di Andrea Francioni
Scende in campo la “squadra blu”
La teoria dell’ascesa cinese di Yan Xuetong suscita qualche comprensibile apprensione nell’establishment politico, perché le voci fuori dal coro rischiano di screditare la linea moderata sulla quale il governo è ufficialmente impegnato. Tanto più che le idee sulla restaurazione della potenza cinese non rimangono confinate al dibattito nazionale, ma, come si diceva, vengono riversate anche all’estero, suscitando reazioni soprattutto negli Stati Uniti (Osius 2001; Jin 2001), dove l’atteggiamento rispetto all’ascesa di Pechino fa registrare, a cavallo del secolo, un’ulteriore radicalizzazione. Sono gli anni in cui operano attivamente gli anti-cinesi di professione del cosiddetto Blue Team o, come scrive il Washington Post, “The War Party’s China Hands” (Kaiser, Mufson 2000), un variegato gruppo di membri e consiglieri del Congresso, analisti di think tank, politici repubblicani, giornalisti conservatori, vecchi lobbisti per Taiwan, ex funzionari dei servizi di intelligence, alcuni accademici, tenuti insieme dall’idea che una Cina in ascesa è una sfida mortale agli interessi degli Stati Uniti. L’espressione Blue Team viene coniata da William Triplett, ex analista della Cia, membro dello staff del Comitato per le relazioni estere del Senato, co-autore di almeno due volumi incendiari sulla minaccia cinese (Timperlake, Triplett 1998; 1999). Essa deriva dalla terminologia usata dall’Epl nelle esercitazioni, che prevedono il confronto fra una “squadra rossa” e una “squadra blu”: i “rossi”, contro i quali combatte il Blue Team, sono quegli esperti, politici, commentatori, accusati di avere un approccio troppo benevolo verso Pechino e definiti anche, con un tono tra l’ironico e il dispregiativo, “Panda huggers”, letteralmente: “coloro che abbracciano il panda” (Spaventa, Monni 2009, 94). Tanto per dare un’idea di cosa stiamo parlando, tra i personaggi più in vista della “squadra blu” troviamo: Christopher Cox, membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti, colui che dà il nome al Cox Report sulle operazioni di spionaggio della Rpc negli Usa, il cui lo scopo è dimostrare il furto di tecnologie militari americane da parte di agenti dell’Esercito popolare (House of Representatives 1999); William Kristol, direttore del neoconservatore Weekly Standard; Robert Kagan, co-fondatore del famigerato Project for the New American Century (Pnac); Bill Gertz, columnist del Washington Times, che dà alle stampe un volume intitolato proprio “The China Threat: How the People’s Republic Targets America” (2000); Peter Navarro, economista dell’Università della California, dalla cui penna uscirà un altro testo significativo di questa visione, intitolato “The Coming China Wars” (2006); il solito Ross H. Munro e una manciata di personaggi di minor peso.
Questa nuova ondata della China threat theory è pervasiva, lambisce gli apparati di governo (specialmente il Pentagono), viene cavalcata dai circoli neoconservatori che mirano ad indirizzare l’agenda di politica estera del candidato alla Casa Bianca, e poi presidente, George W. Bush, penetra in profondità perfino – ed è forse la prima volta – in ambito accademico, trovando una sponda nei teorici delle relazioni internazionali di scuola neorealista. Fra il 2000 e il 2001, insomma, si assiste negli Stati Uniti ad una brusca inversione di tendenza rispetto agli anni dell’idillio clintoniano, i cui ultimi frutti vengono colti dall’amministrazione democratica a fine mandato, quando il Congresso approva la legge che attribuisce alla Rpc lo status commerciale permanente di “nazione più favorita”, provvedimento che spiana la strada del negoziato di adesione di Pechino al Wto (Del Pero 2011, 420-421). Peraltro, quasi in contemporanea al riconoscimento del privilegio del permanent trade, il Congresso istituisce la US-China Economic and Security Review Commission (30 ottobre 2000), un organismo nato per monitorare l’impatto ad ampio raggio della liberalizzazione degli scambi bilaterali, ma diventato quasi subito una postazione dalla quale vigilare sulla “minaccia cinese” (Spaventa, Monni 2009, 135).
Senza pretendere di esaurire il discorso sulla percezione – e sulla rappresentazione – della China threat negli Stati Uniti in questa fase cruciale di ridefinizione della missione globale della superpotenza (Xiang 2001), processo che ha il suo punto di caduta nel documento sulla strategia per la sicurezza nazionale pubblicato dalla Casa Bianca nel settembre 2002, vi sono alcune voci del dibattito politico americano sulle quali conviene fermare l’attenzione per apprezzare quanto venga giudicata rilevante la questione cinese in un contesto storico altrimenti segnato dagli eventi dell’11 settembre 2001 e dal rimescolamento della gerarchia dei pericoli che ne deriva. In questo senso, una buona chiave di lettura del periodo viene offerta dall’analisi delle posizioni dell’intellettualità che sostiene, con più o meno convinzione, il candidato repubblicano George W. Bush, e che gioca un ruolo importante anche dopo la sua elezione.
Possiamo iniziare la rassegna prendendo in esame le argomentazioni sviluppate da Robert Kagan e William Kristol, due dei principali animatori della galassia neocon, in un articolo apparso nella primavera del 2000 su The National Interest, periodico di riferimento del mondo conservatore (Lobe, Oliveri 2003, 43-63). L’articolo prende le mosse da una critica radicale della politica estera dell’amministrazione democratica, colpevole di aver sprecato l’opportunità di consolidare l’ordine internazionale generalmente stabile e pacifico emerso alla fine della Guerra Fredda, rinunciando a trasformare il momento unipolare, secondo la definizione di Charles Krauthammer (1991), in un’era unipolare in cui la “benevola egemonia globale dell’America” (Lobe, Oliveri 2003, 45) avrebbe consentito di diffondere il progresso democratico ed estendere il perimetro della sicurezza. Ciò che Kagan e Kristol imputano agli Stati Uniti di Bill Clinton è di essersi limitati a gestire lo status quo pensando di poter godere a tempo indefinito di una “pausa strategica” in virtù del crollo dell’Unione Sovietica e della mancanza di un altro competitore capace di prenderne il posto. Ma è proprio vero, si chiedono i due autori, che il panorama attuale non offra motivi di preoccupazione? Ovviamente no:
il pericolo odierno è che gli Stati Uniti, la potenza dominante nel mondo da cui dipendono il mantenimento della pace internazionale e il supporto dei principi liberali democratici, possano sottrarsi alle proprie responsabilità e, in un momento di distrazione, o parsimonia, o indifferenza, lasciar crollare l’ordine internazionale che hanno creato e che sorreggono. Il nostro pericolo odierno è fatto di potere in declino, volontà vacillante e confusione circa il nostro ruolo nel mondo. (44).
Ed è sempre più concreto il rischio che questa superpotenza, ormai avviata sulla strada del disarmo “strategico e morale”, si trovi impreparata di fronte alle sfide future, incapace di difendere i propri interessi e scoraggiare le provocazioni dei regimi anti-democratici proliferati all’ombra delle incerte politiche clintoniane. Ora occorre reagire e cominciare a pianificare seriamente il futuro:
proprio come gli americani di buon senso, dopo la Seconda guerra mondiale, non avevano immaginato che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dai loro impegni globali, attendendo l’ascesa di un nemico equivalente alla Germania nazista, così gli uomini di stato americani di oggi dovrebbero riconoscere che il loro dovere non è attendere l’avvento della prossima grande minaccia, ma piuttosto modellare l’ambiente internazionale in modo da impedire in origine che una tale minaccia si sviluppi. (49-50).
Il modo migliore per plasmare un mondo sicuro per la democrazia – questo è il fulcro della dottrina strategica neoconservatrice – è che Washington si impegni a provocare il “cambio di regime” in tutte quelle nazioni ostili – o “stati canaglia” – che sono in grado di sfidare la stabilità:
non tutti i cambiamenti di regime possono o devono – concedono gli autori dell’articolo – essere realizzati con interventi militari […] ma l’obiettivo della politica estera americana dovrebbe essere chiaro. Quando si tratta di avere a che fare con regimi tirannici, specialmente quelli che hanno il potere di fare del male a noi o ai nostri alleati, gli Stati Uniti non dovrebbero perseguire la convivenza ma la trasformazione. (58).
