di Andrea Girometti
Abstract
L’articolo intende sondare il rapporto tra governo rappresentativo e democrazia attraverso il testo di Bernard Manin Principi del governo rappresentativo. Manin, concentrandosi sulle “democrazie occidentali” e sulle trasformazioni ad esse correlate, innanzitutto decostruisce l’immagine dominante nel senso comune, secondo cui i governi democratici contemporanei sarebbero una variante della democrazia intesa come governo del popolo, il cui archetipo è la polis ateniese. Essi, piuttosto, rinviano all’affermazione delle rivoluzioni moderne (inglese, americana, francese) ed ai sistemi politici che ne scaturirono, retti sul principio rappresentativo, in chiara contrapposizione con il governo diretto del popolo. Inoltre, per Manin la rilevanza assunta dall’estrazione a sorte nella polis greca ne contraddistingue le istituzioni rispetto ai regimi rappresentativi moderni. In essa si materializza l’elemento specificamente democratico rispetto al carattere oligarchico del meccanismo elettivo, e proprio su quest’assunto, partendo da altri versanti – in particolare le tesi di Jacques Rancière – è possibile rinvenire una lettura critica dell’odierna democrazia rappresentativa. Circa l’“evoluzione” dei regimi rappresentativi, Manini individua tre idealtipi: il “parlamentarismo liberale”, la “democrazia dei partiti”, la “democrazia del pubblico”, che l’articolo tenta di discutere criticamente, proponendo un raffronto con altre posizioni.
Premessa
Nominare “democrazia” è esercizio solo apparentemente semplice. Il termine evoca pratiche ed immagini non solo di difficile interpretazione, bensì inestricabili.
In un certo senso siamo di fronte ad un significante effettivamente “vuoto” e “fluttuante” – per riprendere una concettualizzazione utilizzata da Ernesto Laclau su un versante (il populismo) solo apparentemente non contiguo (Laclau 2008) –, oggetto di contesa permanente e dunque di processi egemonici inesauribili.
Se ciò ha un fondamento la concatenazione democrazia – regime rappresentativo – sistema politico liberaldemocratico identifica una tradizione di pensiero, per quanto dominante e storicamente sedimentata. Difficile non vedervi la (legittima) costituzione di un senso comune che ipostatizza il presente, naturalizzandolo. Da un lato, il declino delle identità collettive “solide”, tradotte in particolare dalle organizzazioni dei subalterni, e la sconfitta inappellabile dei regimi realsocialisti, dall’altro, la frammentazione dei rapporti sociali e la rivincita “neoliberista”, sono ad un tempo causa ed effetto di questa egemonia apparentemente inscalfibile. Tuttavia – le insorgenze nordafricane ed affini, condensate nella forma politica del tumulto (Illuminati, Rispoli 2011), sono solo l’indicatore più recente – lo scarto tra l’ipotetica universalizzazione di un modello normativo che nasconde il suo lato “imperiale” (Mattei, Nader 2010) – si pensi all’impossibile esportazione a-mano-armata della “democrazia”, di un processo che per affermarsi come tale deve rimuovere, in primis, l’autoproduzione di un popolo sovrano – e ciò che in esso non è contemplato, ma periodicamente riemergente, induce ad interrogare le origini della democrazia, perlomeno nella sua configurazione occidentale. A ricercarne i rimossi, le declinazioni perdenti, così come i vicoli ciechi e gli effetti indesiderati. È ciò che si può desumere dalla lettura puntuale di un testo (tradotto recentemente) di Bernard Manin – Principi del governo rappresentativo (Manin 2010a) – in cui il politologo francese cerca di tessere una ricostruzione teorica (e politica) del legame tra rappresentanza e democrazia.
Come ricorda Ilvo Diamanti nella prefazione al testo di Manin, si è parlato spesso per la situazione odierna di passaggio ad un’epoca postdemocratica (Crouch 2003) – ma potremmo aggiungere postpolitica tout court (Mouffe 2007) – dominata da un riduzionismo procedurale, esito di una prassi politica sempre più autoreferenziale e prevalentemente oligarchica, sino ad interrogarsi, non solo provocatoriamente, su quanto la democrazia (“ugualitaria e sostanziale”) sia una causa persa (Mastropaolo 2011, 350) e già declinante a partire dagli anni Settanta (Poulantzas 2009). Eppure Manin – il cui testo in esame precede il dibattito odierno su natura ed entità delle “postdemocrazie” – scegliendo un punto d’osservazione che congiunge democrazia e rappresentanza, non tacendo sugli scarti insiti ad una simile operazione, cerca di tratteggiare, oltre ai cambiamenti qualitativi, le costanti che storicamente hanno costellato il cammino dei regimi democratici moderni attraverso l’assunzione di tre idealtipi: il “parlamentarismo liberale”, la “democrazia dei partiti”, la “democrazia del pubblico”. Tre configurazioni, non necessariamente sconnesse e temporalmente isolabili, che hanno segnato altrettante “fasi”, o meglio che hanno delineato un determinato processo egemonico in atto. Tre configurazioni in cui alcuni elementi essenziali sembrano ritornare, rinnovati, come se fosse all’opera una sorta di operazione dialettica (hegeliana). Si pensi, in prima istanza, alla connessione tra il tipo di rappresentanza liberale e l’odierna in cui la personalizzazione si attualizza in forma amplificata e mediatizzata, a differenza dell’epoca di mezzo, caratterizzata dal “compromesso socialdemocratico” – alla socialdemocrazia Manin dedicò un ampio studio a ridosso degli anni Ottanta (Bergonioux, Manin 1979) –, in cui la fiducia era prioritariamente riservata ai partiti e le persone erano apprezzate in quanto appartenenti ad un’organizzazione politica. O allo stesso recupero, amplificato, della logica di governo tramite la discussione (caratterizzante il parlamentarismo liberale), grazie all’incremento di forme di “partecipazione politica non elettorale” – si pensi all’estensione delle pratiche di governance o agli esperimenti di democrazia deliberativa (Sintomer 2009) –, lette in chiave non antagonistica rispetto alla rappresentanza (283-284), dove, a ben vedere, all’erosione della sovranità statuale corrisponde l’intensificazione e la parziale esternalizzazione della stateness. In direzione diametralmente opposta a forme di autogoverno (Mastropaolo 2011, 152-183). E infine si consideri la permanente presenza di un’élite – l’”aristocrazia naturale” – i cui principi di legittimazione, per quanto mutati storicamente, non per questo hanno ridotto il gap tra rappresentati e rappresentanti ed anzi, se durante l’egemonia dei partiti di massa qualche avvicinamento si è registrato, ad emergere sono stati “attivisti” e “burocrati di partito”, quasi a volere intendere, seppure involontariamente, che su questa dimensione intensificare il principio egualitario produrrebbe livellamento verso il basso, in-distinzione, se non un ulteriore “sviluppo” di quell’eguaglianza delle condizioni da cui Tocqueville prendeva le mosse per immaginare “contrafforti” – chissà se i partiti di massa e le relative organizzazioni “collaterali” potevano essere classificati/e in questo modo? – che scongiurassero gli effetti di una “democrazia dispotica” (Ciliberto 2011). Quanto l’eventuale dispiegamento di un “dispotismo dolce” fosse in realtà il pretesto per addomesticare il carattere “selvaggio” e “far rientrare il fiume tumultuoso [corsivo mio] della democrazia nel letto dello Stato” è invece posto in risalto da tutt’altra prospettiva (Abensour 2008, 39-40).
Di fatto Manin individua almeno “quattro principi che sono stati invariabilmente osservati nei regimi rappresentativi”:
- la designazione dei governanti attraverso elezioni a intervalli regolari;
- l’indipendenza relativa tra l’attività decisionale dell’élite e i desiderata dei governati;
- la possibilità, da parte dei governati, di manifestare opinioni politiche senza essere controllati dai governanti;
- la sottomissione delle “decisioni pubbliche alla prova del dibattito” (8-9).
- Di seguito proveremo a ricostruire le tesi di Manin forzandone deliberatamente alcuni punti con l’ausilio di altri interlocutori.
Alle origini del rapporto democrazia/rappresentanza: estrazione a sorte e principio elettivo.
Manin fissa sin dall’introduzione alcune coordinate essenziali per argomentare le sue posizioni. Innanzitutto decostruisce l’immagine dominante nel senso comune: i governi democratici contemporanei sarebbero una variante della democrazia intesa come governo del popolo, il cui archetipo è la polis ateniese. Essi, piuttosto, rinviano all’affermazione delle rivoluzioni moderne (inglese, americana, francese) ed ai sistemi politici che ne scaturirono, retti sul principio rappresentativo. I loro “padri fondatori” li percepivano in chiara contrapposizione con il governo diretto del popolo. In questi termini la stessa distinzione tra democrazia diretta e rappresentativa non può essere dipinta come l’articolazione “di varianti di uno stesso tipo di governo” (3). Ad un Rousseau che tratteggia il governo inglese del XVII secolo come “una forma di schiavitù punteggiata da momenti di libertà” (ibidem) si contrappongono autori – anche assai diversi tra loro – come James Madison e Emmanuel Joseph Sieyès che ritenevano le repubbliche moderne inconciliabili con una partecipazione del popolo, considerato nella sua collettività, alla cosa pubblica. Che si trattasse di evidenziare la necessaria azione di un’élite per affinare e mediare “la visione dell’opinione pubblica” (Madison) o di correlare rappresentanza e società mercantile con la conseguente divisione del lavoro che essa imponeva, il risultato non mutava. La rimozione di tale acquisizione ha comportato un evidente slittamento semantico nella definizione di democrazia, che tuttavia Manin non esita a declinare in termini evolutivi (6).
Secondo il politologo francese un confronto tra un esempio di democrazia classica – la città-stato ateniese – ed i sistemi rappresentativi deve innanzitutto soffermarsi su due differenze essenziali:
a) centralità del popolo riunito in assemblea versus rappresentanti eletti che svolgono le funzioni di governo;
b) ruolo dell’estrazione a sorte per la nomina di coloro (magistrati) che ricoprivano cariche su cui non aveva competenza giuridica l’assemblea popolare versus assenza nelle democrazie moderne di un tale meccanismo nell’attribuzione di una qualche porzione di potere politico.
È proprio su questo secondo fenomeno che Manin si sofferma attentamente (11-48) dimostrando, ad un tempo, l’infondatezza del criterio dimensionale per escludere il metodo dell’estrazione a sorte nell’allocazione delle cariche pubbliche – nei regimi rappresentativi ciò non è mai stato applicato nemmeno a livello locale –, sia la difficoltà ad argomentare il passaggio al meccanismo elettorale rispetto all’estrazione, essendo il primo contrapposto generalmente ad un governo ereditario.
