, ma il rovesciamento del rapporto tra un centro ora marginalizzato e una periferia diventata centrale in quegli ultimi due drammatici anni.
A pochi giorni di distanza dall’annuncio armistiziale, truppe di frontiera tedesche provenienti da Innsbruck iniziarono infatti ad occupare il frastagliato confine tra la sponda orientale del Verbano e l’alta Valtellina, sguarnito anche per le defezioni e i passaggi in Svizzera di molti finanzieri. La vicinanza e i buoni collegamenti con i principali centri dell’alta Italia richiamarono così nella regione soprattutto una variegata comunità ebraica, che iniziava a guardare alla democratica Svizzera come unica possibile via di salvezza dal rincrudimento legislativo del neofascismo repubblicano. D’altronde sia la fuga di notizie sulla strage di Meina, ma soprattutto l’ordine di polizia di novembre – che prevedeva l’arresto e il concentramento di ebrei in campi provinciali – non lasciavano loro altra possibilità che tentare il passaggio clandestino del confine. Nell’arco di sei mesi, tra il 12 settembre 1943 e il 23 marzo 1944, le autorità doganali ticinesi segnalarono l’ingresso nella Svizzera italiana di ventitremila profughi, di cui oltre tremila ebrei, quattromila prigionieri di guerra evasi, quasi quindicimila disertori italiani o sedicenti tali e oltre un migliaio di profughi politici (Koller 1996). Di questo contingente quasi la metà fu respinto in Italia, dove la chiusura e il controllo delle frontiere da parte tedesca avrebbero reso quasi vano ogni ulteriore tentativo di fuga, aprendo quindi la strada ad arresti e deportazioni indiscriminate.
Nel tentativo di frenare questi espatri, stroncando anche la formazione delle prime bande resistenziali, il 16 settembre 1943 la regione compresa tra la sponda orientale del lago Maggiore e il passo dello Stelvio fu riorganizzata in quattro zone, assegnate a commissari distrettuali tedeschi che avrebbero sopperito all’inaffidabile presenza italiana. Entro la seconda metà del mese infatti tutti i punti nevralgici tra le province di Varese e Sondrio vennero chiusi al transito. La popolazione civile, avvolta in un’atmosfera di completa apatia, contrastata dalla formazione dei primi e sparuti gruppi partigiani, assistette impotente a queste condizioni di asservimento, di fronte alle quali i militari italiani cercarono di ritagliarsi effimeri spazi di manovra. Un tentativo che trovò nella Guardia Nazionale Repubblicana, il nuovo organismo militare nato dalle ceneri della Milizia Volontaria, un rinnovato strumento di controllo e gestione del potere. Nonostante qualche atto di sabotaggio e alcune diserzioni puntualmente registrate nei notiziari tedeschi, i risultati non si fecero comunque attendere. Una nota del Comando 2a Legione GNR “Monte Rosa” del marzo 1944 riportava ad esempio la cattura nei mesi precedenti di centodiciassette prigionieri di guerra sorpresi tra il lago Maggiore e la Val Chiavenna, di centotrentasette ebrei, un centinaio di favoreggiatori, trafficanti di oro, armi e pubblicistica antifascista.
Operazioni e fermi effettuati dalla 2a Legione GNR confinaria “Monte Rosa”
tra il Verbano e la Val Chiavenna dall’8 settembre 1943 al 29 febbraio 1944
Tentato espatrio e rimpatrio clandestino 89
Catture prigionieri di guerra 117
Fermo di ebrei 137
Partecipazione a bande di rivoltosi 13
Detenzione di armi 3
Traffico d’oro 11
Favoreggiamento in espatrio 117
Propaganda antifascista 1
Commercio e sequestro generi contingentati 52
Misure di PS 94
Ex militari rientrati dalla Svizzera 504
Varie 8
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Totale 1.147
Persone controllate 10.254
Fonte: Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 2, sc. 109. Comando 2a Legione GNR confinaria al Capo della Provincia di Como, 1° marzo 1944.
Gli arresti non attenuarono tuttavia quelle violazioni incoraggiate dalla recrudescenza legislativa e dal lassismo di alcuni finanzieri, accusati dalle camicie nere di favoreggiamento all’espatrio e di traffici illeciti. Soprattutto nelle zone di facile accessibilità come il Comasco, dove si profilavano facili e cospicui guadagni, anche “i Carabinieri e gli Agenti di PS addetti allo specifico compito di frontiera – annotava sul finire del 1943 la prefettura di Como – anziché impedire il traffico clandestino di persone e di cose, lo hanno, specie nella seconda e terza decade di settembre, favorito apertamente anche con l’incitamento agli sbandati a riparare in Svizzera”27. Queste collusioni, evidenti in particolare attorno alla regione dei laghi prealpini, alimentarono traffici ed espatri di profughi anche dalle provincie occidentali cadute sotto vigilanza tedesca, soprattutto dopo lo sbarco alleato nella Francia meridionale. “A partire dalla fine di agosto affluiscono nell’alta Valle [d’Aosta] ingenti rinforzi: nella zona del Piccolo San Bernardo si contano 2000 tedeschi […] rafforzati da due batterie della San Marco con 500 uomini; 130 tedeschi presidiano il Col de la Seigne, 50 sono a Courmayeur, 900 tra Pré-Saint-Didier e Saint Pierre” (Nicco 1995, 198).