Ai nostri fini è interessante sottolineare che Kagan e Kristol inseriscono Pechino nella lista dei governi autoritari o dittatoriali candidati a tale regime change, accanto a Baghdad, Belgrado e Pyongyang: “la proliferazione di armi e la vendita di tecnologie belliche all’Iraq da parte della Cina, la sua fornitura di supporto finanziario al regime di Milošević, il suo tentativo di trovare un accordo con la Russia contro “l’egemonismo” americano: sono tutti tentativi opportunistici di scalzare la supremazia statunitense” (59). Il problema, nel caso specifico, non è se sia realistico “impegnarsi per la caduta dell’oligarchia del Partito comunista in Cina”, dato che “è caduta in Russia un’oligarchia simile, molto più potente e probabilmente più stabile“ (58). La sfida è, casomai, concepire la giusta combinazione di iniziative politiche che possa accelerare il cambiamento:
il regime cinese […] mostra molti sintomi di instabilità. L’insita contraddizione fra il suo governo dittatoriale e il desiderio di crescita economica preoccupa a tal punto il governo di Pechino da obbligarlo a dare un giro di vite persino alle sette non politiche come la Falun Gong. Gli Stati Uniti e l’Occidente possono aiutare o impedire alla Rpc di risolvere queste contraddizioni. In tal caso, la nostra politica dovrebbe essere la seconda, in modo da poter anticipare il giorno in cui il governo dittatoriale cinese non sarà più in grado di gestire le tendenze contraddittorie della società. (59).
Le pressioni degli ambienti neoconservatori in favore di una politica aggressiva nei confronti di Pechino, la loro preoccupazione che ogni apertura di credito possa essere letta come un segnale di debolezza dal regime comunista, non vengono meno negli anni seguenti, e toccano un punto di massimo nella primavera del 2001, all’epoca dell’incidente dell’aereo spia americano sulle acque dell’Isola di Hainan. L’episodio sembra dar ragione alla tesi della crescente ostilità cinese verso gli Stati Uniti e confermare le peggiori previsioni circa la minaccia imminente che Washington si trova a dover fronteggiare per proteggere i propri interessi strategici nel Pacifico (Sutter 2010, 145). Nei giorni di inizio aprile, quando esplode la “sindrome cinese”, i commentatori neocon sono schierati in prima linea ad invocare una politica intransigente di “contenimento attivo” da parte della nuova amministrazione repubblicana. Com’è stato ricordato, gli esponenti più in vista del neoconservatorismo – Kristol, Kagan, Krauthammer, ma anche Gary Schmitt e William Gaffney – sfruttano il caso dell’EP-3 per ribadire che “il dialogo con la Cina non poteva avvenire partendo da basi comuni e da valori condivisi e che la contrapposizione, ideologica prima di tutto, era inevitabile. Non si trattava di essere un ‘partner strategico’ o un ‘competitore’, piuttosto in atto c’era una battaglia fra un paese democratico e libero e una dittatura, cui non si poteva concedere nulla”. Questa linea della fermezza comporta che sia fatta “chiarezza sulle condizioni poste al regime per continuare a intrattenere rapporti non ostili con Washington e il suo establishment politico ed economico” (Simoni 2004, 103). Sul Weekly Standard Robert Kagan e William Kristol chiedono che Washington reagisca all’umiliazione nazionale togliendo a Pechino lo status di nazione più favorita e rafforzando i legami con Taiwan (Del Pero 2011, 427).
Le posizioni neoconservatrici non orientano le scelte di politica estera di George W. Bush nei confronti della Rpc, contrariamente a quanto avviene in altri ambiti strategici: anche se il tono degli interventi della Casa Bianca si fa più minaccioso dopo l’incidente dell’EP-3, di fatto la crisi viene lasciata alla prudente gestione del Dipartimento di Stato (Simoni 2004, 107-111). Ciò non significa che la percezione della China threat non condizioni ugualmente il discorso strategico in seno all’amministrazione, la quale rinuncia alle misure oltranziste reclamate dai neoconservatori – impegno per il regime change e “contenimento attivo” – ma prende le distanze anche dall’engagement clintoniano. Sui nuovi indirizzi di politica asiatica pesano, infatti, le valutazioni circa i rischi dell’ascesa cinese espresse da quelle componenti che potremmo qualificare come realiste in senso lato – sebbene con qualche necessario distinguo rispetto alla classica impostazione kissingeriana, soprattutto riguardo al concetto di interesse nazionale americano (Rice 2008) – e che hanno il loro referente in Condoleezza Rice, politologa della Stanford University, poi consigliere per la Sicurezza nazionale durante il primo mandato di Bush. A Rice si deve la definizione della Rpc come “concorrente strategico” (strategic competitor) degli Stati Uniti, espressione che evoca chiaramente un obiettivo di contenimento delle ambizioni di Pechino. In uno dei passaggi centrali di un articolo ospitato da Foreign Affairs in occasione della campagna presidenziale (Rice 2000), Rice tratteggia la “politica cinese” dei repubblicani in termini di reazione alla sfida rappresentata dalla Rpc per la balance of power nella regione dell’Asia-Pacifico, dove i capisaldi della futura azione americana vengono individuati nella cooperazione rafforzata con Giappone e Corea del Sud, nell’impegno a mantenere una robusta presenza militare nell’area, nell’interesse a salvaguardare la sicurezza di Taiwan fino alla soluzione pacifica del problema. Fatte salve le clausole di stile, e tranne l’apertura di credito nei confronti dell’India come possibile nuovo fattore di equilibrio regionale da acquisire alla strategia americana, ciò che scrive Rice non rappresenta, di tutta evidenza, una radicale innovazione rispetto alla tradizione della China policy repubblicana da Nixon in poi (Ross 1995). Colpiscono, semmai, le argomentazioni usate per giustificare la necessità di una soluzione di continuità con la pretesa dei democratici di affrontare le questioni di sicurezza poste dall’ascesa cinese limitandosi a promuovere l’interdipendenza economica:
Even if there is an argument for economic interaction with Beijing, China is still a potential threat to stability in Asia-Pacific region. Its military power is currently no match for that of the United States. But that condition is not necessarily permanent. What we do know is that China is a great power with unresolved vital interests, particularly concerning Taiwan and the South China Sea. China resents the role of the United States in the Asia-Pacific region. This means that China is not a ‘status quo’ power but one that would like to alter Asia’s balance of power in its own favor. That alone makes it a strategic competitor, not the ‘strategic partner’ the Clinton administration once called it. Add to this China’s record of cooperation with Iran and Pakistan in the proliferation of ballistic-missile technology, and the security problem is obvious. China will do what it can to enhance its position, whether by stealing nuclear secrets or by trying to intimidate Taiwan. (Rice 2000, 56).
La conclusione del ragionamento è che:
U.S. policy toward China requires nuance and balance. It is important to promote China’s internal transition through economic interaction while containing Chinese power and security ambitions. Cooperation should be pursued, but we should never be afraid to confront Beijing when our interests collide. (57).
Quasi inutile puntualizzare che anche l’ibrido del congagement (sintesi di containment ed engagement), come viene subito battezzata la nuova linea strategica (Weber 2006, 46), si giustifica con la China threat. Il concetto espresso da Rice trova subito i suoi estimatori: per esempio viene articolato in termini di effective engagement – ma, al di là del nome, l’approccio strategico è lo stesso – e contestualizzato nell’ambito della teoria realista della power transition in uno studio della Rand Corporation coevo all’intervento pubblicato da Foreign Affairs:
The engagement of China should not be a policy prescription designed to assist the growth of Chinese power so that it may eventually eclipse the United States, even if peacefully. Rather, engagement must be oriented toward encouraging a more cooperative China, whether strong or weak, while also preserving U.S. primacy in geopolitical terms, including in critical military and economic arenas, given the fact that such primacy has provided the conditions for both regional and global order and economic prosperity. Together, the predicates of engagement should also focus on assisting Beijing to recognize that challenging existing U.S. leadership would be both arduous and costly and, hence, not in China’s long-term interest. (Swaine, Tellis 2000, XIII-XIV).