Ricorrendo in particolar modo ad uno studio di M. H. Hansen (La democrazia ateniese nel IV secolo) Manin si addentra nell’analisi delle istituzioni ateniesi per metterne in luce la differenza specifica, facendone un uso paradigmatico in sede di comparazione con i regimi rappresentativi. In esse la centralità esercitata dall’ekklesia (Assemblea popolare) non risultava esclusiva. L’estrazione a sorte riguardava gran parte di determinate cariche (magistrature) e prescindeva da un’eventuale “misurazione” delle capacità richieste. Erano di natura volontaria e, soprattutto, chi le esercitava era passibile di giudizio e di possibili condanne sia durante che al termine del proprio mandato annuale. Ad esse si affiancavano altre cariche, di tipo elettivo, in genere quelle più rilevanti in cui la competenza era considerata un elemento imprescindibile (dal V secolo quelle dei generali, le più alte magistrature finanziarie, ecc.). In questo caso era prevista la rielezione, ed è evidente che intervenisse anche un meccanismo di valutazione ex ante e non solo ex post. È pur vero che per chi era nominato attraverso l’estrazione a sorte interveniva una forma di autoselezione dettata dalla combinazione di volontarietà e conoscenza dei rischi cui andava incontro. Tuttavia, suggerisce Manin, una lettura che riducesse il peso esercitato dal sorteggio nel sistema ateniese non risulterebbe particolarmente convincente. Esso riguardava organi come il Consiglio (boulé), direttamente legato all’ekklesia, le cui prerogative specifiche, secondo Aristotele, ne facevano la magistratura più importante in quanto “preparava l’agenda per l’Assemblea e attuava le sue decisioni” (22). Lo stesso dicasi per le “corti popolari” le cui funzioni erano anche di natura espressamente politica vista la possibilità da parte di qualsiasi cittadino di fare causa contro una proposta (legge o decreto che fosse) giudicata dannosa per l’interesse pubblico. Se ne deduce che la stessa ekklesia era sottoposta al vaglio delle corti.
Ne consegue che oltre all’Assemblea vi erano altre istituzioni che esercitavano una funzione politica di pari rilevo e che ridurre il demos all’ekklesia è analiticamente errato. In tal senso – si chiede Manin – come non vedere nell’estrazione a sorte il principio che determina il carattere “diretto” dell’esercizio del potere nella polis? Esso risulterebbe intrinsecamente democratico, a differenza delle elezioni che invece Aristotele delineerà come costitutivamente oligarchiche/aristocratiche, pur limitandosi ad un’osservazione empirica.
Non a caso Jacques Rancière intravede proprio nell’estrazione a sorte l’elemento intrinsecamente politico e democratico che si sovrappone ai poteri asimmetrici, “naturali”, della nascita e della ricchezza, costringendoli a riconfigurarsi. Esso è “il requisito non requisito” che legittima, in primis, “un “governo” anarchico, fondato solo sull’assenza di ogni titolo per governare” (Rancière 2007a, 51-52). Ne segue l’impossibile riduzione della democrazia ad un sistema politico-costituzionale – ogni regime giuridico è costretto perennemente ad incrociare eguaglianza ed ineguaglianza –, la natura assolutamente contingente che la connota, il suo poggiarsi sull’assenza di fondamenti, sul potere del popolo nei termini di potere di chiunque.
Inoltre, suggerisce Manin, non si può comprendere il retroterra culturale della democrazia greca se non si mette in rilevo il principio della rotazione delle cariche. Rispetto all’improbabile simultanea identificazione tra governati e governanti è la possibilità che ciascuno, a turno, occupasse entrambe le posizioni a qualificare la democrazia greca. In questi termini il valore fondante di una costituzione democratica – la libertà – è così riassunta da Aristotele nella Politica: “una delle caratteristiche della libertà (eleutheria) consiste nel governare e nell’essere governati a turno” .
La rotazione delle cariche, pertanto, non inficia la logica dell’estrazione a sorte ed anzi contribuisce a mettere in chiaro alcuni nodi essenziali, teorici e pratici:
a. la necessità di tenere presente la condizione di chi è governato da parte di chi governa, implicante, da un lato, l’assenza di scarti ontologici tra chi ricopre le due posizioni, dall’altro, l’incentivo ad implementare buone pratiche di governo;
b.la sostanziale reversibilità dei rapporti di potere;
c. la profonda sfiducia nei confronti della politica come professione e la centralità assunta dai cittadini comuni. Solo in ambiti circoscritti si ricorre agli esperti, temendone il predominio.
È evidente, inoltre, che l’estrazione a sorte è correlata con il principio di uguaglianza. Ed in modo specifico, come sottolinea un critico (non così inesorabile) della democrazia come Platone, ad una concezione aritmetica (tutti ricevono in parti eguali) piuttosto che proporzionale/geometrica (dare ad ognuno in base al proprio valore). A sua volta Aristotele – la cui propensione per un governo misto è nota – considera la prima (esemplificata ad es. nell’affermazione “tutti i cittadini nascendo liberi sono eguali”) un caso particolare della seconda, tuttavia estesa erroneamente dai democratici ad ambiti non pertinenti.
Ma la democrazia ateniese era davvero connotata dall’eguale distribuzione di quote di potere? La combinazione tra estrazione e volontarietà restringe il campo d’osservazione, così come la possibilità di prendere la parola durante l’Assemblea da parte di chiunque (l’eguaglianza intesa come isegoria) è già altro rispetto all’estrazione a sorte connessa con la rotazione delle cariche. In questo caso non è il potere ad essere distribuito in egual modo, bensì la probabilità matematica di ottenerlo limitatamente a coloro che lo desiderano. Malgrado la non conoscenza del concetto di probabilità nella cultura greca e il conseguente carattere difettoso (sotto questo aspetto) della critica platonica e aristotelica dell’estrazione a sorte dipinta come meramente aritmetica, ciò non significa che essa non fosse connessa ad una concezione egualitaria, seppure nei termini di eguale probabilità di ottenere qualcosa.
Da questa ricostruzione Manin trae due conclusioni fondamentali in sede comparativa:
a. l’impossibile riduzione di un governo diretto del popolo nella sua totalità ad un unico luogo deputato (l’Ekklesia) e dunque la compresenza di “corpi più piccoli e separati e i cui membri erano nominati principalmente per estrazione a sorte” (48). Ad esso corrisponde che i governi rappresentativi non hanno mai fatto uso dell’estrazione a sorte e dunque l’autentica distinzione rispetto ai sistemi “diretti” va imputata alla modalità di selezione piuttosto che alla numerosità dei governanti;
b.l’estrazione a sorte giocava un ruolo rilevante nella democrazia ateniese ed era parte di una logica sistemica specifica: rotazione delle cariche, diffidenza per i professionisti della politica e, soprattutto, connessione con il diritto di contare allo stesso modo nell’Assemblea. Distribuendo tra chi lo volesse le stesse probabilità di ricoprire determinate cariche si optava per un metodo – diametralmente alternativo alle elezioni – in cui la preesistenza di certi requisiti (virtù, ricchezza, o semplice percezione di un qualsiasi carattere distintivo indipendente dalla volontà dei candidati) avrebbero oggettivamente prodotto una restrizione delle probabilità di essere nominati.
Sulla base di questi assunti, nei capitoli successivi (cfr. 49-156), Manin indaga le discontinuità che si sono prodotte nei regimi posteriori in cui il potere sarà esercitato dai cittadini, piuttosto che da un monarca ereditario, mettendo in luce la persistenza del ricorso all’estrazione a sorte. Nella variegata tradizione repubblicana, connotata perlopiù da forme di governo misto, a partire dalla Repubblica romana sino ai casi emblematici delle repubbliche veneziane e fiorentine, l’estrazione a sorte si intrecciava con altri sistemi di designazione, in primis di tipo elettivo. È altresì vero che l’estrazione a sorte assume significati anche molto diversi rispetto alle proprietà egualitarie esaltate nel contesto originario: a Roma l’estrazione della centuria prerogativa mirava a produrre coesione politica all’interno dei comitia ed era ammantata da un significato religioso; nelle repubbliche cittadine italiane il ricorso al sorteggio è fortemente correlato con l’esigenza di ricorrere a figure terze per sedare i conflitti tra fazioni (si pensi all’analogia tra carica podestarile ed estrazione).
In particolare, nel caso fiorentino, erano rinvenibili forme di compresenza tra meccanismi elettivi ed estrazione a sorte sia nel primo che in quel che Manin definisce secondo sistema repubblicano fiorentino (63). Si pensi ad esempio allo squittinio: un numero di cittadini precedentmente selezionati da un comitato (nominatori) erano prima sottoposti ad uno scrutinio (a voto segreto), successivamente i nominativi che ottenevano maggiori consensi erano messi in sacchetti (borsellini) da cui venivano estratti casualmente i nomi di coloro che avrebbero ricoperto alcune magistrature (Signoria, Buoni Huomini, Gonfalonieri). In questi termini lo squittinio rappresenta una forma di selezione diversa rispetto ai meccanismi di autoselezione indotta ad Atene (carattere volontario e giudizio in itinere ed ex post sull’attività svolta) ma, nel determinare l’esito finale, si affida ad una distribuzione delle cariche ritenuta più equa. Il dibattito seguito alla rivoluzione del 1494 tra ottimati e popolani (vincitori sui Medici) evidenzia una fluttuazione sulle preferenze assegnate al metodo elettorale “puro” e allo squittinio. Tuttavia il sistema di credenze si consolida dopo le elezioni del 1494-95 designando una distinzione netta: al governo stretto (ristretto o aristocratico) sono associate le elezioni, al governo largo (aperto o popolare) l’estrazione a sorte (69). Di fatto si assiste al recupero dell’originaria impostazione ateniese, che riteneva preferibile l’estrazione a sorte in quanto più ugualitaria.
