di Sergio Apruzzese
A partire dalla metà circa degli anni Settanta la figura di Giuseppe Rapelli e con lui della rivista torinese che lo ebbe come suo fondatore e principale animatore “Il Lavoratore” (1926) hanno trovato significative testimonianze di interesse storiografico: dal saggio sulla “Rivista di storia contemporanea” (aprile 1974) di Mariangiola Reineri dal titolo I cattolici torinesi de “Il Lavoratore” dinanzi al fascismo, seguita l’anno dopo dal contributo di Bartolo Gariglio La crisi del sindacalismo bianco e il caso del “Lavoratore”, in F. Traniello – P. Scoppola, I cattolici tra fascismo e democrazia (Bologna 1975, pp. 35-74), fino alla voce dello stesso Gariglio nel Dizionario storico del movimento sociale cattolico in Italia 1860-1960, vol. II, I protagonisti (Casale Monferrato 1982) e ai più recenti contributi di Francesco Verucci e Gabriele De Rosa rispettivamente su “Quaderni di Azione Sociale” (n. 4, 1997) e “Studium” (maggio giugno 1999). Insomma la figura del sindacalista piemontese in tutte le sue fasi non manca di un’ampia bibliografia e di riferimenti indiretti tesi ad illuminare una delle ultime vicende di libertà del lavoro e di spirito sinceramente cristiano prima dello spegnersi definitivo delle coscienze nella incipiente dittatura fascista resa manifesta dopo il discorso alla Camera di Mussolini del 3 gennaio 1925; come scriveva Lovera al vescovo Gamba nel 1927: il fascismo aveva ormai nelle sue mani le redini del paese e i cattolici non potevano prescinderne tanto più che “autorevoli persone anche del clero vi hanno fatto aperta adesione” (cfr. B. Gariglio, Mondo cattolico e fascismo in una grande città industriale, il caso di Torino, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI, a cura di P. Pecorari, Milano 1979, pp. 193-220).
Sulla scia di questi studi si pone l’opera del figlio del leader sindacale, Giovanni Rapelli, dal titolo Giuseppe e Rapelli e “Il Lavoratore”. La formazione di un sindacalista cattolico nella Torino degli anni ‘20. Con la ristampa anastatica della rivista “Il Lavoratore”, Cantalupa (TO) 2011. L’indice è articolato secondo una scansione cronologica legata alla vita di Giuseppe Rapelli: dopo una breve prefazione di Walter Crivellin, infatti, il primo capitolo si incentra sulla formazione giovanile cattolica di Rapelli, segue il secondo sulla sua attività all’interno dell’Unione del Lavoro e il terzo sulla fondazione de “Il Lavoratore”; tre sono le parti che compongono la sezione delle appendici: Azione cattolica e sindacati bianchi; Carteggio Grandi-Rapelli; la delegazione operaia italiana in Russia; infine la bibliografia esistente su Rapelli, l’indice dei nomi e la ristampa anastatica degli otto numeri periodici della rivista sindacalista.
Per quel che concerne le fonti utilizzate, oltre alla leva pubblicistica Giovanni Rapelli si è avvalso di quella archivistica in particolare sono state prese in esame le carte Rapelli conservate nel Fondo omonimo custodito nel Centro Gobetti di Torino e presso lo stesso autore dell’opera; ma anche consultati sono stati i fondi archivistici pubblici del Ministero degli Interni – Direzione Generale di pubblica sicurezza el partito comunista d’Italia.
Ma scendendo più in profondità, quali i contenuti e la struttura interna dell’opera? Come accennato essa si apre con la breve prefazione di Crivelli che sottolinea subito come l’accostarsi alla figura di Rapelli pone in rilievo la complessità di un momento storico italiano (gli anni venti del Novecento) tanto più importante quanto più caratterizzato da profondi mutamenti strutturali.
