di Andrea Zannini
Abstract
Il tema della guerra, considerato in una prospettiva globale secondo l’approccio della world history, può rappresentare un argomento dalle grandi potenzialità didattiche. Uno stimolo a riconsiderare la guerra nell’insegnamento della storia viene da due libri, i cui autori hanno un approccio differente ma si pongo le medesime domande: Lo Stato e la guerra dello studioso di “scienze della pace” Ekkehart Krippendorff e War in Human Civilization, del politologo israeliano Azar Gat. Perché l’uomo combatte e uccide? La guerra è un comportamento innato e dipende dall’evoluzione culturale? Quale è stato il ruolo della guerra nel processo di civilizzazione e cosa essa rappresenta oggi, nell’età della democrazia e del benessere? L’articolo considera alcuni aspetti di queste problematiche generali e la loro utilità nella didattica della storia.
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Affermare che nella scuola italiana la guerra è un argomento spesso trattato in maniera anacronistica può apparire un truismo o una provocazione. Da un lato, infatti, appaiono ancora moltissime le incrostazioni nello stile didattico di tanti insegnanti, nei “programmi” e nei libri di testo, della vecchia histoire-bataille. Quella vecchia, ma mai tramontata del tutto impostazione secondo cui la storia si identifica, in buona sostanza, con le vicende militari e diplomatiche, con gli scontri tra gli Stati e tra le case regnanti, dunque in definitiva con il processo di affermazione dello Stato-nazione fino al suo trionfo otto-novecentesco.
Da un altro lato, però, la fruttuosa contaminazione della storia con le scienze sociali, iniziata all’abbrivio del XX secolo e ridimensionata a partire dagli anni ’80 del ’900, ha in realtà contribuito a superare – o, meglio, ha dato la possibilità agli insegnanti di superare – tale prospettiva, spostando l’attenzione dal fatto militare in sé al suo contesto sociale, tecnico, economico e istituzionale. Seguendo il filone della “storia militare” (Labanca 2011), un settore che gode di una buona visibilità editoriale, sa farsi leggere anche al di là dell’ambito specialistico ed ha avuto una buona ricezione nei manuali di testo di storia, molti docenti hanno avuto la possibilità di aggredire didatticamente temi ostici come la formazione burocratica dello Stato moderno, le trasformazioni delle economie e delle finanze, la struttura gerarchica delle società.
Nell’ultimo quarto di secolo il verbo alla moda, soprattutto nelle università oltreoceano, è, come è noto, quello della “storia del mondo” (world history), e della “storia globale” (global history); due etichette storiografiche in buona parte sovrapponibili, la cui data di nascita si può far risalire al lancio nel 1990 del «Journal of World History» e nel 2006 del «Journal of Global History», ma che hanno illustri antesignani in molti storici dell’antichità, e almeno nelle opere di Arnold Joseph Toynbee (1889-1975) e Oswald Spengler (1880-1936) (Di Fiore, Meriggi 2011).
L’idea di rovesciare la prospettiva nazionale e territoriale ed inquadrare le vicende dell’uomo in un quadro mondiale di scambio, scontro o integrazione ha finora privilegiato alcuni temi come le catastrofi demografiche, le migrazioni volontarie o meno di popolazioni, i tortuosi percorsi intercontinentali delle malattie e della tecnologia, la supremazia europea e il processo di industrializzazione. Anche il tema della guerra e del suo rilievo nello sviluppo della civiltà è stato variamente trattato, sebbene soprattutto in riferimento al problema storico della supremazia europea, come ad esempio da Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie, un best-seller di questa tendenza storiografica (Diamond 1997). Questo nuovo approccio ha ricevuto una buona attenzione dagli specialisti di didattica della storia, anche nel nostro Paese, ma fatica a ricevere attenzione nella quotidianità della scuola italiana, per vari motivi che non è qui il caso di esaminare (Mattozzi 2002; Dondarini 2006; Petrosino 2007).