Uno schieramento imponente che limitò anche i primi timidi sforzi popolari rivolti soprattutto agli ex prigionieri di guerra. “Treize prisonniers alliés qui cherchaient s’évader en Suisse, tombèrent dans les mains de la garnison nazi-fasciste de St. Jacques. Les malheureux venaient de Chamois, d’où un jeune homme s’était chargé de les accompagner au-delà de la frontière Suisse […]. Les deux, qui se sauvèrent, vècurent près de deux mois à Ayas, cachés dans quelques mayens auprès de quelques familles de Crest et Cunéaz” (Passerin d’Entreves 1975, 209). Chi non riuscì a trovare rifugio o varcare gli alti passi valdostani venne preso in carico invece dai nascenti comitati di liberazione piemontesi, che stavano organizzando i primi canali di fuga attraverso i più agevoli percorsi del Verbano e del basso Lario. Un’organizzazione solidaristica alla quale concorsero schiere di anonimi cittadini che, in quella multiforme rete assistenziale e resistenziale, vi scorgevano una possibilità di riscatto da anni di sudditanza e immobilismo.
A Castel Azzanese, vicino Cremona, il capostazione e il consiglio comunale favorirono per esempio il trasferimento in Svizzera di trentasette prigionieri internati nel vicino campo di lavoro, mentre nei pressi di Vercelli un privato cittadino pagò lautamente delle guide perché accompagnassero ai valichi elvetici alcune decine di ex prigionieri alleati passando dal Luinese (Cavaglion; Perona 2005, 177).
Il giorno 9 settembre 1943 – informava uno sfollato torinese attivo nel CLN di Vercelli – mi sono recato, assieme ad alcuni amici, alla cascina Sartirana dove ho radunato, con l’ausilio degli amici stessi, circa 150 prigionieri alleati, che fatti dividere in piccoli gruppi di 12 o 13, si pensò immediatamente a metterli al riparo da ogni pericolo (furono nascosti nelle risaie della Lomellina). Nello stesso giorno, mi sono premunito di mandare un famigliare in paese allo scopo di ottenere vestiario civile, cibo e altri generi di conforto. Così come me, fecero anche gli altri amici che avevano preso in consegna il proprio gruppo. Molti indumenti si recuperarono da parte della popolazione, così come non mancò il cibo. […] Sempre con gli amici, decisi di portare alla frontiera i prigionieri stessi […]. Infatti, unitamente con mia moglie, incominciai il giorno 18 stesso mese a portare il primo scaglione composto di otto prigionieri. Partii da Valle Lomellina usufruendo della ferrovia e, assieme a loro, raggiunsi il mattino seguente Luino. Dopo di che, gli insegnai la strada per la Svizzera, cosa del resto facile a conoscere, in quanto una moltitudine di soldati e borghesi si avviavano per quella meta28.
Sempre dall’alto Varesotto transitarono nel dicembre 1943 una parte dei quasi duecento militari liberati da membri del CLN piemontese, provenienti dai campi di prigionia sparsi tra Novarese, Alessandrino e i dintorni di Mortara29. Non pratici delle località, e soprattutto di sicuri passaggi per espatriare, i soldati furono nascosti ed equipaggiati dalla popolazione locale, poi avviati verso il confine eludendo gli ultimi arroganti tentativi fascisti di sorveglianza. Il 24 maggio 1944, “ritenuta la necessità urgente di provvedimenti eccezionali per la sicurezza pubblica alle frontiere durante lo stato di guerra”30, venne istituita una “zona chiusa” lungo il confine italo-elvetico, che dal settore francese si spingeva fino al passo Resia nelle alpi Venoste. Si trattava di una fascia territoriale profonda circa tre chilomentri, libera da popolazioni e destinata a perquisizioni e rastrellamenti di sovversivi, delinquenti comuni ed ebrei (Giannantoni 1984, 273). Un provvedimento severo ma dai modesti risultati, destinato a punire popolazioni che, al di là di qualche deplorevole caso delatorio, mai assicurarono una piena e convinta adesione al fascismo e alle sue ramificazioni periferiche.