Segue la ricostruzione biografica di Giuseppe Rapelli da parte del figlio a partire dalla sua gioventù cattolica: i legami familiari con l’ambiente salesiano di Castelnuovo Don Bosco sua città natale; il trasferimento a Torino all’Istituto tecnico di Sommelier, il ritorno a Castelnuovo, la morte del padre Bartolomeo e infine il ritorno nel capoluogo piemontese dove fa neppure ventenne le sue prime esperienze sindacali all’interno della Federazione impiegati e commessi che fa capo alla Confederazione italiana dei Lavoratori, di cui nel 1921 diventa componente della commissione direttiva. Punto importante toccato dall’autore nella sua ricostruzione è la concezione fondamentalmente spirituale del sindacato che Rapelli ebbe sin da giovanissimo: per lui infatti (in ciò incrociando la consolidata tradizione democratica cristiana piemontese sul tema) non poteva esistere una associazione dei lavoratori basata unicamente sulla rivendicazione economica, sul dato materiale e contingente: il sindacato era espressione di una esigenza spirituale e alla formazione spirituale – scriveva nel 1923 – deve anzitutto mirale se vuole realizzarsi come paradigma di democrazia e di libertà; gli incontri con Gobetti nell’ottobre 1923 e con Guido Miglioli, le vertenze sindacali; la grave depressione del sindacato cattolico culminata nel patto di Palazzo Vidoni del 1925 che di fatto chiudeva ogni possibilità a coloro i quali ancora speravano (e in ciò Rapelli fu tra i molti che credettero in un breve respiro storico del fascismo) in uno spazio di libertà lasciato dal nascente Regime; la nomina a segretario del Consiglio nazionale della CIL nel dicembre 1925; l’impresa de “Il Lavoratore” come ultimo tentativo di libertà proprio mentre il presidente della Giunta centrale dell’Azione Cattolica, Luigi Colombo, decide all’inizio del 1926, scrive Giovanni Rapelli, “di buttare a mare la CIL” e di far entrare i lavoratori cattolici nei sindacati fascisti.
Ma quali i lineamenti fondamentali dell’esperienza pubblicistica principale di Rapelli secondo l’autore? Anzitutto la forte svolta verso la sinistra cristiana comunista e anticapitalistica impressa alla rivista a partire dai numeri di marzo-aprile-maggio 1926: il capitalismo infatti viene visto come agente dell’anticristianesimo e se Toniolo aveva cercato in qualche modo di correggerlo attraverso una rivisitazione aggiornata dell’esperimento corporativo, per Rapelli non c’era più terreno di dialogo: occorreva combatterlo radicalmente abbracciando in tutto la lotta di classe e l’intento rivoluzionario a carattere internazionale, essendo la questione della mancata giustizia sociale una questione non solo italiana. Insieme al progettato viaggio in Russia (che suscitò come dimostrano le carte del Ministero degli Interni vivo interesse da parte del governo nella persona di Luigi Federzoni a capo del suddetto dicastero e dei comunisti italiani, come dimostrano invece le carte consultate presso l’Archivio del Partito comunista d’Italia nell’ambito dei rapporti fra Roma e la centrale sovietica moscovita nella sua sezione giovanile) e alle scelte anticonformiste imboccate da Rapelli non poteva non provocare forti reazioni interne al mondo cattolico: anche una personalità per molti versi vicina allo spirito rinnovatore di Rapelli come Achille Grandi, non mancò di esternare preoccupazioni e inquietudini presenti nei vertici delle istituzioni laiche e religiose italiane ma non soltanto (a condividere il seguente giudizio erano anche Giovanni Gronchi e Alcide De Gasperi): scriveva Grandi a Rapelli il 1 luglio 1926 con la speranza, vana, di correzioni urgenti di rotta da parte della rivista: “Il nostro dissenso è sull’atteggiamento che essa va prendendo nei riguardi del programma tradizionale e dottrinale della scuola sociale cattolica. Voi andate – certo in buona Fede e col proposito di giovare al cristianesimo – verso il socialismo, anzi verso il comunismo”. Proprio l’estate del 1926 vedrà la fine de “Il Lavoratore”, il cui ultimo numero esce il 10 settembre e quattro giorni un decreto prefettizio ne ordina la chiusura.
Pur presentando parti già precedente pubblicate l’opera di Rapelli ci restituisce una immagine aggiornata degli sforzi compiuti da Rapelli e dai suoi collaboratori per alimentare un’ala del sindacalismo cattolico restia a riconoscersi nel moderatismo dei vertici della Chiesa romana e fermamente decisa a non chinare il capo dinanzi alla vittoria politico-sociale fascista; ma più ancora contribuisce ad attirare l’attenzione dello storico sul problema culturale connesso a una rivista come “Il lavoratore” che anche se di breve durata e forse marginale rispetto ad altre coeve espressioni pubblicistiche cattoliche ha segnalato nella freschezze e vitalità delle sue pagine che qui ritrovano vigore e trasparenza semantica fragilità e solidità della cultura cattolica del primo Novecento: quale Cristianesimo può essere proposto nell’era della “nazionalizzazione delle masse”? Quale significato nel contesto culturale della crisi religiosa del liberalismo?