La sollecitazione a considerare in termini didattici il tema della guerra in una nuova prospettiva globale prende spunto da due libri, diversissimi per impostazione ed ambizione, ma che invitano a riconsiderare sul lunghissimo periodo il significato e la funzione della guerra. Il primo, edito nel 1985 dallo studioso tedesco Ekkehart Krippendorff (1934), e recentemente tradotto in Italia con il titolo Lo stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, appartiene al filone della letteratura pacifista (Krippendorff 1985). Il secondo, invece, opera dell’israeliano Azar Gat (1959), uscito per i tipi della Oxford University Press nel 2006 con il titolo War in human civilization (e che difficilmente sarà tradotto nella nostra lingua constando di 820 pagine), intende nientemeno che ricostruire il significato della guerra nel processo di civilizzazione del genere umano (Gat 2006).
Oltre alla comune matrice scientifica degli autori (che sono politologi) e alla simile impostazione interdisciplinare che mette insieme storia, antropologia, filosofia, scienze comportamentali, i due libri appaiono parallelamente impostati attorno ad alcune domande cruciali che tendono ad essere escluse dalla didattica della storia. Perché l’uomo combatte fino ad uccidere? È questa una tendenza innata o meno? Qual è stata la funzione della guerra nella storia? E quale è stato il suo significato nell’età delle immani carneficine, il ’900? Quale spazio ha la guerra nelle moderne democrazie? Si tratta di questioni di grande interesse, che sono state affrontate negli ultimi decenni da diverse discipline con nuovi strumenti di indagine, e che possono rappresentare nuclei tematici interdisciplinari o laboratori ali molto stimolanti.
Molteplici, e difficilmente reversibili, sono ormai ad esempio le evidenze archeologiche e etnografiche sulla diffusione degli scontri con conseguenze mortali tra i cacciatori-raccoglitori, con un’elevata mortalità dei maschi adulti. La rassicurante tesi rousseauiana che lo stato di natura fosse una condizione irenica, insomma, appare smentita dalle conoscenze empiriche. Ma perché, dunque, l’uomo primitivo combatteva?
Entrambi gli studiosi concordano nell’assegnare scarsa significatività alle teorie che individuano genericamente nell’aggressività il motore della propensione alla guerra, ricorrendo invece ad altre, più dettagliate, spiegazioni. Per Krippendorf appaiono prevalenti ragioni di ordine sociale: lo scopo della guerra dei primitivi era o è “il mantenimento del gruppo, o la salvaguardia di un equilibrio estremamente complesso, la conferma ritualizzata della coesione del gruppo, o delle idee religiose, la tutela dell’esistente” (Krippendorff 1985, 55). Per Gat, invece, alla radice dei conflitti violenti vi è la stessa ragnatela di desideri che motiva l’uomo nella sua vita quotidiana. Dunque il soddisfacimento dei bisogni primari – che si traduce in conflitti per le risorse, di qualsiasi tipo esse siano, dall’acqua al cibo, dal territorio alle donne – e, in termini più complessi, l’acquisizione di status e di potere, che sono mezzi sofisticati per garantirsi un accesso sicuro o maggiore alle risorse stesse. Per lo studioso israeliano, dunque, che posiziona la sua ipotesi all’interno del neoevoluzionismo, la guerra sarebbe uno fra i tanti attrezzi a disposizione dell’uomo (dei gruppi umani, delle società complesse) all’interno del kit evolutivo: un attrezzo impegnativo e violento, capace di produrre grandi vantaggi ma ad alti rischi.