Fra coloro che auspicano un ritorno di realismo nella politica estera americana dopo l’infatuazione clintoniana per l’interdipendenza, la cooperazione e la pace democratica, un posto in prima fila deve essere riservato a John J. Mearsheimer, politologo dell’Università di Chicago, il quale propone una interpretazione dei meccanismi di distribuzione del potere fra Stati improntata a un realismo estremo, che finisce per essere persuasiva perché, in una fase di crisi dell’engagement, sfida il senso comune liberale proprio sul tema dei rapporti con Pechino, con ciò offrendo un autorevole avallo alle tesi emergenti dal dibattito in corso negli ambienti conservatori. In un famoso libro uscito nel 2001, “The Tragedy of Great Power Politics”, Mearsheimer espone la sua teoria del “realismo offensivo”, descrivendo la vita internazionale come semplice competizione per il potere fra gli Stati, il cui fine ultimo è diventare egemoni sul sistema ed impedire ai potenziali rivali di modificare a proprio favore l’equilibrio esistente: per questo motivo, affermano i realisti offensivi, raramente si incontrano nella storia grandi potenze dedite a mantenere lo status quo. Al contrario, quasi sempre esse manifestano intenti revisionisti e, quando ritengono di poterlo fare a costi ragionevoli, usano la forza per acquisire una posizione dominante. L’aggressività delle grandi potenze si giustifica con l’ansia di garantire la propria sicurezza, e la miglior tutela contro la minaccia rappresentata da altri Stati è, per l’appunto, quella di essere egemoni, in modo da scoraggiare atti di sfida (Mearsheimer 2003, 27-50). Mearsheimer verifica le sue tesi mettendole a confronto con l’evoluzione storica delle relazioni internazionali dalle guerre napoleoniche alla fine del XX secolo, e argomenta la validità della teoria non solo come chiave di lettura per interpretare il passato, ma anche come strumento per formulare previsioni sul futuro della politica di potenza.
Nel tratteggiare i vari possibili scenari della competizione fra Stati nel nuovo secolo, l’autore si sofferma in particolare sulle implicazioni per la sicurezza nazionale americana dei nuovi equilibri che potrebbero delinearsi in Asia orientale, ed è qui che l’approccio neorealista si inserisce nel solco della China threat school (Andornino 2008, 123-124), vagheggiando soluzioni di containment dell’ascesa di Pechino perfino più dirompenti di quelle immaginate dai neoconservatori:
lo scenario più pericoloso – scrive Mearsheimer – cui potrebbero trovarsi di fronte gli Stati Uniti agli inizi del XXI secolo è quello che vede la Cina diventare potenziale egemone sull’Asia Orientale. Ovviamente, la probabilità che questa situazione si verifichi dipende in larga misura dalla continuazione o meno dei suoi ritmi di crescita economica. Se questa crescita accelerata continuasse, […] quasi certamente [Pechino] userebbe la sua ricchezza per dotarsi di un potente apparato bellico. Inoltre, per solidi motivi strategici, inseguirebbe sicuramente l’egemonia regionale, esattamente come fecero gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale durante il XIX secolo. […] A questo stadio la Cina potrebbe anche sviluppare una sua versione della dottrina Monroe, questa volta indirizzata agli Stati Uniti, invece che all’Europa […].
Quel che rende la futura minaccia cinese così allarmante è che la Cina potrebbe diventare più potente e pericolosa di ogni altro potenziale egemone con cui gli Stati Uniti si siano trovati ad avere a che fare durante il XX secolo. Né la Germania guglielmina, né il Giappone imperiale, né la Germania nazista, né l’Unione Sovietica avevano nemmeno lontanamente lo stesso livello di potere latente degli Stati Uniti durante gli scontri che opposero queste potenze agli USA. Ma se la Cina dovesse diventare una gigantesca Hong Kong, disporrebbe di qualcosa come quattro volte il potere latente esercitato dagli Stati Uniti […] [e] si rivelerebbe una superpotenza più formidabile degli Stati Uniti nella competizione globale che inevitabilmente si scatenerebbe tra loro.
Quest’analisi suggerisce che gli Stati Uniti hanno un forte interesse a una minore crescita dell’economia cinese nei prossimi anni. Per gran parte del decennio passato, però, gli USA hanno perseguito una strategia mirante all’effetto opposto. Gli Stati Uniti si sono dedicati a “confrontarsi” con la Cina, non a “contenerla”. Questo indirizzo di politica estera risponde alla convinzione liberale che se si riuscisse a trasformarla in uno stato ricco e democratico, la Cina diventerebbe una potenza dedita allo status quo, senza entrare in competizione per la sicurezza con gli Stati Uniti […].
La politica americana verso la Cina è sbagliata. Una Cina ricca non sarebbe una potenza da status quo bensì uno stato aggressivo, determinato a conseguire l’egemonia regionale. Questo non perché una Cina ricca sarebbe mossa da intenzioni malevole, ma perché il modo migliore che ha uno stato per massimizzare le proprie prospettive di sopravvivenza è diventare egemone sulla sua regione del mondo. Se è chiaro che l’interesse della Cina è diventare l’egemone del Nordest asiatico, è altrettanto chiaro che non è interesse dell’America che ciò accada.
La Cina è ancora ben lontana dal momento in cui avrà abbastanza potere latente da tentare l’affondo per l’egemonia regionale. Quindi non è troppo tardi perché gli Stati Uniti cambino rotta e facciano quanto è in loro potere per rallentarne l’ascesa. In effetti, gli imperativi strutturali del sistema internazionale, che sono assai potenti, costringeranno probabilmente gli Stati Uniti ad abbandonare la politica di engagement con la Cina nel prossimo futuro. In realtà, ci sono segnali che la nuova amministrazione di Bush il Giovane abbia già intrapreso i primi passi in questa direzione. (Mearsheimer 2003, 363-365).
La “profezia neorealista” (Al-Rodhan 2007, 46) è una tessera importante del mosaico anti-cinese che si delinea a cavallo del secolo perché apre una breccia attraverso la quale la China threat theory penetra in profondità nel discorso accademico americano, tradizionalmente ben presidiato dagli studiosi di scuola liberale (Andornino 2008, 121).
Dato per assodato che la “minaccia cinese” si connota in questa fase con diverse sfumature (ideologica, strategica, economica, militare) (Yang 2009, 19), per completare il quadro occorre richiamare un altro fattore che contribuisce – se possibile – ad alimentare la percezione negativa della Rpc nell’America di Bush. Riemerge, infatti, in maniera prepotente la variante della China threat legata alle ipotesi di collasso del paese, che produrrebbe frammentazione territoriale, guerra civile e ondate di profughi tali da compromettere la stabilità regionale. I cultori della teoria del collasso dipingono uno scenario drammatico facendo proprie le preoccupazioni circa la sostenibilità della crescita cinese già manifestate da Lester Brown alla metà del decennio precedente, ma integrando il quadro con previsioni tanto fosche, quanto compiaciute, sulle prospettive di tenuta di un regime giudicato incapace di fare fronte alle sfide della modernizzazione. Herbert Yee e Ian Storey hanno efficacemente riassunto gli argomenti su cui fa leva la China collapse theory:
Today the Chinese leadership faces a raft of internal problems, including the increasing political demands of its citizens, a growing population, a shortage of natural resources and a deterioration in the natural environment caused by rapid industrialization and pollution. These problems are putting a strain on the central government’s ability to govern effectively. Political disintegration or a Chinese civil war might result in millions of Chinese refugees seeking asylum in neighbouring countries. Such an unprecedented exodus of refugees from a collapsed PRC would no doubt put a severe strain on the limited resources of China’s neighbours. A fragmented China could also result in another nightmare scenario – nuclear weapons falling into the hands of irresponsible local provincial leaders or warlords. From this perspective, a disintegrating China would also pose a threat to its neighbours and the world. (2002, 5).