Proprio su queste basi autori come Harrington, Montesquieu e Rousseau, alle soglie dell’affermazione delle democrazie moderne, riflettono sul rapporto tra elezioni ed estrazione a sorte, ritenendo quest’ultima tutt’altro che una “bizzarria”. Il primo, rinvenendo la presenza di un’aristocrazia naturale in ogni formazione sociale, imputa all’estrazione a sorte del Consiglio la rovina di Atene ed individua nelle elezioni il modo migliore per riconoscere l’esistenza di tale aristocrazia. Il meccanismo elettorale viene inoltre congiunto con la rotazione delle cariche seppure secondo una formulazione irriducibile all’esperienza ateniese così come si può desumere dalla sua Repubblica di Oceana. A sua volta Montesquieu – attento lettore di Machiavelli ed Harrington – è ancora più netto indicando ne L’Esprit des lois la natura costitutivamente democratica dell’estrazione a sorte ed aristocratica delle elezioni, assumendo entrambe come “leggi fondamentali” della repubblica. Se l’estrazione previene l’invidia e conferisce ad ogni cittadino “una probabilità ragionevole di esercitare una funzione pubblica” (82), tuttavia Montesquieu ritiene che il popolo sia in grado di scegliere spontaneamente una guida autorevole che di volta in volta sembra corrispondere ad una combinazione di virtù e status sociale. Difficile non prendere atto della congiunzione elezioni-governo dei migliori, seppure non ancora adeguatamente concettualizzata. In Rousseau assistiamo allo stesso tipo di identificazioni. Tuttavia nel Contratto sociale, definito il popolo come sovrano che agisce per mezzo di leggi di carattere universale ed il governo come sua emanazione esecutiva a cui sono assegnate competenze di carattere particolare, ed identificata l’allocazione delle magistrature come misura particolare, l’estrazione a sorte è preferibile alle elezioni in quanto consente di prendere decisioni senza che interferiscano volizioni particolari, dunque attenuando forme di “corruzione”. Infatti per Rousseau non è opportuno che il legislatore applichi le leggi. Esso si configura innanzitutto come sovrano a cui, pertanto, verrà riconosciuto “il minor numero possibile di occasioni per prendere decisioni particolari in qualità di governo” (86). Conseguentemente le elezioni sono adatte all’aristocrazia in cui la differenziazione tra potere legislativo ed esecutivo è sostanziale. In questo caso è necessario che le regole delle elezioni rimangano in mano a chi detiene la sovranità per evitare di cadere in un’aristocrazia ereditaria. Diversamente, la possibilità di “un uso politico delle differenze di talento e merito” (88) – proprietà intrinseche ad una aristocrazia elettiva – non funzionerebbero adeguatamente.
A questo punto come spiegare l’assordante silenzio – salvo rare eccezioni – sull’estrazione a sorte proprio da parte di quei regimi sorti dalle tre rivoluzioni moderne che proclamarono l’eguaglianza dei cittadini? La risposta di Manin è netta: assistiamo ad un cambio di priorità. A ben vedere ad un mutamento di paradigma. Non è più la distribuzione egualitaria delle cariche la principale preoccupazione, bensì il focus diventa la critica del principio di legittimazione del potere. Il consenso di coloro su cui si esercita un potere assurge ad elemento essenziale per il riconoscimento di ogni potere legittimo.
È innanzitutto contro il carattere ereditario dei regimi assolutisti che si attua una differenziazione/contrapposizione valorizzando l’aspetto consensuale alla base dei nuovi sistemi politici. Dimensione, quest’ultima, in alcun modo rinvenibile nella pratica dell’estrazione a sorte la cui percezione subisce un’alterazione profonda. Non sono dunque aspetti esterni come l’estensione territoriale e demografica a produrre l’affermazione delle elezioni a scapito del sorteggio. Semmai quest’ultimo viene depotenziato in termini di (riduzione delle) probabilità di redistribuzione delle cariche tra tutti i cittadini, tuttavia le elezioni restringono ulteriormente tale campo di possibilità instaurando un principio di distinzione tra rappresentati e rappresentanti. Di più: nel momento in cui “venne istituito il governo rappresentativo la tradizione medioevale e le teorie moderne del diritto naturale confluirono a rendere il consenso dei governanti l’unica fonte della legittimità e dell’obbligo politico” (102).
Il dovere di classificare gli eletti come portatori di un surplus – congiuntamente o alternativamente in termini di ricchezza, talento, virtù – è sottolineato con forza nei sistemi rappresentativi post-rivoluzionari. La definizione di misure che rendessero effettiva la differenziazione (assoluta ed ancor più relativa) tra eletti ed elettori ha assunto forme diverse nelle principali configurazioni storico-politiche, e non è certo imputabile alla sola restrizione del suffragio.
In Inghilterra il clima culturale – risultato di un processo egemonico sin troppo evidente – è connotato da un forte riconoscimento della posizione sociale e del prestigio. Tanto che – ricorda Manin citando Kishlansky – all’ampliarsi dell’elettorato “diventavano più ristretti i gruppi sociali di coloro che erano eletti” (Kishlansky 1986, pp. 122-123). Se, congiuntamente a questo, si ricorda il costo delle campagne elettorali, se ne deduce un meccanismo restrittivo di selezione (in)naturale dei rappresentanti. Ad essi nel 1711 si affiancò l’introduzione di un requisito censitario legato alla proprietà fondiaria per i membri del Parlamento (approvato da un ministro tory), più alto rispetto a quello previsto per gli elettori. Il campo politicamente avverso – whig – lo giustificò in base alla maggiore indipendenza che avrebbe garantito dalla Corona.
In Francia l’estensione del suffragio fu sicuramente più elevato e variò considerevolmente, in particolare tra 1789 e il 1792. Tuttavia, anche in occasione dell’istituzione del suffragio “universale”, rimasero esclusi dall’elettorato attivo le donne, i servi e i senza fissa dimora. Soprattutto una marcata differenziazione avveniva sul lato dei potenziali eletti: anche in questo caso si richiedevano requisiti di natura censitaria (ad esempio pagare imposte pari ad un marco d’argento). Se il voto era un “diritto” la carica da ricoprire era una funzione che andava assolta in vista di ciò che si riteneva essere il bene comune. Il che implicava che fosse esercitata da persone qualificate. Le forti opposizioni a queste misure promulgate dall’Assemblea costituente sfociarono nell’abbandono dei requisiti censitari sostituiti da un meccanismo di elezione indiretta in due stadi (a dire il vero le differenze di censo vennero posposte al secondo stadio) che di fatto permetteva di raggiungere lo stesso risultato: eleggere persone (considerate) competenti appartenenti alle classi agiate…con un’evidente “epurazione della democrazia” (Guéniffey 1993, 41).
Infine Manin si sofferma ampiamente sul caso americano, ritenendolo paradigmatico per delineare il principio di distinzione. La mancata definizione di una soglia significativa durante la Convenzione di Filadelfia per quanto concerne, in particolar modo, l’elettorato passivo, demandata ad una regolazione dei singoli Stati federati, non significa che all’interno della Convenzione non vi fosse stata una discussione in merito, né che vi fosse ostilità per il principio di distinzione: il riconoscimento del diritto di proprietà – “visto da tutti i delegati come uno dei diritti più importanti [la cui] tutela era uno degli scopi preminenti del governo” (118) – ne è una testimonianza indiretta. Ciò su cui i delegati non trovarono un accordo fu un limite uniforme in ambito federale. Si trattò, dunque, di un risultato “non intenzionale” che spostava la problematica ad un livello inferiore, il cui carattere “eccezionalmente egualitario” pare “dovuto più alla geografia che alla filosofia” (119). Un altro provvedimento che emerse fu la scelta per una Camera dei rappresentanti che rimanesse in carica per non più di due anni e soprattutto la sua composizione ridotta in termini numerici.
La discussione in sede di rettifica su quanto deciso durante la Convenzione si concentrò sulla misura della rappresentanza (e conseguentemente sulla sua qualità). Non si trattava di un problema meramente tecnico e le posizioni contrapposte di antifederalisti e federalisti lo testimoniano in modo particolare. I primi denunciarono la scarsa proporzionalità della rappresentanza delineata dalla Costituzione. Essa non avrebbe garantito un’adeguata somiglianza tra eletti ed elettori, imperniata sulla concezione della rappresentanza come “teoria del mandato (imperativo)”: i rappresentanti devono rispecchiare le opinioni dei loro elettori e come tali devono condividerne sentimenti, costumi, atteggiamenti. Tuttavia non era in questione il mancato rispetto delle istruzioni da parte dei rappresentanti – che come tale sarebbe stato garantito spontaneamente – ma la mancata somiglianza con i primi. Da qui la necessità di istituire un’assemblea numerosa. Eppure non tutte le classi dovevano essere rappresentate, solo le principali componenti – il cuore di quella che chiameremmo middle class – per evitare il più che probabile sovradimensionamento delle classi più ricche e dotate di risorse reputazionali. Diversamente si sarebbe imposta una limitazione delle possibilità di votare i propri simili.
In queste tesi è evidente un’ostilità nei confronti dell’aristocrazia naturale tuttavia disgiunta da una concezione tout court egualitarista. Rispetto ad essi uno dei principali esponenti federalisti – James Madison – rilevava (con una soluzione retorica indubbiamente efficace) una carente fiducia nei confronti delle capacità del popolo di scegliere chi meglio li avrebbe rappresentati, mettendo in risalto come la selezione di persone sagge e virtuose fosse la prerogativa del perseguimento del bene comune. Di più: la differenza di un governo repubblicano da uno democratico consiste proprio nella delega “a un piccolo gruppo di cittadini alti” (Madison 1997, 194-195) considerato un corpo scelto. Essi sarebbero stati incentivati a perseguire il bene comune attraverso una serie di “vincoli, sanzioni e ricompense” (131), in particolare attraverso il giudizio (ex post) esercitato dagli elettori in tornate elettorali periodiche. D’altronde, un esponente federalista più attento alle virtù “democratiche” della Costituzione come James Wilson, saldava l’auspicabile differenziazione tra governanti e governati con il riconoscimento della sovranità popolare e dunque l’irriducibilità del sistema rappresentativo ad un governo aristocratico inteso in senso stretto.
Tuttavia, come era chiaro ai contendenti, a produrre l’effetto aristocratico avrebbe contribuito in misura decisiva un aspetto tecnico: l’ampiezza dei collegi elettorali. Al crescere della loro estensione corrispondeva la selezione di persone giudicate eminenti, rispettabili, soprattutto conosciute. Perlopiù appartenenti alle classi agiate e quindi capaci di orientare il consenso su di esse, essendo dotate delle risorse necessarie per farlo. Sotto questo profilo se è vero che in astratto non si può mettere sullo stesso piano l’esistenza di requisiti censitari e l’opzione per collegi elettorali ampi (in un contesto di marcate differenze socioeconomiche), in quanto questi ultimi produrrebbero l’effetto aristocratico solo il più delle volte e non sempre, è difficile non concludere che si tratti – nel contesto analizzato – di differenze di grado interne alla medesima problematica. Inoltre, nell’evidente correlazione tra la possibilità che il popolo elegga chiunque e la tendenza a scegliere persone dotate di proprietà e rispettabilità, secondo Manin non si configurerebbe una forma di manipolazione ideologica (intenzionale), tuttavia, come si è tornato a riflettere anche recentemente, si sottovaluta quanto un processo ideologico sia innanzitutto in-cosciente, realtà strutturata e strutturante (Raimondi 2011). D’altronde è lo stesso Manin ad indicare come “la storia del mondo occidentale potrebbe essere letta come l’avanzare del principio della divisione del lavoro” (145) rilevando come il dibattito tra federalisti ed antifederalisti mettesse in luce una diversa idea di rappresentanza e l’affermazione di un tipo di governo rappresentativo. Come non riconoscere in ciò una correlazione, complessa, tra il modo di produzione capitalistico e la pratica politica sub specie statuale? È infine indicativo che Manin si soffermi sull’impossibilità di identificare la verità della politica sia con il lato ordinario (corrispondente a “il più delle volte”), sia con l’eccezione rivoluzionaria seguendo le indicazioni del Secondo trattato sul governo di John Locke. Come se fosse possibile leggerne le dinamiche da una posizione esterna circoscrivendo la sfera politica al rapporto tra governati e governanti, al consenso generalmente stabile attorno alle istituzioni che verrebbe meno – creando un rivolgimento – con il superamento di un punto di non ritorno in seguito all’accumulazione di abusi e prevaricazioni nei confronti del popolo. In entrambi i casi la centralità dell’azione (o non azione) dei governanti sembra rimanere inalterata.