La funzione della guerra nel sagomare lo Stato dall’antichità ad oggi è degli argomenti sui quali le acquisizioni storiografiche sono più solide, un’efficacissima chiave per approfondire, anche didatticamente, la questione della costruzione dello Stato, cioè il problema storico della progressiva convergenza in una ristretta tipologia di apparati di costruzioni politico-istituzionali differenti, in contesti ambientali diversi. L’accento può essere posto su vari fattori. Ad esempio sulla stretta relazione tra gerarchia militare e gerarchia sociale; sul monopolio della forza come carattere determinante per l’affermazione dello Stato; sulla interdipendenza tra sviluppo tecnologico militare ed evoluzione della tecnologia civile; sul carattere di “disciplinamento sociale” dei grandi eserciti basati sulla fanteria; sul ruolo decisivo svolto dalla mobilitazione delle risorse belliche nel disegnare le finanze statali; sulla funzione della religione nella guerra quale cemento ideologico e prospettiva ultraterrena; sulla nascita di una coscienza nazionale e sul ruolo della guerra nel processo di nazionalizzazione delle masse; sullo sviluppo del concetto di balance of power come criterio fondante le relazioni tra le grandi potenze, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Un problema storico assai complesso ma stimolante è la questione della distruttività della guerra. Sebbene in grado di generare virtuosi spin-off, come testimoniato da ultimo dall’economia americana a cavallo degli anni Duemila, la guerra e la sua preparazione hanno costituito nella storia uno dei principali fattori di distruzione di risorse economiche ed umane. Vari studi si sono interessati a misurare tale dispersione, innanzitutto in termini di vite umane. La prospettiva di lunghissimo periodo adottata da Gat conduce a tale proposito a risultati di rilievo, che possono costituire un ottimo spunto didattico. Confrontando le rilevanze empiriche sulle guerre in vari periodi del processo di civilizzazione egli arriva a concludere che con la crescita dello Stato i tassi di mortalità, naturalmente in proporzione alla popolazione coinvolta, sono diminuiti. Così, le immani distruzioni della Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale o della Francia e della Germania nel primo conflitto mondiale, quando circa il 15% della popolazione morì, rappresentano dei picchi della mortalità da guerra in un trend, tuttavia, di continua discesa. Si tratta di percentuali probabilmente già raggiunte e superate in conflitti precedenti di pari ampiezza, come la guerra dei Trent’anni, il più disastroso conflitto della prima età moderna o le guerre puniche, il più sanguinoso scontro dell’età antica; ma nettamente meno distruttrici dei conflitti praticati tra popolazioni di cacciatori raccoglitori, quando in singoli conflitti giungevano a perire tra il 10 e il 60% dei maschi adulti.
Il motivo che avrebbe reso il passaggio dalla lotta tribale alla guerra tra Stati, e quindi alla guerra tecnologicamente evoluta una faccenda sempre meno mortale risiederebbe nella continua specializzazione della guerra, che ha coinvolto sempre più personale appositamente reclutato, limitando l’arruolamento di massa di contadini e di “carne da cannone”. Questo tipo di argomentazioni – suffragate, bisogna dirlo, da una serie consistente di studi – spiazzano radicalmente il sentire comune (e molti insegnamenti scolastici), secondo cui, al contrario, il XX secolo avrebbe visto trionfare una “guerra totale” basata sui bombardamenti a tappeto, sulla distruzione del nemico e sulla sistematica eliminazione dei civili, mediante la coventrizzazione o nei campi di concentramento e sterminio.
Nettamente opposta, invece, è la prospettiva di Krippendorff, che considera la guerra e l’apparto militare come strumenti fondanti lo Stato, che esercita attraverso di essi la sua “violenza organizzata”. L’equilibrio creatosi tra le due superpotenze mondiali dopo la seconda guerra mondiale (lo studioso tedesco scrive prima della caduta dell’Urss), ad esempio, sarebbe sorto da uno speculare esercizio della violenza, maggiormente visibili nella repressione interna nel caso dell’Unione Sovietica, e maggiormente attiva invece nel contesto coloniale (Vietnam, centro e sud America) nel caso degli Usa.
Qualsiasi discorso sulla guerra nel XX secolo affrontato in termini globali non può non tener conto di due altri macrofenomeni che nel corso degli ultimi cento anni hanno coinvolto i più importanti Paesi al mondo, e cioè la crescita verticale del reddito pro-capite dovuto allo sviluppo economico moderno e la diffusione della democrazia liberale. Nessuno di questi due processi significa automaticamente l’abbandono della guerra come ratio dei rapporti internazionali: anzi, la storia è purtroppo ricca di Paesi ricchi e di democrazie bellicose. Tuttavia, sul lungo periodo e in termini mondiali, è impossibile non riconoscere che più un Paese è ricco e democratico (in senso vero), maggiormente la sua opinione pubblica tende a rifiutare la guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali. Come si espresse un premio Pulitzer qualche anno fa non si sono mai visti due Paesi con un McDonald che si fanno la guerra (Friedman 1999): una evenienza che, a dir la verità, sarebbe stata smentita in seguito almeno dai bombardamenti Nato sulla Serbia (1999) e dalla guerra israelo-libanese (2006), ma che contiene un certo grado verità (oltre che di cinismo).