Molteplici sono gli spunti che la rivista offre per una risposta generale a tali questioni a cominciare dalla sua presentazione là dove si legge che il Cristianesimo “non è mai superato”, che riflette la legge evangelica che ha attraversato personalità e correnti dell’Ottocento da Toniolo a Ketteler, da Leone XIII a Mercier, che si propone nella sua veste integrale e in quell’intransigentismo di principi che non voleva significare evidentemente nostalgie temporaliste quanto piuttosto la affermazione di una identità guelfa alternativa all’inquadramento totalitario nazionalista e fascista e quindi vissuta come territorio di democrazia religiosa e non di settarismo ideologico; ma ancora, andando avanti nel compulsare il periodico: il richiamo alla educazione delle coscienze di uno dei “pionieri” della prima democrazia cristiana murriana, il sacerdote biellese Antonio Cantono, che nel numero di apertura di gennaio nell’articolo Una buona parola scriveva: “Sono necessarie due cose in questo momento: chiarezza di idee che fluisce dalla conoscenza unica del programma sociale cristiano, e forza di volontà, energia fiduciosa. È facile perdersi d’animo, appartarsi, disinteressarsi d’ogni cosa, lasciare che tutto vada alla deriva, cadere in una specie di scetticismo. Forse è questa la più grave e più difficile, grave tentazione con cui devesi reagire, risvegliando in sé medesimi la fiducia nel domani, nelle proprie idee che non muoiono per un eventuale contrasto che loro si rizzi davanti. Oltre quest’azione di carattere morale che diventa più facile col sussidio della sua fede cristiana e coi mezzi che essa ci offre per le difficoltà della vita, ci vuole un’azione intellettuale, culturale”; nel numero successivo Araldo esprime la necessità di parlare “veramente” alle anime.
È questo, a mio avviso, oltre agli aspetti più afferenti alle scelte politiche immediate, l’eredità problematica di una di una rivista come “Il Lavoratore” che va vista nel lungo periodo insieme con “Pietre” ad esempio che fra il 1926 e il 1928 cercherà anche essa su base giovanile e negli angusti ambiti della dittatura di ritagliarsi un cerchio di speranza morale e di civiltà anche quando tutto congiura verso l’oppressione: il Cristianesimo non è superato dunque, così Rapelli, Cantono e altri: quasi un grido, una rivendicazione, una protesta che si faceva portato storico allorché il liberalismo disconosceva la sua matrice per così dire religiosa: nato dal riconoscimento del dissenso religioso e secolare in quanto oppositore dell’integrismo religioso non riusciva più ad alimentarsi alla fonte della fede seppure laica: Martinetti, filosofo al crocevia tra spiritualità tormentata e antidogmatismo deciso nel 1920 non a caso denunciava le illusioni di un movimento che si negava e cercava di mascherarsi nella semplice affermazione di una libertà senza morale “aveva un vizio di origine: esso era un movimento puramente negativo. L’affermazione della libertà e dell’uguaglianza politica e civile fu una liberazione da privilegi odiosi e ingiusti: essa distruggeva un ordine economico e politico non più corrispondente alla nuova anima sociale, ma non vi sostituiva nulla di nuovo in cambio: fedele all’ottimismo superficiale della filosofia rivoluzionaria, esso si illudeva che una volta messi gli uomini gli uni di fronte agli altri in stato di perfetta eguaglianza essi si sarebbero amati come fratelli e avrebbero rinnovato sulla terra l’età dell’oro” (cfr. D. Cofrancesco, La filosofia politica nelle riviste di cultura dei primi venticinque anni del Novecento, in La filosofia italiana attraverso le riviste (1900-1925), a cura di A. Verri, Lecce 1980, p. 142; ma si veda anche il fondamentale libro di O. Chadwick, Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione nella mentalità europea dell’ottocento, Torino 1989). In questo deficit di legittimità morale dello Stato nazionale, di profonda insoddisfazione acuita dalla progressiva perdita di libertà e di qualificazione del politico momento dirimente della vita collettiva, “Il Lavoratore” esprime per dirla come le parole della sopracitata “Pietre” il dramma di una generazione di giovani ancor prima che cattolici e cristiani accomunati da un bisogno dello spirito di tutto dominare e “l’esigenza innata dello spirito stesso di appoggiarsi a una realtà veramente esistente che non sfugga e non crolli come un vecchio scenario” (cfr. G. De Liguori, Scetticismo e religiosità di una rivista militante: “Pietre” (1926-1928), ivi, p. 262).