Nonostante il semplicismo con cui affronta le contraddizioni dello sviluppo come sintomi di una crisi incipiente, questa visione apocalittica è destinata a fare presa (Izraelewicz 2005, 41-54) perché, pretendendo di svelare l’altra faccia – quella nascosta e impresentabile – del “miracolo cinese”, ha l’effetto paradossale di rassicurare i settori della pubblica opinione che non hanno ancora fatto i conti con l’ascesa di Pechino o che, sensibili al richiamo neoconservatore del regime change, contemplano il disastro annunciato come un’opportunità. Sotto questo profilo la summa di tutte le teorie del collasso è un libro pubblicato nel 2001 da Gordon Chang, giornalista free-lance basato a Shanghai, che dal suo osservatorio coglie i segni premonitori del fallimento dello Stato comunista. Chang scommette volentieri sul crollo della Cina entro un decennio a causa dell’esplosione di tutte le irrisolte questioni politiche, economiche e sociali che si sono accumulate all’ombra della modernizzazione: crescenti tensioni etniche nelle aree abitate dalle minoranze nazionali, disoccupazione, squilibri della crescita e divario nella distribuzione della nuova ricchezza, corruzione, vulnerabilità del settore privato e fragilità delle imprese di Stato di fronte all’economia del Wto, sfida dell’Internet alla censura del regime, inadeguatezza del sistema bancario e rischio di bolle finanziarie, indebolimento del ruolo guida del Pcc e del collante dell’ideologia. Il Partito comunista, epiloga Chang, ha cercato di stare al passo con il cambiamento negli ultimi due decenni,
but now it is beginning to fail as it often cannot provide the basic needs of its people. Corruption and malfeasance erode the Party’s support from small hamlet to great city. Central government leaders do not know what to do as the institutions built over five decades become feeble. Social order in their nation is dissolving. The Chinese are making a break for the future, and the disaffected are beginning to find their voice. The cadres still suppress, but that won’t work in the long run. The people are in motion now, and it’s just a matter of time before they get what they want. (284-285).
Sebbene appaia ancora capace di resistere alle spinte che emergono dalla società, l’attuale regime non potrà invertire il corso della storia e si troverà presto a ripercorrere la strada di tutti i governi autocratici che l’hanno preceduto alla guida del paese: insomma, una nuova rivoluzione aspetta la Repubblica popolare, come quelle che nel corso dell’ultimo secolo hanno spodestato la dinasta Qing e il Guomindang. I toni profetici si accompagnano in Gordon Chang alla “realistica” presa d’atto che una “evoluzione pacifica” non è ormai più inscritta nel destino del popolo cinese (3-4) perché i tiranni di Pechino non si daranno per vinti, opponendo la forza alle istanze di rinnovamento politico, e tanto basta a qualificare come una minaccia globale il prossimo “collasso cinese”.
I primi mesi della presidenza Bush sono dunque contrassegnati negli Stati Uniti da un clima generale fortemente ostile alla Rpc, tanto a causa di tensioni e polemiche contingenti, quanto per l’emergere ai vari livelli dell’establishment politico-culturale di una visione strategica che si richiama alle logiche della Guerra fredda (Ferretti 2006, 74). Ora, se non vi è dubbio che dopo l’11 settembre la convergenza tattica sulla lotta al terrorismo islamico (Collotti Pischel 2002, 108-113), di cui Jiang e Bush cominciano a parlare a Shanghai nell’ottobre 2001, faccia scivolare la “minaccia cinese” nelle pagine interne dell’agenda politica americana, ciò non significa che di colpo essa venga derubricata a questione secondaria o che sia cancellata la voce di coloro che continuano a vedere in Pechino una minaccia – per certi versi, ancora la principale minaccia – alla stabilità internazionale. Di sicuro Washington viene indotta dagli attentati a rivedere la gerarchia dei pericoli immediati, anche perché il silenzio-assenso cinese è prezioso per aprire il fronte di guerra in Asia centrale, mentre Pechino ha un obiettivo interesse ad allinearsi a Bush nella lotta anti-terrorismo, se non altro per giustificare la repressione delle frange separatiste della minoranza uigura dello Xinjiang sensibili al richiamo del fondamentalismo (Roy 2002). Altrettanto certo è che, in questo quadro di affettata collaborazione, si moltiplicano le manifestazioni ufficiali di cordialità da parte degli Stati Uniti: a partire dal 2002 Bush rinuncia ad usare l’espressione “concorrente strategico” nei riguardi della Rpc e il segretario di Stato, Colin Powell, si spinge fino a dichiarare, nel settembre 2003, che le relazioni fra i due paesi sono “at their best for more than 30 years”; ancora più significativo, perché sintomatico degli umori prevalenti nella società americana, il fatto che nelle presidenziali del 2004 il cosiddetto China bashing (cioè il “parlar male della Cina”), una costante delle precedenti campagne, non si materializzi come argomento di propaganda elettorale (Zheng, Tok 2008, 191-192).
Tuttavia, Pechino resta sotto osservazione da parte del Pentagono per la questione delle spese militari, basta leggere l’Annual Report on the Military Power of the People’s Republic of China del 2002, che nelle grandi linee non si discosta da documenti analoghi elaborati dal 1998 in poi e caratterizzati dalla preoccupazione per le crescenti quote di bilancio destinate dalla Rpc alla modernizzazione dell’esercito; ma ora l’allarme è addirittura amplificato, come dimostrano il costante richiamo all’aumento degli investimenti in armamento strategico – specialmente nel settore missilistico – e l’attenzione dedicata a formulare scenari di attacchi a sorpresa contro Taiwan, ipotesi che inducono a presumere una propensione della Repubblica popolare a considerare l’uso della forza per conseguire la riunificazione nazionale (Department of Defense 2002). Il fatto che il Pentagono persista nella denuncia della minaccia militare cinese indica che, momentaneamente scavalcata dalla priorità della lotta al terrorismo globale, la percezione della competizione con Pechino come sfida a lungo termine continua a giocare la sua parte nell’indirizzare il dibattito strategico americano. E infatti, sebbene con i toni sfumati richiesti dalla fase di distensione, l’evocazione del pericolo si legge anche nel documento sulla strategia per la sicurezza nazionale del settembre 2002, vero e proprio manifesto della “dottrina Bush”:
We welcome the emergence of a strong, peaceful, and prosperous China. […] Yet, a quarter century after beginning the process of shedding the worst features of the Communist legacy, China’s leaders have not yet made the next series of fundamental choices about the character of their state. In pursuing advanced military capabilities that can threaten its neighbors in the Asia-Pacific region, China is following an outdated path that, in the end, will hamper its own pursuit of national greatness. (The White House 2002, 27).
Per altro verso, a fronte all’assestamento della politica cinese di Bush su posizioni meno declamatorie dopo l’11 settembre 2001, il dibattito pubblico continua a registrare voci di forte preoccupazione per l’incombere della China threat, e anche di dissenso rispetto alle scelte strategiche del governo federale, giudicate miopi perché appiattite sulle emergenze del momento, laddove l’ascesa della Repubblica popolare resta l’unica, vera sfida sostanziale alla sicurezza degli Stati Uniti. Ad esempio, sul Weekly Standard del 15 luglio 2002, Gary Schmitt, uno dei fondatori del Pnac, invita il presidente a sottrarsi all’abbraccio dei burocrati della politica estera, dei tanti esperti e sinologi che, fidandosi della moderazione cinese, propendono per “lasciare le cose più o meno come stanno”, e prospetta la possibilità di sfruttare le truppe americane dislocate nelle basi dell’Asia centrale per tenere sotto pressione Pechino (Lobe, Oliveri 2003, 143-147). Perfino le analisi più pacate di scuola realista non cessano di mettere in guardia contro le aspirazioni cinesi a costruire in Asia orientale un sistema internazionale sganciato dall’egemonia americana (Johnston 2003, 10), mentre i fanatici dell’imperialismo democratico prendono ad accusare l’amministrazione repubblicana di incoerenza per aver creato la China exception alla regola del regime change (Simoni 2004, 120-121).