Per motivi opposti, ma con esiti simili, sia Krippendorff che Gat finiscono per assegnare un ruolo tutto sommato limitato all’arma nucleare che invece – secondo il senso comune – avrebbe profondamente cambiato il senso della guerra, dopo la sua prima, terrificante utilizzazione in un conflitto nel giugno 1945.
L’argomento secondo cui la deterrenza nucleare costituirebbe il motivo per cui tra le massime potenze mondiali da 66 anni resiste un periodo di pace risulta in effetti attaccabile se si considera che, negli ultimi due secoli, le maggiori potenze europee (e quindi del globo) hanno attraversato almeno tre lunghe fasi di pace, tra 1815 e 1854, tra 1871 e 1914 e l’attuale fase post-bellica, solo l’ultima delle quali marcata dalla deterrenza nucleare. È vero che i conflitti che hanno intervallato tali fasi sono risultati di spaventosa efficacia, ma nel complesso, anche grazie alle limitate distruzioni dovute alla guerra in questo lungo arco di tempo, l’Europa ha potuto assecondare il più grande sviluppo economico della sua storia, quello dovuto all’industrializzazione.
La chiave per il progressivo abbandono della lotta mortale come attrezzo evolutivo starebbe dunque nel binomio diritti civili e crescita della ricchezza, come testimoniano i grandi movimenti pacifisti del secondo dopoguerra che rappresentano il sintomo di un valore negativo assegnato alla guerra come strumento efficace di relazioni internazionali. Il fatto che le operazioni militari condotte dalle grandi potenze negli ultimi anni (Iraq, Afghanistan, Cecenia, Libia) abbiano avuto luogo con una accentuatissima considerazione per la sicurezza dei militari occupanti conferma che le opinioni pubbliche delle democrazie liberali sono ormai disposte ad accettare solo un basso costo in termini di vite umane (proprie).
Didatticamente e globalmente inteso, in conclusione, il tema della guerra consente di sviluppare conoscenze ed abilità che permettono di trattare tanto gli scontri tra i clan delle popolazioni paleolitiche che la guerra iper-tecnologica del XXI secolo. Una nuova didattica della guerra consente finanche di spingersi alla più impegnativa delle sfide, la “storia del presente”. Cos’è, infatti, il nuovo terrorismo non-convenzionale se non un nuovo modo di concepire la guerra, smantellando le tradizionali categorie della territorialità dello scontro, della individuabilità delle forze sul campo, della possibilità della rappresaglia?
Biografia
Andrea Zannini insegna Storia moderna all’Università di Udine. Si è interessato di storia economica e sociale e di demografia storica. Ha insegnato Didattica della storia alla Ssis di Udine e pubblicato assieme a Walter Panciera, Didattica della storia. Manuale per la formazione degli insegnanti, Le Monnier, 2009 (II ed. aggiornata e ampliata) e, assieme ad altri autori, il manuale per il triennio delle superiori Storia edito da Garzanti Scuola.
Biography
Bibliografia
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1997 Guns, germs and steel. The fates of human society, New York, W.W. Norton & Co., trad. it., Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 1998.
Di Fiore L., Meriggi M.
2011 World History. Le nuove rotte della storia, Roma-Bari, Laterza.
Dondarini R.
2006 Le prospettive della didattica della storia. Storia globale e dimensione locale, in “Storia e futuro”, n. 10.
Friedman T.L.
2000 Lexus and the olive tree, New York, Farrar Stratus Giroux, trad. it. Le radici del futuro. La sfida tra la Lexus e l’olivo. Che cos’è la globalizzzione e quanto conta la tradizione, Milano, Mondadori.
Gat A.
2006 War in Human Civilization, Oxford, Oxford University Press.
Krippendorff E.
1985 Staat und Krieg. Die historische Logik politischer Unvernunft, trad. it. Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, Pisa, Gandhi Edizioni.
Labanca N.
2011 Storie di guerre ed eserciti. Gli studi italiani di storia militare negli ultimi venticinque anni, Milano, Unicopli.
Mattozzi I.
2002 Pensare la nuova storia da insegnare, in “Società e storia”, n. 98.
Petrosino D.
2007 Insegnare la storia globale. Riflessioni e proposte per un nuovo approccio alla didattica della storia nelle scuole, in “Storia e futuro”, n. 14.
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