L’affermazione dell’aristocrazia democratica: un’irresistibile ascesa?
L’esito del dibattito americano sulla rettifica della Costituzione ha posto in luce, secondo Manin, il carattere aristocratico delle elezioni. Lo ha fatto tratteggiando un’aristocrazia sui generis scissa definitivamente da ogni ancoraggio ereditario o legittimata su basi giuridicamente differenziali. Per capire la natura aristocratica delle elezioni è necessario muoversi su un piano astratto, anteponendo “deduzioni trascendentali” il più possibile scevre da “assunti basati sull’esperienza” (150) ed evidenziare gli effetti propriamente inegualitari. Manin ne isola almeno quattro:
1 le preferenze discrezionali dei votanti rispetto ai candidati. Questi ultimi saranno necessariamente trattati in modo differente in base alle caratteristiche individuali che incarnano e senza che sia possibile stabilire un parametro oggettivo di giudizio (ad es. basato sul merito);
2 la distinzione dei candidati è una richiesta indotta dalla situazione di scelta. La scelta di un candidato è determinata dalla percezione che esso sia portatore di una caratteristica ritenuta positiva non presente (o rinvenibile in misura meno significativa) in altri candidati. Tale aspetto rappresenta un surplus anche nei confronti degli stessi votanti, dato che “un sistema elettivo porta all’autoselezione e alla selezione di candidati che si ritiene abbiano un di più, lungo una qualche dimensione, rispetto al resto della popolazione e quindi dei votanti”. Non a caso – ricorda Manin – “elezione ed èlite hanno la stessa etimologia” e “lo stesso aggettivo” (eletto) denota “una persona che si distingue e una persona che è stata scelta” (155). La possibilità di scegliere persone che rassomiglino ai votanti è invece ritenuta inefficace perché i votanti “non [sarebbero] in grado di scegliere fra le molte persone che condividono una qualità diffusa” (156). Se ne deduce che le elezioni sono inevitabilmente una scelta tra persone prima che tra programmi alternativi. Questi ultimi, in effetti, “non sono giuridicamente vincolanti”. La conclusione di Manin è perentoria: “al cuore del processo elettorale c’è una forza che contrasta il desiderio di similarità tra governanti e governati” (157-158);
3 il tratto distintivo della salienza è un vincolo cognitivo ineludibile. Per quanto la salienza non ricalchi tratti universalmente determinati, il suo grado di variabilità non altera il fatto che essa agisca “come un vincolo sia sui votanti che sui candidati potenziali” (159), risultando discriminante in quanto non può essere saliente chiunque in un determinato contesto;
4 i costi di diffusione dell’informazione. È evidente che chi dispone di maggiori risorse ha una capacità di penetrazione più forte nell’elettorato (altra questione è la qualità e l’efficacia dell’informazione promossa). Tuttavia, come ricorda Manin, rispetto ai tre effetti sopra elencati, il gap inerente alle spese elettorali potrebbe essere annullato con una rigida regolamentazione prevedendo finanziamenti pubblici per le campagne elettorali. Tema decisamente impopolare…
La superiorità degli eletti è dunque definita su due dimensioni: a) il riconoscimento di un tratto rilevante nei rappresentanti (non della personalità in quanto tale); b) il carattere percettivo di tale superiorità modulato sui valori dominanti in un determinato contesto culturale, senza che ciò sia misurabile con criteri razionali e universali. In altri termini il principio elettivo non garantisce che siano selezionati i “veri” áristoi individuabili sulla base di una misurazione, per quanto approssimativa, di carattere “oggettivo”, né che essi corrispondano all’élite designata da Vilfredo Pareto nel Trattato di sociologia generale: non è garantito che gli eletti siano coloro che sono classificati “ai livelli più alti di “capacità” nella loro sfera d’attività” (Pareto 1964, 163). È invece vero, secondo Manin, che tramite le elezioni si “selezionano superiorità percepite e differenze reali” (165). E, tuttavia, i caratteri aristocratico-inegualitari coesistono indissolubilmente con aspetti democratico-egualitari. La possibilità per tutti i cittadini di votare ed essere eletti ne rappresenta la declinazione prioritaria. In definitiva le elezioni “sono allo stesso tempo inevitabilmente egualitarie e inegualitarie, aristocratiche e democratiche” (166), tendenza che secondo Manin tra i teorici politici moderni sarebbe stata evidenziata solo da Carl Schmitt (Schmitt 1984). È proprio l’intreccio indissolubile tra elementi democratici ed aristocratici – “la combinazione di elezioni e suffragio universale” (171) – che secondo Manin ha alimentato la fortuna del sistema rappresentativo. Tale connessione attualizza un “punto di equilibrio” mobile e sembra accordarsi con l’elogio aristotelico della costituzione mista nella misura in cui la presenza di elementi divergenti e convergenti produce un consenso attivo delle parti che si riconoscono nelle due tendenze (cittadini “ordinari” ed élite). Tuttavia come si accorda la concezione moderna del diritto naturale, che postula l’impossibilità per un individuo di governare su un altro individuo in base alle sue qualità naturali, essendo essenziale un consenso libero di colui su cui si esercita un potere, e l’effetto aristocratico osservabile nelle elezioni per cui i governanti selezionati appartengono solo a certe categorie del popolo? Non ci troviamo di fronte ad un consenso alterato, se non manipolato? Manin evidenzia che l’opzione elettorale per persone con tratti salienti non annulla la libertà di scelta, pur limitandola. Non essendo fissato una volta per sempre un criterio di superiorità ed essendo, quest’ultimo, il risultato di una percezione di per sé fluttuante e non rivolta esclusivamente ad alcune categorie sociali, i postulati del diritto naturale moderno convivono con i vincoli della scelta orientata su criteri distintivi. Tutto ciò è vero – precisa Manin – solo se l’individuazione dei tratti di superiorità è il prodotto di una libera scelta dell’elettorato (relativamente indipendente da condizionamenti e trasformazioni socio-economiche e tecnologiche) e se le condizioni che presiedono alle elezioni implicano un riequilibrio delle risorse economiche nelle campagne elettorali che neutralizzi la posizione privilegiata delle classi agiate. È evidente che si tratta di un’affermazione che non avalla lo status quo, richiedendo cambiamenti sostanziali. Semmai ci si può chiedere quanto possa essere davvero “autonomo” il grado di autoconsapevolezza dell’elettorato nell’effettuare una scelta deliberata; quanto, oltre ad essere soggetto alle trasformazioni tecnologiche, sia sempre preso non solo in dinamiche socio-economiche ma anche culturali e affettive. In definitiva dovremmo chiederci quanto possa essere davvero “razionale” la sua scelta e quanto corrisponda in realtà a questa figura – in particolare in una congiuntura come quella attuale – una soggettività disincarnata, atomizzata, e, tutto sommato, se osservata da una determinata prospettiva, tendenzialmente in-politica. Se politica significa, innanzitutto, riattivare l’aspetto polemico, la parzialità dell’essere-in-comune, la rottura del carattere asimmetrico dei poteri con il riconoscimento di nuovi “soggetti” e il contestuale tentativo di ripartire gli spazi di pubblico e privato (Rancière 2007a) o, ancora, sottolineare il carattere agonistico del processo democratico sorretto da processi egemonici collettivi (Mouffe 2007), l’idea di una scelta libera, pur entro certi limiti, imputata ad un elettorato “fluido”, rinvia ad una concezione della politica come azione/reazione “razionale”, trasparente, comunicabile (quasi) senza residui in una sfera delimitata, con attori che diventano spettatori, per quanto informati, il cui ruolo si esaurisce, ex ante, nel conferimento di una delega (a ben vedere nella forma di approvazione), ed ex post, nell’esercizio di un verdetto. In questo modello se gli effetti di una pubblica opinione “libera” sono un elemento mai addomesticabile, ed anzi uno stimolo per “controllare” i governanti, sembra che essi funzionino più come rimodulazione dell’offerta politica, senza tuttavia riformulare significativamente il decision making in un’ottica di riduzione della separazione tra governati e governanti. Il conflitto diventa un elemento di rappresentazione più che una pratica effettiva, di fatto decentrato rispetto alla rilevanza assunta dalle condizioni della scelta e all’auspicata eventualità che possa esercitarsi in modo chiaro e distinto. Un modello, tra l’altro, che privilegiando la capacità di rispondere agli stimoli “esterni” si muove su un piano diverso rispetto ad “un esercizio pubblico dell’intelligenza” (Cavazzini 2008, 30-31) correlato a quel che Etienne Balibar ha definito “rischio dell’intelligenza” affinché si sia, riassumendo alcune proposizioni dell’Etica spinoziana (V, 5-10), “il più numerosi possibile a pensare il più possibile” (Balibar 1996, 129).