Teoria strategica o retorica diplomatica?
Non vi è dubbio che nella Rpc il dibattito americano sul contenimento della “minaccia cinese” fornisca argomenti agli scettici, per i quali la possibilità di crescere pacificamente è solo un’illusione da abbandonare per prepararsi alla lotta (Zhu, Yang 2005, 48), ma si tratta davvero di una minoranza – data la linea politica prevalente al vertice del regime – le cui posizioni finiscono letteralmente sommerse dagli interventi di segno opposto, accomunati dallo sforzo di assicurare, pur partendo da punti di vista diversi, una solida base teorica alla tesi che sta prendendo corpo a livello ufficiale. Per avere un’idea dell’ampiezza del dibattito cui si assiste in questa fase, si può fare riferimento a una rassegna di studi cinesi sull’“ascesa pacifica” compilata da Zhu Yibing e Yang Dazhi, tradotta in italiano su Mondo Cinese nel 2005, nella quale si dà conto delle decine di contributi dedicati al tema solo fra il 2002 e il 2004. Gli autori presi in esame affrontano la questione da varie prospettive: dalle condizioni politiche ed economiche internazionali ai condizionamenti interni, dai presupposti culturali ed ideologici ai modelli storici di riferimento, dal nesso fra ascesa pacifica e stabilità del regime a quello fra ascesa pacifica e tutela della sicurezza nazionale. Tutti i maggiori esperti e studiosi politici del paese prendono la parola nel dibattito: non è necessario ripetere la teoria dei nomi, ma le analisi appaiono davvero molto approfondite, e anche ben pubblicizzate al di fuori del mondo accademico dove inizialmente vengono condotte.
Ai fini della presente ricostruzione, è utile rilevare come la discussione interna trovi riscontro sul piano internazionale in diversi articoli pubblicati in lingua inglese su riviste scientifiche di ampia diffusione, grazie ai quali il pubblico degli osservatori stranieri può cominciare a familiarizzare con alcuni elementi che saranno poi alla base della teoria dell’“ascesa pacifica”. Ad esempio, nel 2001 Zhu Tianbiao ribadisce sulla China Review che la strategia cinese di sviluppo può dispiegarsi solo in un ambiente geopolitico stabile e, a dimostrazione dell’impegno del gruppo dirigente riformista su questo punto, si preoccupa di offrire una rilettura storica della politica estera e di sicurezza di Pechino, caratterizzata fin dagli anni ’80 dall’obiettivo di tenere sotto controllo le tensioni con i paesi vicini e, in ogni caso, di evitare il rischio di un confronto militare:
In contrast to China’s involvement in the Korean War in the 1950s, the Sino-Indian conflict and Sino-Soviet conflict in the 1960s, and the short war against Vietnam in the late 1970s, since the early 1980s China has not engaged in direct military action against any country. (16).
Una linea di moderazione orientata, secondo la celebre formula “pace e sviluppo”, a non ostacolare la continuità del processo di modernizzazione e che – fa notare Zhu – rimane salda anche nei frangenti più critici, smentendo così i cultori della teoria della minaccia:
the conduct of China’s foreign policy did not change in the 1990s, and China therefore did not become extremely hostile to the US and the West as its economic strength increased.
Although China encountered both diplomatic isolation and economic sanctions from the West after the June 4th incident, the Chinese government continued to put economic development at the top of its agenda. (19).
L’argomentazione viene ripresa, tra gli altri, da Xiang Lanxin, storico e politologo di solida fama, in un saggio apparso su Survival nel 2004, quando ormai il concetto di “ascesa pacifica” è entrato nel lessico della leadership, ma non ha ancora assunto la formulazione definitiva. Lanxin parla di un paese finalmente riconciliato con un sistema internazionale responsabile delle profonde umiliazioni subite dal popolo cinese nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, un paese che ha dismesso la veste rivoluzionaria degli anni di Mao, come pure la tipica visione sino-centrica dell’antico “Regno di Mezzo”:
It constitutes a major transformation for China to accept the fact that the current international system, though still dominated by the West, has a much to offer in terms of a secure environment for China’s ‘peaceful rise’. (117).
Avendo sperimentato i vantaggi derivanti dall’integrazione nel mondo globalizzato, Pechino – ipotizza Xiang – avrà l’interesse da ora in avanti a sviluppare un orientamento di politica estera nel quale l’eccessiva attenzione per il quadrante strategico del Pacifico e per le relazioni con Washington venga ridimensionata. Mantenere la dialettica entro livelli accettabili nel contesto regionale e rafforzare la collaborazione con altri attori (per esempio l’Unione Europea), al fine di scongiurare i rischi connessi ad una eventuale ripresa del containment americano, darebbero alla Rpc l’opportunità di arricchire di nuovi contenuti l’approccio riformista alla realtà internazionale.
In the Pacific, potentially explosive issues are abundant: the real or imaginary Sino-American strategic rivalry; the crisis on the Korean Peninsula; a rearming and more assertive Japan; and last, but not least, the intractable Taiwan problem.
In policy terms, China would prefer a quiet eastern front and intense interaction with the West. A certain ‘benign neglect’ of the Pacific region, or at least a non-confrontational posture, may become necessary for China to avoid dangerous strategic entanglements. This could also mean that the Sino-US relationship becomes less of an obsession for Beijing. […] Unlike Wilhelmine Germany, Beijing in not seeking a place in the sun, but rather a protected place in the shade. (118).
Il timone della discussione è tuttavia saldamente nelle mani di Zheng Bijian che, raggiunta l’età della pensione e lasciata la Scuola centrale del partito, dal 2002 assume la presidenza del China Reform Forum (Crf), un centro di ricerca emanazione diretta del Comitato centrale del Pcc, all’interno del quale dà vita a un gruppo di studio che si occupa di approfondire l’idea di “percorso pacifico di sviluppo” (Glaser, Medeiros 2007). Il nuovo ambito di lavoro è assai congeniale a questo tipo di analisi dal momento che, sin dalla sua fondazione nel 1994, il Crf si distingue nel panorama degli zhiku per aver scelto come fulcro delle proprie iniziative l’approfondimento delle varie questioni sollevate dalla politica cinese di “riforma e apertura”, oltre che per la particolare propensione a sviluppare progetti di ricerca in collaborazione con analoghi enti ed istituti all’estero (China Reform Forum): tanto per portare un esempio, quando Zheng ne assume la direzione, il think tank ha già attivo da quattro anni un programma sulle relazioni cino-americane condotto in partnership con la Rand Corporation (Zheng, Wolf 2005, III-IV). Sotto la nuova guida, l’elaborazione di una solida teoria attorno al concetto di “ascesa pacifica” diventa immediatamente il progetto-chiave dell’istituto, e anche il più influente a livello politico, godendo dell’avallo pieno del leader in ascesa, Hu Jintao (Liu 2005, 50), il quale proprio nel 2002 assume la carica di segretario generale del Pcc, dando avvio al rinnovamento dei vertici della Repubblica popolare, completato poi fra il 2003 e il 2004 quando Hu sostituisce Jiang Zemin alla presidenza dello Stato e della Commissione militare centrale (China Vitae).