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Contenuti correlati
- Nella prima zona di frontiera, che faceva riferimento alla provincia di Imperia, la vigilanza fu estesa, oltre alla linea alpina, anche allo spazio marittimo tra il confine francese e La Spezia, e non più, come previsto inizialmente, fino ad Ostia. Quest’ultimo tratto passò invece a costituire dal dicembre 1926 la settima zona di frontiera sotto giurisdizione della Questura di Livorno, all’epoca retta dal commissario Pasquale Morra, al quale fu assegnato anche il controllo delle linee marittime che facevano rotta per la Sardegna, con scali intermedi nei porti francesi e corsi. Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 157. Direzione Generale della PS alla Prefetture delle province di confine, 28 dicembre 1926. [↩]
- Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 157. Comando Guardia di finanza Legione di Milano, febbraio 1927. [↩]
- Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 157. Commissariato di frontiera alla Prefettura di Como, 12 novembre 1926. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PP Materia, b. 181. Espatri clandestini in Svizzera, s.d. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PP Materia, b. 184, espatri favoriti da militi e funzionari di PS, s.d. [↩]
- Su Georges Wagnière (1862-1948), vice cancelliere della Confederazione nel 1896, poi redattore politico del Journal de Genève e dal 1918 fino al 1936 ambasciatore di Svizzera a Roma, cfr. Aa.Vv. 1933; Wagnière 1944. [↩]
- Documenti Diplomatici Svizzeri, vol. 9, n. 353, Der schweizerische Gesandte in Rom, Wagnière, an den Vorsteher des Politischen Departements, Motta, 1° dicembre 1927. [↩]
- Archivio Ministero Affari Esteri, Roma, AP 1919-1930, Svizzera, sc. 1627. Il Ministro degli Affari Esteri al Regio Ministro in Berna, 19 agosto 1927. [↩]
- Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 76/bis. Ministero dell’Interno alle Prefetture delle province di confine, 20 agosto 1928. [↩]
- Archivio di Stato, Milano, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 1097. Ministero dell’Interno alle prefetture di Milano e Como, 29 agosto 1927. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PS/G1, sc. 224. Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno, 17 luglio 1929. [↩]
- In effetti un comitato “Pro Peretti” cercò vanamente di opporsi alla condanna a due anni di reclusione che gli erano stati inflitti in Italia dal Tribunale Speciale. Con sentenza n. 76 del 2 ottobre 1929, oltre a Giuseppe Peretti vennero condannati anche Pietro Costa, il milanese Angelo Rognoni e i veneti Guglielmo Cimoso e Umberto Biscaro, quest’ultimo poi assolto. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PS 1929, sc. 195. Ispettore Generale di PS al Tribunale Speciale, 25 giugno 1929. [↩]
- Archivio di Stato, Milano, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 1100. Ministero dell’Interno alle Prefetture di Bologna, Como, Genova, Milano, Novara, Sondrio, Torino, Trento, 18 giugno 1932. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PP Materia, sc. 181. Lettera fiduciaria, 6 gennaio 1931. [↩]
- Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 1, sc. 33. Commissariato per la terza zona di frontiera al Ministero dell’Interno, 5 marzo 1931. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, b. 20. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, Roma, PP Materia, sc. 44. Lettera fiduciaria, 9 aprile 1933. [↩]
- Archivio di Stato del Canton Ticino, PP 1892-1969, sc. 86. Dante Severin, Il problema etnico del Canton Ticino, pp. 6-7. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 18. Legazione d’Italia al Ministero degli Affari Esteri, 19 agosto 1938. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 20. Appunto del Ministero degli Affari Esteri, 22 dicembre 1938. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 20. Legazione d’Italia al Ministero degli Affari Esteri, 10 febbraio 1939. [↩]
- Documenti Diplomatici Svizzeri, vol. 13, n. 316. Tamaro al capo del Dipartimento Politico, Pilez-Golaz, 22 giugno 1940. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 22. Legazione d’Italia a Berna al Ministero degli Affari Esteri, 9 agosto 1940. [↩]
- Archivio Ministero degli Affari Esteri, AP 1931-1945, Svizzera, sc. 22. Consolato generale d’Italia a Lugano al Ministero degli Affari Esteri, 7 dicembre 1940. [↩]
- Archivio Centrale dello Stato, PP. Materia, sc. 247. Lettera fiduciaria, 21 ottobre 1940. [↩]
- Archivio di Stato, Como, Gabinetto di Prefettura 2, sc. 109. Il Capo della Provincia di Como al Ministero dell’Interno, 12 novembre 1943. [↩]
- Istituto Storico della Resistenza, Torino, Fulvio Borghetti, sc. 1. Pacchiella Albano, 21 giugno 1945. [↩]
- Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Bacciagaluppi, sc. 2. Final report, p. 9 [↩]
- Cfr. decreto legislativo del duce del 24 maggio 1944 n. 282 pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale d’Italia” n. 139 del 15 giugno 1944. [↩]