Sotto questo profilo la stessa posizione schumpeteriana sul carattere elitario delle elezioni riducendo la democrazia ad una competizione per ottenere i voti degli elettori (Schumpeter 1962, 257) e, di fatto, collocando l’esercizio del potere nei rappresentanti, restringe sensibilmente l’estensione del “campo politico” (Bourdieu 1988) con l’intento di eliminare ogni perturbazione esterna indesiderata. Manin, pur criticando il riduzionismo di Schumpeter, desume dalle sue tesi un problema reale: quale legame si istituisce “fra le decisioni di quelli che governano e le preferenze politiche dell’elettorato?” (180). Scartata storicamente, per incompatibilità strutturale, l’ipotesi di mandati imperativi e revocabilità discrezionale dei rappresentanti – le innovazioni apportate dalla Comune parigina, esaltate da Marx ne La guerra civile in Francia, sono semplicemente descritte in termini di “vita breve” (183) – lo studioso francese, oltre all’effetto aristocratico, evidenzia un’altra caratteristica essenziale dei sistemi rappresentativi: la parziale indipendenza degli eletti. Essi sono qualitativamente diversi dagli elettori ed anche nelle condizioni di non dover dare attuazione ai loro desideri. Ovviamente sarà interesse dei rappresentanti trovare una qualche congruenza tra le due polarità, tuttavia possono posporre la loro rielezione ad altre priorità. Ciò che il popolo può, ed anzi è auspicabile che faccia, è “formarsi ed esprimere delle opinioni politiche sottratte al controllo del governo” (185). Innanzitutto attraverso un libero accesso all’informazione e alle decisioni dei governi, nonché tramite la possibilità di esprimere le proprie posizioni in ogni circostanza e non solo in occasione delle elezioni. L’esercizio di una libertà di opinione come “libertà negativa” – ricorda Manin citando Isaiah Berlin – è strettamente correlato con l’affermazione della libertà religiosa come protezione della “sfera delle convinzioni intime dalle interferenze dello stato” – il I emendamento della costituzione statunitense ne è un esempio di codificazione –, ed è la diretta conseguenza del vuoto di libertà positiva intesa nei termini di “conferimento ai cittadini del controllo sul governo” (187). Tuttavia la declinazione della libertà d’opinione aggregata intorno ad una presa di parola collettiva nei confronti del potere politico – che avvenga con la sottoscrizione di petizioni o tramite manifestazioni – ne riformula i caratteri in termini non meramente negativi. Vi è la possibilità di incidere sull’azione di governo, di prevedere un sistema di partecipazione democratica in cui si “moltiplica[no] i meccanismi che permettono ai cittadini di avere un impatto sulle decisioni collettive” (Manin 2010a). Proprio per questo, secondo Manin, la libertà d’opinione, strettamente connessa al sistema rappresentativo, “intesa nella sua dimensione politica, appare […] una contropartita dell’assenza del diritto di dare istruzioni” (189). Essa non è solo una forma relazionale orientata verso l’alto. È anche un modo per tessere, contestualmente, legami orizzontali tra i governati. Ne risulta la centralità della nozione di opinione pubblica in questa ricostruzione operata da Manin dei tratti essenziali dei sistemi rappresentativi. Il suo statuto incerto, mobile, politicamente orientato e orientabile – si pensi alla “provocazione” di Pierre Bourdieu sul carattere artificioso dell’opinione pubblica ridotta a opinione sondata (Bourdieu 1973; Bourdieu 1983, 399-454) –, non impedisce all’autore di porne in risalto l’incidenza ed il carattere di misurazione a cui può essere sottoposta attraverso strumenti come i sondaggi, la cui affermazione come fabrique de l’opinion, storicamente, è legata all’individualismo metodologico dominante nelle scienze sociali ed economiche (Blondiaux 1998). All’accusa di parzialità di questi ultimi segue il riconoscimento di Manin della parzialità insita alle petizioni così come alle dimostrazioni, tanto che “non c’è alcuna ragione di considerare i sondaggi più manipolatori degli inviti a dimostrare o a firmare petizioni” (192). In ogni caso l’opinione pubblica, considerata come “voce collettiva del popolo”, per quanto non vincolante nella pluralità di azioni che mette in campo, è irriducibile al controllo governativo ed esclude un’assimilazione tra governo rappresentativo e “rappresentanza assoluta” secondo la formulazione hobbesiana. Pertanto Manin può concludere che “i rappresentanti non possono mai affermare con piena fiducia e certezza “noi siamo il popolo” [e nel contempo che] “sia l’autogoverno del popolo, sia la rappresentanza assoluta hanno come effetto l’abolizione della distanza fra coloro che governano e coloro che sono governati” (193-194).
A suo volta il carattere periodico delle elezioni mette in risalto ciò che sfugge a Schumpeter: la possibilità di esercitare un controllo retrospettivo sugli eletti (in caso di rielezione), ossia “la capacità effettiva di liquidare i governanti le cui politiche non incontrano la loro approvazione” (196). O meglio: a rendere i governi “responsabili” è l’intreccio tra il sistema di incentivi che porta gli eletti a tener conto dei desiderata dei votanti e “il giudizio retrospettivo che i votanti stessi emetteranno” (198-199) sul loro operato. Inoltre, se in un sistema rappresentativo c’è sicuramente una preminenza del momento della negazione (non rieleggere chi ha deluso le aspettative) rispetto al carattere affermativo (optare per una determinata proposta politica) del voto, non è affatto scontato quanto effettivamente conterà in sede di elezione un giudizio retrospettivo. In effetti, per potersi configurare adeguatamente ed essere operativo esso necessità: 1) dell’individuazione certa delle responsabilità di governo; 2) della possibilità di estromettere effettivamente gli inadempienti; 3) della limitazione della disparità di risorse tra i candidati. Se si sottolinea, come puntualmente osserva Manin, che questo sistema “lascia gran parte dell’iniziativa a coloro che sono al governo” (201) è difficile non concludere sull’effettiva capacità popolare di incidere sulle politiche pubbliche solo ex post. Ed è lo stesso Manin a dichiarare effettivamente democratico (sovrano) il verdetto del popolo se rivolto verso il passato e non democratico se orientato al futuro, da cui il paradosso che “il modo migliore per influenzare il futuro, per gli elettori, consiste nel guardare al passato” (203).
Correlandola a quest’ultima argomentazione Manin prova a decostruire l’immagine del sistema rappresentativo inteso prioritariamente come “governo tramite la discussione”, nonché la natura veritativa delle decisioni che emergerebbero dal confronto. Per quanto non assente in diversi autori, la discussione si configura come elemento secondario, in particolare se raffrontato con le definizioni che ne diedero “i padri fondatori americani e i costituenti francesi del 1789-91” (204), affermatosi nelle riflessioni del XIX secolo. Inoltre il trait d’union tra rappresentanza e discussione trova il suo punto di congiunzione nell’autorità di un’istituzione di natura collettiva. È all’interno dell’assemblea che la libertà di parola dei rappresentanti è garantita in modo assoluto. Tuttavia, diversamente dalla lettura schmittiana, il confronto delle opinioni non ha come substrato “il principio del governo della verità”. Il dibattito non “è il mezzo più appropriato per determinare la verità” (205). È invece l’irriducibile eterogeneità sociale a fare del dibattito uno strumento in seno ai rappresentanti per raggiungere un accordo. Senza la produzione di consenso non vi è la possibilità di prendere decisioni. In questi termini il consenso diventa anche la misura, per quanto parziale, dell’interesse generale. Lo afferma chiaramente Sieyès: “l’interesse generale è quell’interesse particolare che si trova a essere comune alla maggior parte dei votanti” (citato da Manin 2010a, 208). È dunque il consenso della maggioranza che rende possibile decidere, non un improbabile consenso universale, né tanto meno ci troviamo di fronte all’”espressione di una qualche verità” (209).
Il ruolo della discussione assembleare risulta ancor più limitato se si pensa agli ambiti in cui, di fatto, si formano le proposte legislative. Se ciò avviene all’interno dei parlamenti è perlopiù compito di commissioni ristrette, diversamente, la progettazione legislativa può essere concepita anche all’esterno. Su quest’aspetto Manin è piuttosto netto: “il principio del governo rappresentativo non determina quale debba essere l’origine delle proposte da discutere all’assemblea: esse possono provenire da qualsiasi parte” (210). Al confronto assembleare spetta un ruolo di riconoscimento del progetto normativo proposto. Non è pensabile progettare un intervento legislativo senza considerare gli elementi che lo renderanno giustificabile e dunque approvabile da una maggioranza. Il dibattito avviene a questo livello, tanto da funzionare “da schermo o da filtro” per cui “ogni cosa [non deve] avere origine nel dibattito, ma […] ogni cosa deve essere giustificata nel corso del dibattito” (211). Dunque se la discussione è finalizzata “a produrre consenso”, ad articolare una dialettica maggioranza-minoranza, partendo da una situazione in cui nessuna volontà individuale in quanto tale è autorizzata ad imporsi su altre, è difficile non concludere su qual è il ruolo principale, ad un tempo, dell’organo assembleare e dei cittadini: l’espressione di un giudizio. La legittimazione ex ante ed ex post sugli esiti del processo normativo innescato (se non completamente programmato) in sedi ristrette, anche extra-assembleari; il verdetto del popolo come giudizio ex post, retrospettivo, esercitato nel corso delle elezioni. La distanza, sottolinea Manin, “sia dal senso comune sia dall’ideologia democratica” è evidente e non ammette altre conclusioni: “la democrazia rappresentativa non è una forma indiretta di governo da parte del popolo” (212).
Mutamento e continuità: dal “parlamentarismo liberale” alla “democrazia del pubblico”
L’ultimo denso capitolo del testo di Manin è dedicato alle metamorfosi del governo rappresentativo (216-260). I fenomeni denominati crisi della rappresentanza e tout court della democrazia sono letti dall’autore assumendo come punto d’osservazione i mutamenti e le costanti che informerebbero il sistema rappresentativo. Dall’affermazione del “parlamentarismo liberale” all’attuale fase egemonizzata dalla “democrazia del pubblico” Manin sostiene – come avevamo già indicato in premessa – che i quattro principi su cui si regge un governo rappresentativo (indipendenza relativa degli eletti, elezioni ad intervalli regolari, libertà dell’opinione pubblica, sottomissione delle decisioni pubbliche alla prova del dibattito), pur subendo delle evidenti trasformazioni, “non hanno mai smesso di essere validi” (219). Su queste basi ciò che sarebbe entrato effettivamente in crisi è il tipo di rappresentanza imperniata sui partiti di massa, così come il tipo di rapporto tra eletti ed elettori proprio dell’epoca “liberal-parlamentare” entrò in crisi con l’avvento della “democrazia dei partiti”. In definitiva, il processo di avvicinamento – dunque di somiglianza – tra rappresentanti e i rappresentati, mediato dai partiti, era stato assunto come un progresso irreversibile “verso la democrazia” (218). Il logoramento delle organizzazioni di massa e gli annessi processi di personalizzazione della politica metterebbero invece in luce più di un tratto comune tra la logica liberal-parlamentare e quella attualmente dominante, nonché – secondo Alfio Mastropaolo – il passaggio ad una concezione “postdemocratica“ della democrazia con la rivalutazione delle tesi schumpeteriane, a scapito di quelle kelseniane, in cui le teorie della rational choice e della political science americana giocarono un ruolo rilevante (Mastropaolo 2011, 116-151). Per coglierne la portata Manin propone di utilizzare le succitate forme di governo rappresentativo come idealtipi – in modo volutamente schematico e non esaustivo (prescindendo ad esempio dall’allargamento del suffragio) – e “permettere un confronto fra le forme assunte dai quattro principi chiave della rappresentanza in ciascuno dei casi” (225).