Gli anni della transizione dalla terza alla quarta generazione della leadership sono, dunque, quelli in cui viene definita la teoria di “ascesa pacifica”, pur declinata poi nella formula ufficiale di “sviluppo pacifico” – ma la variazione dei termini è solo una clausola di stile – che, in tale veste, assolve la funzione di nuovo principio guida in politica estera, affiancando e per certi versi sovrapponendosi alla tradizionale “coesistenza pacifica” di Zhou Enlai. È questo un elemento su cui è bene riflettere già in via preliminare, per evidenziare una sostanziale linea di continuità – sebbene interrotta dai periodi di maoismo trionfante – fra la strategia di politica estera degli anni della ricostruzione post-rivoluzionaria, declinata nelle conferenze di Ginevra (1954) e Bandung (1955) (Shao 1996, 271-274), la dottrina riformista riassunta da Deng nella direttiva “pace e sviluppo” e le indicazioni per il lavoro di politica estera elaborate da Zheng Bijian e dal Crf. Le parole di Shao Kuo-kang, riferite alle motivazioni di fondo della “coesistenza pacifica”, sono illuminanti in proposito:
The rational conduct of foreign policy, according to Zhou, meant working out an adjustment between national aspirations and the sovereign rights of other nation-states. It became his task to shift China’s emphases from ideological doctrine to bringing about a greater understanding of the problems of Asia and to further efforts toward peace and cooperation. He saw the Five Principles of Peaceful Coexistence as the vehicle for this change. Given that China’s foreign policy was an instrument for enhancing its economic growth, he must work toward maintaining peaceful internal and international conditions and promoting trade relations with both Communist and non-Communist states. Obviously, the promotion of peace and order in Asia would be advantageous to China’s domestic economic reconstruction. (273).
Se il dato di continuità, sul piano di un approccio essenzialmente non ideologico alla politica internazionale, non mi pare possa sfuggire, dovrebbe essere altrettanto chiaro che i teorici della “ascesa pacifica” si muovono nel solco di un rinnovamento del pensiero strategico cinese, inteso come necessario aggiornamento per adeguarlo alle esigenze della modernizzazione e alle mutate condizioni dello scenario globale, piuttosto che di una radicale innovazione: resta ferma in ogni passaggio la realistica valutazione dello sviluppo economico del paese come fondamentale interesse nazionale. D’altra parte, se nella riflessione di Zheng Bijian è esplicito e costante il tributo a Deng Xiaoping, non di meno si percepisce il rapporto di filiazione con il discorso di Zhou Enlai sulla “coesistenza pacifica” fra sistemi politici differenti, possibile solo rispettando i principi di sovranità e integrità territoriale, di non aggressione, di non interferenza negli affari interni e instaurando relazioni basate sull’uguaglianza e i reciproci vantaggi.
In una lunga intervista concessa nel settembre 2004 (Zheng 2005a, 44-66), Zheng Bijian ricostruisce la genesi della teoria e colloca alla fine del 2002 il momento in cui a Pechino viene deciso di accelerare il lavoro politico in vista della messa a punto di un nuovo concetto strategico in grado di rassicurare il mondo, di accreditare l’immagine della Cina come status quo power, affinché diminuiscano le prevenzioni e gli atteggiamenti ostili:
At the end of 2002, just months after the Sixteenth Party Congress, I led a delegation of the China Reform Forum to the United States. When I talked with people both inside and outside the government, I realized that two theories, namely ‘China threat’ and ‘China collapse’, were rather popular there. The China threat is that if China moves ahead and becomes stronger, it will vie for resources and seek expansion; while proponents of China’s collapse believe that China cannot sustain its development and finally will collapse. My immediate reaction was that a reply was needed, and that I could and should respond based on the facts and basic experience of China’s development. […] So when I returned to China, I suggested that this topic be the subject of research. (56-57).
Zheng Bijian fa leva sulla storia del processo di “riforma e apertura” per definire la teoria: in questo senso, l’“ascesa pacifica” non è solo l’enunciazione di una strategia per il futuro, ma il modo corretto di leggere il passato della Rpc. È una dottrina nei fatti già consolidata perché affonda le radici nel lungo percorso della modernizzazione cinese, laddove si riconosca – sostiene Zheng – che effettivamente a partire dagli anni ’80 il paese non ha interferito con un sistema internazionale caratterizzato, in sequenza, dall’ultima fase del bipolarismo, dalle speranze del multipolarismo e dagli anni dell’unipolarismo americano; non ha alimentato tensioni e, casomai, è stato vittima delle tensioni innescate da interferenze esterne nei suoi affari interni (come nel caso delle reazioni occidentali alla crisi di piazza Tiananmen o di Taiwan). Proprio la storia della modernizzazione cinese viene utilizzata per controbattere tanto l’idea della “minaccia”, che dipinge un paese aggressivo e pronto a percorrere la strada dell’espansione per assicurarsi le risorse economiche di cui ha bisogno – rischio che secondo Zheng è smentito appunto da quanto è accaduto nel quarto di secolo precedente –; quanto l’idea, opposta ma convergente, del prossimo “collasso”, secondo la quale il ritmo di crescita è insostenibile e prepara il fallimento della modernizzazione socialista, pericolo al quale Zheng risponde con l’argomento che la Rpc ha approfittato della grande ondata della globalizzazione trovando nella competizione sul mercato mondiale le risorse esterne necessarie al proprio sviluppo e che non vi sono pericoli di collasso a meno di chiusure da parte del sistema economico internazionale. Su questo fronte, peraltro, Zheng parla anche dell’impegno cinese ad affrontare i problemi dell’accesso alle risorse e del degrado ambientale, mirando ad uno sviluppo sostenibile, basato principalmente sulle risorse interne, sul ricorso alla ricerca e alle tecnologie più avanzate per acquisirne di nuove, sull’uso razionale di quelle disponibili, riflettendo in tal modo l’altro discorso ufficiale sullo “Sviluppo scientifico”, che costituirà poi la tesi principale portata da Hu Jintao al XVII Congresso del Pcc nel 2007 (Miranda 2007).
Si tratta di una evoluzione del pensiero strategico di Deng Xiaoping – che Zheng Bijian conosce bene per essere stato uno dei curatori della raccolta di scritti e discorsi del leader scomparso (Zheng 2005a, 60-61) –, arricchita di analisi sulle prospettive che un mercato interno in continua espansione potrà assicurare agli operatori economici del mondo avanzato, mentre ci si preoccupa di sottolineare che la Cina, lungi dall’essere una nuova superpotenza globale, è ancora un paese in via di sviluppo in termini di Pil pro-capite – collocandosi intorno al 90° posto della classifica mondiale secondo i dati del Fondo monetario internazionale (IMF 2010) – e raggiungerà lo stadio di paese mediamente sviluppato solo alla metà del XXI secolo. Un nuovo pensiero strategico centrato sul concetto dell’ascesa, ma mitigato in tutti gli interventi dalla citazione del binomio “pace e stabilità”: in stretta osservanza del lessico riformista, i due termini vengono usati come sinonimi, e l’accostamento si capisce bene perché nelle intenzioni di Pechino non si tratta solo di preservare un contesto economico, quello della globalizzazione, forse meno pacifico di quanto sarebbe necessario, di cui però la Rpc è stato il maggior beneficiario, ma anche di ribadire che il “socialismo di mercato” è una formula politica efficace e in grado di garantire il sistema internazionale rispetto alle imprevedibili ricadute di un regime change. Insomma la stabilità del sistema socialista con “caratteristiche cinesi” è di per sé un contributo alla pace mondiale.
L’unico rischio concreto di far deragliare il “percorso di ascesa pacifica” viene individuato in un inasprimento delle tensioni nello Stretto di Taiwan. Vi è, tuttavia, un solo caso in cui sarebbe legittimato l’uso della forza da parte della Rpc: quello in cui venisse dalla “provincia ribelle” una dichiarazione d’indipendenza, alla quale occorrerebbe rispondere per salvaguardare l’unità e l’integrità territoriale del paese. Come chiarisce Zheng in un intervento al Forum Ambrosetti di Villa d’Este (Cernobbio) nel settembre 2004:
The path to a peaceful rise, by definition, requires the peaceful reunification of Taiwan and mainland China and is conducive to it. As long as there is still the slightest hope, no effort shall be spared to achieve this goal. However, should proponents of Taiwan’s independence defy the wishes of the international community, or should foreign forces dare to intervene to support Taiwan’s independence, the use of force will by no means be ruled out. However, even if the use of force becomes inevitable, it should certainly not be understood as an act of invasion, but as, by any measure, a righteous move to safeguard national unity and territorial integrity against separatist activities. (Zheng 2005a, 41).