È interessante notare come Manin proponga di ridefinire il principio della discussione pubblica per renderlo storicamente operativo, evidentemente il più elusivo e difficile da identificare, per di più se si ricorda il mancato approfondimento di tale nozione ad opera dei primi difensori del governo rappresentativo. Esso viene riformulato in questi termini: “un tipo di comunicazione in cui almeno una delle parti a) cerca di produrre un cambiamento nella posizione dell’altra parte, e b) lo fa usando proposte che sono impersonali o che si riferiscono al futuro a lungo termine”. (220). In sintesi una combinazione di persuasione e discussione razionale o argomentativa (con i limiti del caso), che Manin ci tiene a distinguere sia da pratiche come il mercanteggiamento, sia dalla “categoria impegnativa di discussione disinteressata” (221), per quanto labili siano i confini semantici. Il passaggio in rassegna dei mutamenti intervenuti nel sistema rappresentativo permette di isolare alcuni punti fermi.
Il “parlamentarismo liberale” mette in evidenza il carattere di fiducia, in buona misura pre-politico, del rapporto rappresentanti-rappresentati. È la personalità degli eletti che “ispira fiducia” in una condizione di prossimità sociale e territoriale, di condivisione geografica e di “interessi”. È per questo che gli elettori li scelgono. Per cui “le elezioni selezionano un particolare tipo di élite: i notabili” (225-226). Ogni eletto si esprimerà in base alle proprie convinzioni. Non essendo il portavoce degli elettori, è il loro “fiduciario”. Non deve attuare un programma precedentemente concordato, tantomeno all’interno di un partito. La stessa libertà dell’opinione pubblica registrava una forte divergenza rispetto alla dinamica elettorale: il carattere trasversale di alcune issues rispetto alla di per sé “debole” dialettica partitica e, soprattutto, il prevalere di un rapporto fiduciario tra rappresentanti e rappresentati induceva una politicizzazione necessariamente esterna al parlamento che doveva servire da stimolo e controllo rispetto all’operato del governo e che tuttavia poteva sfociare in fenomeni di disordine pubblico e veri e propri rivolgimenti. Per quanto concerne la prova della discussione il parlamentarismo ne incarna in qualche modo l’archetipo: l’indipendenza degli eletti dagli elettori garantiva che le posizioni di volta in volta assunte fossero il risultato di uno scambio di argomentazioni su cui venivano a formarsi maggioranze e minoranze, tanto che Manin può chiosare: “la libertà del rappresentante eletto si può scorgere nel fatto che le partizioni e i raggruppamenti cambiavano in continuazione” (229).
La democrazia dei partiti pone in risalto la rottura con i legami fiduciari tra eletti ed elettori, incorsi anche in seguito all’allargamento del suffragio. I rappresentanti sono tali in quanto appartenenti ad un partito portatore di un determinato programma. L’erosione della “risorsa notabiliare” ed il tendenziale avvicinamento tra eletti ed elettori, dovuto all’affermazione dei partiti di massa articolati prioritariamente sul cleavage di classe, tuttavia, pur evidenziando innegabili aspetti di mobilità sociale, secondo Manin, che recupera l’analisi michelsiana sull’incolmabile distanza che verrebbe ad imporsi tra dirigenti e base in seno ai partiti di orientamento socialdemocratico – la comune provenienza di classe è annullata dall’affermarsi di un principio di vita piccolo-borghese tra i dirigenti – mette in rilevo, da un lato, il ricambio del tipo di élite al potere, dall’altro, le risorse necessarie per accedervi, ovvero “l’attivismo e le capacità organizzative” (230). In sintesi l’influenza dei fattori economici (a ben vedere letta in termini sin troppo semplici), che impongono che “le contrapposizioni elettorali riflett[a]no le divisioni fra classi”, particolarmente rilevante “nei paesi in cui uno dei partiti maggiori è stato […] considerato come l’espressione della classe lavoratrice” (232), stabilizzando tendenzialmente le preferenze elettorali, inducono una selezione dei rappresentanti interna ai partiti. Legittimata ex post tramite le elezioni. L’esito era la configurazione della democrazia come “governo dell’attivista e del burocrate” (231), mentre per quanto concerne la natura del pluralismo – elemento imprescindibile del sistema rappresentativo –, esso veniva rimodulato nella trasposizione elettorale di un conflitto sociale permanente segnato da tratti identitari. La centralità dei programmi e la socializzazione operata dall’organizzazione partitica tuttavia, secondo Manin, non sono gli elementi essenziali per la scelta degli eletti. Essi si limitano a mobilitare l’entusiasmo dei sostenitori. È l’aspetto propagandistico, da un lato, e l’appartenenza ad una parte, dall’altro, con i relativi processi di identificazione, ad alimentare il rapporto fiduciario. Quest’ultimo, condensato nelle elezioni, non scomparirebbe ma investirebbe un nuovo oggetto: non più una persona, bensì un partito.
Rispetto al rapporto rappresentanti-rappresentati continua a permanere una parziale autonomia dei primi, seppure con slittamenti all’interno della struttura istituzionale e secondo una logica performativa mutata. Se all’interno dei partiti di massa, in particolare di orientamento socialista, l’eletto in parlamento diventa, secondo la formulazione kautskyana, “un delegato del suo partito”, la cui autonomia è rimessa alle strategie dell’organizzazione d’appartenenza, il decison making si sposta all’interno della dirigenza partitica che avrà il compito di dire quanta e quale parte del programma può essere attuata. Perché il presupposto da cui muove la democrazia dei partiti – ricorda Manin riferendosi ad Hans Kelsen (Kelsen 1981) – è la necessità di giungere ad un compromesso deliberato tra identità altrimenti inconciliabili e potenzialmente negatrici l’una dell’altra. Da ciò segue che il margine di autonomia riconosciuto ai partiti corrisponde alla “libertà di non implementare tutti i loro piani una volta che sono in carica” (237). Sono i dirigenti di questi ultimi (di concerto con la rappresentanza parlamentare quando i ruoli non si sovrappongono) a definire “la misura” in cui il programma verrà attuato. La democrazia dei partiti, in questo senso, per Manin, non è dunque un governo indiretto del popolo, pur non essendo contemplata un’indipendenza parziale dei singoli rappresentanti che l’assimili alla logica notabiliare.
In questa particolare configurazione democratica si assiste invece ad una sovrapposizione tra schieramenti elettorali ed espressione dell’opinione pubblica. Non sembra esserci alcun resto significativo: l’azione dell’opinione pubblica è mediata dai partiti. Facendo propria la posizione di Moisey Ostrogorsky (Ostrogorsky 1903) sui partiti di massa come “partiti integrali”, per Manin non c’è più alcuna differenziazione di scopi tra l’elezione dei rappresentanti e l’espressione dell’opinione pubblica. Ciò che rimane immutato è il diverso status costituzionale. In altri termini “i cittadini comuni non possono parlare in prima persona” (240), ma possono manifestare il proprio dissenso nei confronti dei governanti attraverso i partiti d’opposizione. Sono questi ultimi a non essere “controllati”. Se ne desume che “la libertà d’opinione assume la forma della libertà di opposizione” (ibidem). Un’ulteriore conseguenza del modello in oggetto evidenzia che la discussione si condenserà negli scambi intrapartitici, in primis extraparlamentari. Non si voterà “alla luce delle argomentazioni scambiate in parlamento” (241). La deliberazione avviene prima ed altrove. In parlamento ogni partito discuterà quale linea collettiva tenere. Di più: se le elezioni in questo contesto servono a verificare/riflettere i rapporti di forza nella società, il compromesso tra le parti in conflitto – indefinibile ex ante – sarà il risultato di una negoziazione tra i partiti. In questo ambito, per Manin, la discussione ha un ruolo non marginale. Essa può anche essere istituzionalizzata generando un sistema di consultazione – il cosiddetto neocorporativismo – in cui convengono realtà organizzate come sindacati e associazioni datoriali.
La democrazia del pubblico mette in scena una prima frattura rispetto alla democrazia dei partiti: l’erosione della fedeltà elettorale disgiunta dalle condizioni sociali, economiche e culturali; al variare delle prime non corrisponde una mutazione del retroterra socioeconomico e culturale dei votanti. In tal senso potremmo osservare che la centralità assunta dall’offerta politico-elettorale si coniuga strettamente con una superfetazione dell’elemento percettivo propria di una fase dominata da nuove tipologie di comunicazione, ristrutturando l’immaginario dei singoli e riflettendo ed incentivando i processi di atomizzazione sociale. Non a caso per Manin torna (modificata) la centralità dell’elemento personale nella selezione della rappresentanza. Sono i tratti della personalità – di una personalità mediatizzata – in particolar modo dei leaders, a determinare le opzioni elettorali, amplificata a dismisura dai nuovi media. Cambia dunque il tipo di élite egemone con il sopraggiungere del “governo dell’esperto dei media” (245). Manin sostiene che la personalizzazione della politica è anche una risposta (necessaria?) alla maggiore complessità che si trova ad affrontare il governo rappresentativo. È una sorta di razionalizzazione flessibile rispetto alla difficoltà di implementare un programma (rigido in quanto prefissato) in un quadro in cui aumenta il grado di imprevedibilità. Da ciò seguirebbe la necessità di una maggiore discrezionalità che ha come indicatore principale il fatto che “per i candidati è razionale [corsivo mio] presentare le proprie qualità personali e la propria predisposizione a prendere buone decisioni piuttosto che legarsi le mani con promesse specifiche” (246). La personalizzazione della politica in una situazione di fluidità elettorale ha anche altre ricadute: gli elettori sembrano indotti a rispondere diversamente – in relazione al tipo di elezione, ma anche di offerta politica – piuttosto che esprimere un’identità definita. Inoltre, per tratteggiare e rendere appetibile il proprio profilo, ogni candidato deve differenziarsi. Per farlo deve puntare su alcune divisioni che secondo Manin sono sempre meno influenzate dalle fratture socioeconomiche e culturali tradizionali, che, pur non scomparendo, hanno perso la loro centralità. Anzi l’elettorato (dei paesi occidentali) “è capace di [darsi] diverse divisioni” (248), in un ambito in cui i processi di differenziazione crescono trasversalmente e mutano in continuazione così come, potremmo aggiungere, il trattamento sulla percezione degli stessi. Tuttavia, malgrado questa capacità, l’iniziativa politica sembra saldamente nelle mani dei candidati. Sono i politici a scegliere “le divisioni più efficaci e vantaggiose per loro” (ibidem), mentre “l’elettorato appare soprattutto come un pubblico [corsivo mio] che risponde ai termini che sono stati presentati nella scena politica” (ibidem). Ovviamente non sono del tutto autonomi in questa scelta. Sono vincolati dalla capacità di mobilitazione che riescono ad indurre. Inoltre, la maggiore autonomia ad essi riconosciuta rispetto alla “democrazia dei partiti”, li costringe a scegliere continuamente le divisioni giuste su cui investire nel mercato elettorale. Manin accetta solo parzialmente la metafora del mercato per tratteggiare il comportamento di voto. Essa ha un valore euristico sino a quando si limita a descrivere i politici come imprenditori, ma, riallacciandosi a Schumpeter, non si adatta alla descrizione dei votanti in termini di consumatori, in quanto le preferenze politiche non sono già formate. Tuttavia, per quanto Schumpeter descrivesse in termini di malfunzionamento il nesso democrazia-mercato (indicando rimedi decisamente non democratici) occorre ricordare che l’assimilazione della politica al mercato in termini neoutilitaristici è propria della successiva teoria della rational choise, da cui attingerà a piene mani il rapporto sullo stato delle democrazie della Trilateral Commission con l’intento di semplificare e rendere efficiente il processo democratico, in realtà svuotandone contenuti e legittimando forme di tecnocrazia (Rozier, Huntington, Watanuki 1977). Per Manin se “la domanda è esogena” (250) non può che essere il risultato dell’offerta politica. Per questo la metafora del pubblico e del palcoscenico, mettendo in risalto i caratteri “di distinzione e di indipendenza fra coloro che propongono i termini della scelta e coloro che compiono la scelta [elettorale] […] è più adeguata a rappresentare la realtà” (251).