Sono questi gli anni in cui a Taipei è al governo il Partito democratico progressista (2000-2008), i cui programmi contemplano in effetti la possibilità di una dichiarazione d’indipendenza, minaccia a cui Pechino risponderà con la Legge anti-secessione (2005), cioè con la politica del budu buwu (niente indipendenza, niente guerra), il cui obiettivo è appunto il mantenimento dello status quo (Wu 2004; Lin 2007).
Fra il 2002 e il 2005 Zheng Bijian e il China Reform Forum sono impegnati in una specie di tour de force, oltre che sul fronte interno, dove il tema dell’“ascesa pacifica” è oggetto di crescente attenzione (Narayanan 2007), direi soprattutto sul piano internazionale, sviluppando una lunga serie di contatti specialmente con quella parte dell’establishment americano che propende, con varie sfumature, per l’engagement. Zheng tiene conferenze presso il Council on Foreign Relations, la Carnegie Foundation, il Center for Strategic and International Studies, la Brookings Institution: quest’ultima pubblicherà poi una raccolta dei principali interventi da lui dedicati alla China’s peaceful rise (Zheng 2005a).
Il concetto viene presentato per la prima volta in un consesso internazionale nel novembre 2003, nel corso del secondo Forum di Bo’ao sull’Asia – una sorta di equivalente asiatico del World Economic Forum di Davos, che dal 2002 si svolge ogni anno sull’Isola di Hainan – di fronte a una platea che raggruppa esponenti politici e di governo, del mondo accademico ed economico-finanziario del continente (Samarani 2010, 16-17): il discorso tenutovi da Zheng non aggiunge nulla a quanto si è già detto, salvo il fatto che l’inizio della strategia di “ascesa pacifica” viene definitivamente retrodatato al dicembre 1978, momento di avvio del processo di “riforma e apertura”, a partire dal quale la Rpc ha perseguito una linea politica coerente, attenta alle condizioni del paese e a quelle dell’ambiente internazionale (Zheng 2005a, 16).
Dopo Bo’ao il concetto diventa parte integrante del discorso ufficiale di politica estera: in dicembre viene ripetuto dal premier Wen Jiabao, durante una visita negli Stati Uniti, e dal presidente Hu Jintao, in occasione di una conferenza di lavoro organizzata dal Pcc per celebrare il 110° anniversario della nascita di Mao Zedong. Nel suo intervento il leader cinese traccia una chiara linea di continuità fra il “percorso di ascesa pacifica” e la tradizione della “coesistenza pacifica”, un passaggio che serve a dare una più forte legittimazione politico-dottrinale alla teoria, che in questa forma viene ribadita di fronte al Politburo del partito nel febbraio successivo (Suettinger 2004, 3-4). Con lo stesso intento, Wen Jiabao evoca Zhou Enlai quando, il 14 marzo 2004, declina i “cinque principi-guida dell’ascesa pacifica” (Zheng, Tok 2008, 179) durante la seconda sessione del decimo Congresso nazionale del popolo. Essi possono essere riassunti in questo modo: 1) sfruttare le possibilità offerte da un ambiente internazionale pacifico per promuovere lo sviluppo del paese e, allo stesso tempo, mettere il progresso cinese al servizio della pace mondiale; 2) fondare l’ascesa pacifica innanzitutto su uno sforzo nazionale indipendente; 3) mantenere saldi i principi della “porta aperta” e della reciprocità nei rapporti economici e commerciali con tutte le nazioni, nella convinzione che lo sviluppo cinese è inseparabile da quello del resto del mondo; 4) avere chiaro che si tratta di un progetto di lunga durata, che richiederà costante attenzione e l’impegno di molte generazioni a venire; 5) non dimenticare mai che la Rpc, nella sua strategia di ascesa pacifica, non dovrà ostacolare, minacciare o sacrificare i legittimi interessi degli altri paesi, così come non dovrà esercitare forme di dominazione o coltivare ambizioni egemoniche.
Infine, lo stesso Zheng Bijian, nel prendere la parola al terzo Forum di Bo’ao – tenutosi nell’aprile 2004 e significativamente dedicato al tema: “L’ascesa pacifica cinese e la globalizzazione economica” (Liu 2005, 51) – si preoccupa di sintetizzare i risultati del lavoro compiuto negli anni precedenti, facendo uso di una formula retorica ad effetto, concepita per rassicurare gli interlocutori di Pechino, a cominciare, dato il contesto, dai partner asiatici:
in the process of its peaceful rise, China has formed a new security concept that differs from any traditional concept. With mutual trust, mutual benefit, equality, and cooperation as its core notions, our new paradigm firmly abandons the strategic framework in which big powers in the past vied for spheres of influence, engaged in military confrontation, or exported ideologies. Ours is a comprehensive and strategic concept with peaceful coexistence as its precondition, common interest as its basis, strategic cooperation as its bond, and common development as its objective. (Zheng 2005a, 35).
Ma sono soprattutto gli interventi di Hu Jintao e Wen Jiabao a dare un’ulteriore spinta al dibattito sul fronte interno. Un dibattito che risulta assai vivace nei media e a livello accademico, dove il fulcro della discussione, dati per acquisiti i fondamentali della teoria, si sposta sulle minacce all’“ascesa pacifica” (Suettinger 2004, 4-6), e che, a questo punto, investe direttamente anche gli altri vertici del partito, dai quali non viene, però, alcuna significativa aggiunta rispetto all’elaborazione di Zheng Bijian, tranne il fatto che ci sono pressioni per un aggiustamento di tiro rispetto al lessico da usare per propagandare la nuova linea strategica. Per molti, fra i quali l’ex leader Jiang Zemin, il sostantivo “ascesa” conserva un’accezione troppo aggressiva, non adeguatamente mitigata dall’aggettivo “pacifica”. Alla fine si decide che una più stretta adesione terminologica all’ispirazione originale di Deng Xiaoping sia necessaria per tenere sotto controllo le critiche. La direttiva che esce dai vertici è che gli studiosi possano continuare a discutere di “ascesa pacifica”, ma che il termine “ascesa” venga espunto dai documenti del partito e del governo, e sostituito con “sviluppo” (Guo 2006, 2): “Sviluppo pacifico” è il nome ufficiale attribuito in via definitiva a questa teoria di politica estera, che come tale viene presentata in un White Paper del Consiglio di Stato pubblicato nel dicembre 2005, intitolato appunto China’s Peaceful Development Road (Information Office 2005).
Il Libro Bianco del 2005 costituisce un elemento importante, sotto il profilo ideologico e diplomatico, della “politica di rassicurazione” (Jia 2005) concepita dal governo di Pechino per contenere i danni della China threat theory, sebbene sia caratterizzato, a differenza del discorso di Zheng Bijian sull’“ascesa pacifica”, da un alto tasso retorico – ma questo è un dato comune alla gran massa dei documenti prodotti in ambito istituzionale, non solo nella Repubblica popolare. Soprattutto, si rivela un utile strumento da usare nella dialettica politica internazionale perché fa leva su un argomento storico difficilmente contestabile, cioè che la storia della modernizzazione cinese sia una storia essenzialmente pacifica – per lo meno nei rapporti con l’estero –, e su un assunto, quello del fondamentale interesse di Pechino a massimizzare i vantaggi offerti dal processo di globalizzazione, confermato dai risultati economici conseguiti nell’arco di tre decenni di crescita pressoché ininterrotta. Ciò conferisce una certa solidità alla teoria, anche a fronte dell’enfasi – francamente eccessiva – sulle straordinarie acquisizioni della modernizzazione, che rimarrebbero tali anche se accompagnate da una più onesta ammissione delle criticità evidenziate dal sistema socialista con “caratteristiche cinesi”; o a fronte della petizione di principio che fa della Cina una potenza pacifica per tradizione e refrattaria alle tentazioni egemoniche, argomento che si presta a una troppo facile confutazione (Andornino 2008, 43). Ma si tratta di uno strumento politico e, in quanto tale, le letture partigiane o un certo grado di semplificazione storica, pur inaccettabili per gli studiosi, fanno parte del gioco.
La teoria dello “Sviluppo pacifico” viene subito integrata nel corpus dottrinario alla cui elaborazione è dedita la quarta generazione della leadership nei primi anni di potere, trovando il suo posto accanto ai concetti di “Sviluppo scientifico” e di “Società armoniosa” (Samarani 2010, 15-30). Il nesso fra le tre strategie ora menzionate e le tre grandi sfide che la modernizzazione cinese ha di fronte a sé – garantire la sostenibilità del modello di sviluppo, preservare la stabilità internazionale, gestire le tensioni e gli squilibri sociali generati dalla crescita – viene evidenziato da Zheng Bijian in un articolo scritto per Foreign Affairs e uscito quasi contemporaneamente alla pubblicazione del Libro Bianco (2005b). Si tratta di uno dei migliori esempi del lavoro di image building rivolto agli Stati Uniti: in esso Zheng afferma che lo “Sviluppo pacifico” non è un esercizio di retorica diplomatica, piuttosto è parte di un disegno organico concepito da Pechino per dare una risposta efficace e responsabile ai grandi interrogativi sollevati in patria e all’estero dall’ascesa cinese (21-22). Un disegno organico che si allarga fino ad assumere i connotati di una visione globale nell’intervento svolto da Hu Jintao alle Nazioni Unite nel settembre 2005, nel quale lo “Sviluppo pacifico” diventa l’originale contributo portato dalla Rpc all’edificazione del “Mondo armonioso”, concetto che costituirà negli anni successivi l’altro motivo dominante nel discorso di politica estera della dirigenza in carica (Guo, Blanchard 2008):
I would like to reiterate here what China stands for. We will continue to hold high the banner of peace, development and cooperation, unswervingly follow the road of peaceful development, firmly pursue the independent foreign policy of peace and dedicate ourselves to developing friendly relations and cooperation with all countries on the basis of the Five Principles of Peaceful Coexistence. Always integrating our development with the common progress of mankind, we take full advantage of the opportunities brought by world peace and development to pursue our own development while going for better promotion of world peace and common development through our successful development. China will, as always, abide by the purposes and principles of the UN Charter, actively participate in international affairs and fulfill its international obligations, and work with other countries in building towards a new international political and economic order that is fair and rational. The Chinese nation loves peace. China’s development, instead of hurting or threatening anyone, can only serve peace, stability and common prosperity in the world. (Hu 2005, 9).
L’impegno per accreditare lo “Sviluppo pacifico” ha sicuramente l’effetto di introdurre un nuovo elemento nel dibattito internazionale sulla questione cinese e, anzi, dal 2004 in poi, i contributi più interessanti sul tema vengono proprio da quegli autori che sottopongono a vaglio critico la teoria, cercando di stabilirne punti di forza e debolezze. Senza approfondire l’esame della cospicua letteratura ormai disponibile, obiettivo che esula dai limiti del presente contributo, mi sembra di poter dire che la gran parte degli studiosi finisca per condividere due approcci di fondo: da un lato vi è chi, pur accentando la validità della teoria per il passato, mostra dubbi circa la possibilità che Pechino possa continuare a seguire in futuro il percorso intrapreso, vuoi per i condizionamenti posti da una società internazionale estremamente competitiva (Buzan 2010), vuoi per l’impossibilità di superare il collo di bottiglia di risorse limitate (Yue 2008), vuoi per il peso determinante che l’apparato militare, rafforzato dai crescenti investimenti, potrebbe assumere nel policy-making della Rpc (Shirk 2007); infine vi è chi considera l’eventualità che la Cina possa proseguire la sua ascesa pacifica come dipendente dalla capacità del regime di autoriformarsi, perché solo di fronte a un paese democratico verrebbero meno le preoccupazioni strategiche dei vicini e dell’Occidente, all’origine delle periodiche tensioni con Pechino (Guo 2006, 13-14). Altri autori si sono invece concentrati sulle politiche che hanno fatto seguito alle dichiarazioni contenute nel Libro Bianco del 2005, giungendo alla conclusione che alla prova dei fatti lo “Sviluppo pacifico” si sta rivelando una reale priorità per la leadership cinese (Wuthnow 2008; Chen 2009), come attesta la sua propensione ad assumere responsabilità nel mantenimento della pace e nella promozione dello sviluppo, che si tratti di partecipare alle missioni Onu, di implementare i meccanismi di cooperazione regionale, di collaborare con le organizzazioni economico-finanziarie internazionali. Su un piano diverso, più militante e meno analitico, si situano quei commentatori che liquidano lo “Sviluppo pacifico” come semplice propaganda, sparsa a piene mani dal regime allo scopo di nascondere un pragmatismo senza scrupoli, come dimostrerebbero le iniziative assunte specialmente in Africa sulla base del cosiddetto Beijing Consensus (Ramo 2004).
Sarebbe una semplificazione sostenere che la teoria dello “Sviluppo pacifico” abbia determinato una completa inversione di tendenza nel dibattito sull’ascesa di Pechino, tacitando i fautori del containment o le voci di coloro che, all’interno del paese, si dichiarano critici dell’approccio riformista alla politica internazionale. In effetti, alcuni analisti cinesi continuano a ritenere inutili gli sforzi intrapresi dalla leadership per conquistare la fiducia degli Stati Uniti e dei loro alleati, dove troppo radicati sarebbero i preconcetti ideologici nei confronti della Rpc: questi studiosi osservano che la Cina, considerata un pericolo quando era un paese chiuso e sottosviluppato, per paradosso desta ancora maggiori preoccupazioni oggi che è aperta al mondo e ha intrapreso con successo la strada della crescita. Insomma, sono destinati al fallimento i tentativi di rispondere alle accuse attraverso gli strumenti diplomatici perché, qualunque posizione venga assunta, sarà impossibile superare le prevenzioni: la storia recente insegna – si sostiene – che la disponibilità cinese a farsi carico di responsabilità sul piano internazionale viene letta come una manifestazione di malcelata ambizione, mentre una politica estera di basso profilo viene considerata solo l’apparenza di un’ambigua strategia di attesa del “momento opportuno” (Yang 2009, 22).
Per altro verso, appare ottimistica la conclusione di chi parla di un sostanziale successo della “politica di rassicurazione”, notando che a partire dal 2004 la China threat theory è stata progressivamente confinata ai margini del dibattito politico nella maggioranza dei paesi (Jia 2005, 502-504). Questa interpretazione è stata proposta troppo a ridosso degli eventi per avere la giusta prospettiva d’analisi e, comunque, fa troppo facilmente l’economia del versante americano: basterebbe leggere le pagine di Robert Kaplan sulla “seconda Guerra fredda” (2005) e sulla geopolitica di Pechino (2010), o i saggi neocon sulla “futura competizione” usciti poco dopo l’insediamento dell’amministrazione Obama (Schmitt 2009), per rendersi conto che, almeno negli Stati Uniti, il discorso sulla “minaccia cinese” è tutt’altro che archiviato (Arrighi 2008, 317-343; Jeffery 2009). Ma è vero che, a fronte di una certa persistenza nel dibattito politico americano del motivo del containment, si va sempre più radicando nell’opinione pubblica l’idea che una simile ipotesi strategica sia semplicemente impraticabile, dato il contesto internazionale attuale, molto più articolato di quello della Guerra fredda, le dimensioni, il dinamismo, il livello di integrazione nei circuiti economico-finanziari globali del presunto avversario (Lampton 2007; Ikenberry 2008).
Nel 1995 Joseph Nye metteva in guardia rispetto alla retorica anti-cinese diffusa dalla China threat school, evocando il teorema sociologico delle profezie che si auto-adempiono (Merton 1966, 677-701): “If you treat China as enemy, then you will have an enemy” (Ross 1999, 184). Il rischio, per il momento, appare scongiurato, anche in virtù dell’interesse di Pechino a giocare la sua parte attraverso la “politica di rassicurazione”.