Pubblico e palcoscenico sono termini strettamente correlati con ciò che rende dirimente la scelta di un candidato: l’”immagine”. Tuttavia Manin insiste sul fatto che ad essa non si possa contrapporre l’esistenza di una presunta “sostanza” che rimarrebbe mascherata. Di più: “i sondaggi di opinione dimostrano quanto le immagini che i votanti si formano non siano prive di contenuto politico” (252). In altrui termini un’opzione guidata dall’immagine non si oppone ad una effettuata sulla base della conoscenza sistematica di un programma. Il “processo di contraddittorio” innescato dalle campagne elettorali mette in concorrenza una serie di immagini che, per quanto piuttosto vaghe, non sarebbero “prive di contorni”, delineando “un sistema di differenze” – in termini di percezione – capace di orientare i consensi. La semplificazione di tali immagini è inoltre interpretata da Manin come una modalità necessaria per ridurre “la sproporzione fra i costi dell’informazione politica e l’influenza [che il singolo votante] può sperare di esercitare sul risultato delle elezioni” (253). Un rimedio rispetto alla progressiva disidentificazione tra partiti e classi, successiva all’epoca della “democrazia organizzata” (Mastropaolo 2011). I mezzi della comunicazione pubblica – secondo Manin – in questo ambito assumono un assetto specifico: in gran parte risultano “neutrali”, o meglio “strutturalmente [non] legati ai partiti” (ibidem). Su questo aspetto l’irriducibilità di parzialità e politicità ai partiti in lizza durante le elezioni è un elemento che non sembra interessare lo studioso di origine francese. Ciò che emergerebbe dall’avvento “dei media popolari e non di parte” è una percezione tendenzialmente uniforme delle informazioni fornite, a prescindere dalle preferenze politiche. Ciò non esclude che si formino opinioni contrastanti, dunque giudizi diversificati, che secondo Manin non riproducono necessariamente le divisioni elettorali. La maggiore neutralità dei mezzi d’informazione inoltre si correla con il carattere “non fazioso” degli istituti di sondaggio quali strumenti di espressione dell’opinione pubblica. Questi ultimi “operano in base alla struttura formale che caratterizza questa nuova forma di governo rappresentativo: palcoscenico e pubblico, iniziativa e reazione” (255). Pur ammettendo che si tratta di strumenti che costruiscono più che riflettere la volontà popolare, Manin riconosce ai sondaggi (e a chi li progetta/implementa) la capacità di produrre divisioni non previste dalla dialettica interpartitica su cui investire politicamente. Possibilità garantita dalla natura commerciale degli istituti di sondaggio e, pertanto, dall’indipendenza strutturale rispetto ai partiti. Tuttavia ci si potrebbe chiedere quanto sia in realtà inestricabile il rapporto tra media logic, politica e produzione di sondaggi, così come è legittimo avanzare più di un dubbio sul rapporto tra natura commerciale degli istituti di sondaggio e produzione di conoscenza (per quanto possibile) finalizzata a se stessa. Ad ogni modo lo studioso francese evidenzia che la costruzione dell’opinione pubblica passa dagli attivisti ai soggetti con una formazione in scienze sociali, e, contemporaneamente, registra l’abbassamento “dei costi dell’espressione politica individuale” e la facilitazione ad esprimerla senza rischi di violenza. In definitiva la “voce extraparlamentare del popolo è resa più pacifica e allo stesso tempo un fatto abituale” (256). È difficile cogliere in queste tesi – al di là della capacità descrittiva di rendere conto delle tendenze in atto – una problematizzazione dello strumento sondaggio, inteso in senso stretto e in particolare applicato alla politica. In primis il riduzionismo quantitativo che connota le tecniche che intendono far parlare il popolo (Champagne 2005). Se è vero che la critica che prende le mosse dalle posizioni di Bourdieu sembra scindere troppo nettamente ambito politico e costruzione di una scienza sociale rigorosa e, nel rilevare l’improbabile presenza di opinioni personali e consapevoli su determinati argomenti, a prescindere dai diversi livelli di capitale relazionale, dalla stratificazione sociale, ecc., le tesi del sociologo francese rischiano di indebolire il presupposto teorico egualitario della teoria democratica correlato al suffragio universale, pur insistendo sul terreno delle condizioni necessarie per rendere effettiva una pratica democratica. Ciò non toglie che le ripercussioni in termini di semplificazione ed uso politico dei sondaggi non rappresentino un problema, così come il mutamento indotto dall’applicazione della tecnologia sondaggio al fare politica, alla priorità assegnata alla rilevazione di pensieri-già-pensati-da-altri (risposte precodificate) delle “maggioranze silenziose” (in gran parte non mobilitate), per ottenerne il consenso, contrapposte alle minoranze attive. Nel contempo un possibile riorientamento dello strumento sondaggio lo si può cogliere in dispositivi come i sondaggi deliberativi, in cui si opera per ridurre il gap conoscitivo tra i partecipanti considerandoli soggetti attivi di un processo decisionale specifico (Fishkin 1997; Blondiaux 2002).
Manin, riconoscendo la centralità di un elettorato sempre più fluttuante – e l’affermazione di una porzione di elettori che fa un uso strumentale del voto e dei partiti –, perché più informato/istruito e dei media di comunicazione come luogo della discussione in cui i politici presentano direttamente le loro proposte, mette in luce l’avvento di una nuova èlite ed individua nell’inaspettato allungarsi delle distanze tra governati e governanti la causa del malessere nei confronti della rappresentanza, ma ribadisce quanto il principio di distinzione connoti strutturalmente la rappresentanza e come il verdetto del popolo non sia di certo scomparso nell’era della “democrazia del pubblico”. Di più: quest’ultima, pur non essendo scomparsi i partiti, la cui funzione rimane centrale nelle campagne elettorali e nella conduzione della politica parlamentare, tratteggia la forma odierna assunta dalla democrazia rappresentativa, ad un tempo distinta dalla “democrazia schumpeteriana nella quale i cittadini scelgono fra élite a intervalli regolari, rimanendo in silenzio tutto il resto del tempo, e la democrazia partecipativa nella quale i cittadini prendono decisioni in ogni periodo” (287)
Un’impossibile conclusione. Se la democrazia eccede Stato e rappresentanza
È impossibile giungere ad una conclusione, anche parziale, sul tema della democrazia. Che la si congiunga o meno con la rappresentanza. Il testo di Manin ha il pregio di ricostruire il percorso del governo rappresentativo mettendo in risalto alcune costanti che lo connotano, ponendo l’accento sugli scostamenti rispetto al senso comune che lo vorrebbe espressione lineare e necessaria, più o meno indiretta, del governo del popolo nelle forme già sperimentate nella polis greca. L’intreccio di elementi, per quanto mutevoli, di carattere aristocratico e democratico, ha prodotto l’attuale configurazione democratica, così come quelle precedenti. Quanto è possibile mutare questo equilibrio instabile? Su quali elementi agire? O ancora, più radicalmente, l’assunzione del carattere propriamente democratico-egualitario – l’equivalente dell’estrazione a sorte nella democrazia ateniese – è in grado di mettere in discussione gli stessi dispositivi che sorreggono il governo rappresentativo – Stato e rappresentanza distintiva/indipendente –, di eccederli? E quale posto assume la discussione, il carattere costitutivamente plurale che la connota? Quale spazio è lasciato al conflitto, al carattere polemico dell’essere-in-comune, all’aspetto (ant)agonistico, senza giungere ad annullare l’alterità in quanto tale? Infine, una possibile mutazione politica come dovrebbe rapportarsi con il modo di produzione capitalistico ad egemonia “neoliberista”? Sono solo alcune domande, ineludibili, per chi voglia pensare una trasformazione degli assetti politici attuali – almeno per chi assuma una prospettiva orientata da un riformismo sostanziale o dal rilancio di una politica di emancipazione tout court. In tal senso possiamo far cenno ad alcune prospettive critiche rispetto allo status quo, iniziando dalle posizioni che intendono muoversi all’interno del sistema rappresentativo per estenderne gli effetti democratici o proporre – per riprendere un’espressione di Loïc Blondiaux (Blondiaux 2008) – una “constitution démocratique mixte” in cui la partecipazione popolare dovrebbe manifestarsi in diverse forme. Pertanto possiamo menzionare la posizione di Robert Dahl – la cui declinazione delle democrazie moderne in termini di “poliarchie” è nota – sulla necessità di estendere il principio di rappresentanza all’ambito economico, immaginando vere e proprie forme di democrazia economica di marca cooperativistica (Dahl 1989). Un’ipotesi valorizzata recentemente da Giorgio Galli nel tentativo di evitare l’involuzione verso una “democrazia dei subordinati” (Galli 2010), connotata da un governo esercitato, di fatto, esclusivamente dalle élite competenti, dai “custodi” riprendendo una terminologia del Platone delle Leggi (Dahl 1991). Un allargamento della partecipazione attiva dei cittadini e della capacità di deliberare è invece alla base degli esperimenti, sempre più diffusi, di democrazia deliberativa e partecipativa. In essi la riproposizione del sorteggio per comporre le giurie cittadine, le consensus conferences e gli stessi sondaggi deliberativi – esperienze, insieme ai bilanci partecipativi, ben repertoriate, anche in un’ottica storica, da Yves Sintomer (Sintomer 2009), che, per quanto ancora circoscritte e timide negli effetti prodotti, hanno indotto in diversi “professionisti della politica” una risorgente “paura delle masse” – pone in stretta relazione il protagonismo dei cittadini “ordinari” e l’elemento propriamente democratico già rilevato da Manin, mettendo in campo, di fatto, una critica della rappresentanza connotata dal principio di distinzione. Ma come intendere la partecipazione? Essa, come ha osservato Blondiaux, oscilla tra due dimensioni: improntata alla ricerca di un accordo sulla base di uno scambio di argomenti razionali tra i partecipanti – è l’approccio che connota principalmente un teorico come Jürgen Habermas –, con l’effetto di scartare le posizioni più scomode, informali, rivendicative; orientata sulla priorità di opporsi ai poteri costituiti, di privilegiare forme di autorganizzazione atte a configurare quel che Oskar Negt ha definito “espace public oppositionnel” (Negt 2007) in cui esprimere le “soggettività ribelli”. Sulla possibilità di istituzionalizzare il conflitto, senza annullarlo, sembra orientarsi il dispiegamento di una “democrazia effettiva” in cui intrecciare forme plurali di partecipazione con un principio rappresentativo rinnovato. Sui limiti inerenti ai processi deliberativi, in particolare sul substrato teorico habermasiano che li informa, insiste invece Chantal Mouffe. Essi sarebbero costitutivamente impermeabili ad una concezione agonistica della democrazia. In particolare, ricercando un accordo tra tutti i partecipanti, tali esperienze rimuovono la dimensione ontologicamente conflittuale della politica, il nodo ineludibile del potere, i progetti egemonici che vi si misurano similmente ad un campo di battaglia. Su questo aspetto la studiosa belga, non a caso, richiama la descrizione della natura del sistema parlamentare, effettuata da Elias Canetti in Masse e potere, come messa in scena di una “forma di combattimento che ha rinunciato all’uccisione” (Mouffe 2007, 41). Un’opzione postpolitica sarebbe invece all’opera in prospettive anche assai diverse tra loro: dalle teorizzazioni di Anthony Giddens sulla necessità di andare oltre destra e sinistra, alla “subpolitica” che connota la società del rischio tratteggiata da Urlich Beck, dalle aspirazioni ad una democrazia cosmopolitica alla stessa pratica di una democrazia assoluta della moltitudine teorizzata da Michael Hardt e Antonio Negri, in particolare in un’opera di vasta eco come Impero. Una politica democratica per Mouffe ha invece la funzione di disinnescare la coppia antagonista amico-nemico, trasformando l’arena politica in un confronto agonistico tra avversari. Figura ben distinta dalla competizione tra èlite di matrice liberale. A sua volta una qualche consonanza con l’approccio di Mouffe (ed Ernesto Laclau) la si può trovare in un autore come Jacques Rancière. Egli individua al fondo del legame sociale una priorità inestinguibile del disaccordo (Rancière 2007b), matrice della continua rimessa in discussione dei rapporti di forza in atto, dell’insorgenza delle parti non contate nella configurazione politica e sociale, ad un tempo, dominante e contingente. Ed è proprio l’estrazione a sorte – lo abbiamo già accennato –, come figura paradigmatica del potere democratico-egualitario di chiunque, che rompe le asimmetrie “naturali” dettate dalla nascita e dalla ricchezza, così come dalla “competenza”. In questo senso la democrazia eccede necessariamente la “democrazia rappresentativa” e si manifesta nella sfera pubblica come logica autenticamente politica (in quanto governo di chiunque) che si incontra/scontra con la logica della polizia, ovvero “del governo naturale delle competenze sociali” (Rancière 2007a, 66). Pertanto, se gli ordinamenti politico-giuridici odierni sono il risultato di un incontro/scontro di elementi democratici ed oligarchici, la democrazia è un movimento di lotta per l’espansione della sfera pubblica – non dell’ingerenza dello Stato – contro il restringimento, la privatizzazione della medesima e la subordinazione al “duplice dominio dell’oligarchia nello stato e nella società” (Rancière 2007a, 68). Oltre la dicotomia semplice democrazia reale/democrazia formale “l’azione emancipatrice non è un insieme di mezzi tesi verso un’uguaglianza promessa [bensì] un insieme di pratiche che qui e ora [concretamente] si occupano di rifiutare i presupposti dell’ineguaglianza” (Rancière 2011, 18). In quest’ottica, il suffragio universale, così come le dispute sul salario, sono l’esito di un conflitto contro la privatizzazione della sfera pubblica, non certo lo sviluppo “naturale” inscritto negli ordinamenti vigenti. Secondo Rancière si tratta di “un movimento di duplice trasgressione dei limiti”: da un lato, “l’estensione dell’uomo pubblico ad altri ambiti della vita comune” (in particolare alla sfera economica), dall’altro, si tratta di “riaffermare l’appartenenza a tutti e chiunque della sfera pubblica continuamente privatizzata. (Rancière 2007a, 70). Una duplicità che tradotta in dualità uomo/cittadino è stata criticata e ridotta ad una logica semplificata, in particolare, tra gli altri, nella critica del giovane Marx ai diritti del cittadino come sfera ideale, dietro la quale si manifestano i diritti di un uomo particolare, l’uomo proprietario, che opera sotto la maschera del diritto uguale di tutti. Ed è proprio da una lettura originale della marxiana Critica del diritto statuale hegeliano che prende le mosse Miguel Abensour (che riconosce più di una consonanza con le tesi di Rancière) rintracciando, a partire da quell’opera, un “momento machiavelliano” in Marx, una riformulazione del politico, del suo carattere “autonomo”, che agisce sottotraccia e riemerge negli scritti politici del rivoluzionario di Treviri. La riflessione marxiana sull’affermazione della “vera democrazia” come “soluzione dell’enigma di ogni costituzione”, “potere dei molti” e “telos verso cui tendono l’insieme delle forme politiche moderne” (Abensour 2008, 101) operata nella Critica, successivamente riemergente, in particolar modo negli scritti dedicati alla Comune parigina, identifica la democrazia come produzione di rapporti di non dominio e lotta permanente contro lo Stato in quanto apparato separato ed unificante, intento a ridurre ad unum la pluralità e a riprodurre rapporti gerarchizzanti. A sua volta, sulla questione dello Stato, da un approccio diametralmente opposto con l’eredità marxiana e marxista, l’ultima battaglia “pubblica” di Louis Althusser, intessuta in un dibattito serrato e rimosso con interlocutori come Norberto Bobbio e Antonio Negri,
rilevava l’assenza di una teoria marxista dello Stato e delle organizzazioni della lotta di classe. Nel tentativo “démesuré” (Cavazzini 2009) di riformulare il marxismo, sottraendosi alla riduzione della politica a Stato per prevenire “l’effetto sovietico” (Girometti 2011), sottolineando la prospettiva dell’estinzione dello Stato in quanto tale e intrecciando una storia senza fine e senza fini con la finitudine della teoria e la finitezza della politica, il filosofo francese si proponeva di mettere in relazione orizzontalmente movimenti sociali e organizzazione partitica, criticandone la struttura borghese che separa dirigenti e militanti, così come lo Stato separa governati e governanti.
Se il punto d’osservazione di Abensour è dichiaratamente non marxista – incrociando originalmente Arendt e Levinas con la tradizione comunalista e consiliarista –, ed attento a valorizzare il pensiero filosofico e politico del giovane Marx, è tuttavia sintomatico rilevare una convergenza sul medesimo nodo “sensibile” da sciogliere. Pertanto l’imputazione marxiana, nella Critica, dell’agire democratico al demos (per quanto declinato problematicamente come “demos totale”), pensato nella sua priorità politica piuttosto che sociale, e la sovrasignificazione del politico rispetto allo Stato, la sua riduzione a sfera particolare (non amministrativa) altresì capace di diffondere la logica democratica dell’assenza di dominio alle altre sfere della vita umana, entrano in risonanza – secondo Abensour – con una concezione “insorgente” o “selvaggia” della democrazia, per riprendere una terminologia cara a Claude Lefort. In questa linea di pensiero la democrazia, riattivando continuamente il suo impulso contro ogni arche, è irriducibile allo “stato democratico”. Pertanto essa: a) non è una forma di democrazia conflittuale esercitata al suo interno, bensì nei suoi confronti; b) si manifesta e persevera come “cesura tra due forme statuali”, condensandosi e riconvertendo in termini sociali le istituzioni, capaci – differenziandosi dalle leggi – di anticipare e stimolare pratiche di emancipazione; c) infine non è interpretabile come contrapposizione tra “sociale” e “politico”, bensì come “una comunità politica contro lo Stato” (31) in un movimento che non esclude il conflitto al suo interno, che tenta di rimodulare nei termini della produzione di un potere condiviso, di un riconoscimento paritario dell’alterità.
Limitandoci alle posizioni dissonanti elencate sul rapporto democrazia – rappresentanza – Stato, per quanto diverse e probabilmente contrapposte tra loro su più di un versante, esse interrogano la doxa democratica ed interpellano, criticamente, la complessa argomentazione di Manin. Allo stesso tempo una loro efficacia difficilmente potrà dispiegarsi senza un confronto serrato con la disseminazione dei poteri disciplinari, il “biopotere” tratteggiato da Michel Foucault, che rafforza e controlla la logica capitalistica nella sua congiunzione con la forma-Stato, tratteggiandosi come “modo di accumulazione e di dominio” (Arrighi 1999). Configurazione, quest’ultima, in cui attualmente l’egemonia del finanzcapitalismo (Gallino 2011) ed il lavoro senza fine (Turchetto 2004), per quanto possa apparire contraddittorio, sembrano camminare di pari passo. Polarità della medesima logica sistemica.
Biografia
Si è laureato in Sociologia (con una tesi sul ceto politico locale) e Filosofia (con una tesi sul pensiero di Louis Althusser) presso l’Università di Urbino. Collabora alle attività di ricerca promosse dal Laboratorio di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino e dall’Istituto di Storia Contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino. In “Storia e Futuro” ha pubblicato Dopo il grande crollo? Note sulla crisi economica odierna (n. 24, novembre 2010) e le recensioni ai seguenti testi: Laura Nader – Ugo Mattei, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali (n. 23, giugno 2010); Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale (n. 25, febbraio 2011).
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