di Eleonora Rossi
Abstract
Abstract english
The common thread of this essay regards how the possibility of using artificial lightning in times and places usually shrouded in darkness can influence our perception of reality. The analysis of the light-shade relationship, supported by a brief overview of the lightning methods evolution and the collection of direct oral accounts, let us examine how such a radical transformation was experienced by its protagonists: a group of people born between 1920 and 1930 in a small town of the Marches region.
L’invadenza di una luce sfolgorante e “culturista” nelle notti contemporanee sembra aver irrimediabilmente compromesso la ricchezza delle sfumature create dal contrasto con le zone d’ombra, impoverendo la nostra percezione della realtà, come sostiene Peregalli nel suo recente saggio (2010).
Ma per secoli, almeno metà della vita di ogni uomo è rimasta quasi totalmente immersa nel buio. La trattazione che segue intende sintetizzare, rielaborandoli, alcuni aspetti della dialettica luce/ombra, tema affrontato in maniera più articolata e diffusa nella mia tesi di laurea in Storia sociale, relatore il professor Paolo Sorcinelli, dal titolo La luce e il buio. Un itinerario storico e artistico attraverso i secoli. L’umanità intera ha infatti convissuto per gran parte della sua storia con buio e penombra; sono occorsi secoli di sperimentazioni e scoperte per poter usufruire di un livello di illuminazione stabile, intenso e funzionale.
Solo l’avvento dell’illuminazione elettrica, prodotto della rivoluzione industriale, ha reso possibile il lavoro nelle ore notturne, per secoli ritenuto antieconomico dati i costi sostenuti per le precarie forme di illuminazione esistenti, e ha creato le condizioni per strutturare nuovi assetti, prima inimmaginabili soprattutto se riferiti alla classi meno agiate, della vita commerciale, sociale e culturale, contribuendo in larga misura all’avvio del processo di democratizzazione delle tecnologie tuttora in atto. L’ampia diffusione dei prodotti della tecnica e il loro abituale uso quotidiano sembra averli oggi assimilati all’ovvietà, ingenerando la sensazione che siano esistiti da sempre, ma è sufficiente riflettere sull’effetto paralizzante di un qualsiasi blackout verificatosi nell’ultimo decennio in una qualche città del mondo, per tentare di immaginare come si vivesse prima dell’affermazione della luce elettrica quale elemento diffuso e dominante.
La natura stessa ha del resto fornito i primi mezzi di illuminazione nell’antichità con il fuoco, la più primordiale forma di luce artificiale, che ha permesso all’uomo arcaico di rendere meno precaria la propria esistenza con l’illuminazione delle caverne e l’ideazione della fiaccola, sorta di focolare trasportabile, fuoco mobile capace di affrontare le tenebre circostanti (www.aising.it). Le prime rudimentali lucerne furono probabilmente ottenute riempiendo conchiglie di varie dimensioni con grasso animale e i ritrovamenti archeologici susseguitisi nelle varie epoche in territori eterogenei permetterebbero di allestire un ideale museo di lucerne, straordinariamente ricco nel numero, nelle fogge e nelle elaborate decorazioni, ma sostanzialmente imperniato per lunghissimi secoli su un’unica e immutata modalità di illuminazione.
Tutte le civiltà antiche ne fecero uso e per migliaia di anni si continuò ad utilizzare la lucerna quale forma di illuminazione artificiale unica, pressoché inalterata nel suo funzionamento, del tutto insufficiente per fronteggiare l’oscurità delle strade (Moscati 1978).
Assai realistico è lo scenario offerto dalle parole di Giovenale, che conducono a farsi un’idea ben precisa di che cosa significasse per un romano, vissuto intorno al 100 d. C., non ricco e dunque sprovvisto di servi con fiaccole adibiti a scorta, essere costretto a percorrere una viadopo il tramonto: “Considera ora quanto vari siano i pericoli della notte. Pensa da quale altezza precipiti una tegola a fracassarti il cranio, quante volte vengano giù dalle finestre vasi incrinati e rotti, che lasciano crepe profonde sul selciato. Davvero sei da ritenere negligente e imprevidente, se vai a una cena senza aver fatto testamento! Tanti sono i pericoli mortali, quante le finestre aperte in quella notte mentre tu passi. E perciò ti riduci al malinconico desiderio che si accontentino d’inondarti coi secchi” (Satira III 268-277 ). I progressi nella ricerca di un sistema di illuminazione efficiente sono stati dunque per molti secoli incredibilmente lenti, anzi sostanzialmente bloccati su un tipo di lucerna che, tenuto conto di varie evoluzioni è però rimasta invariata nel tempo. Solo con la fine del 1700, si assistette all’avvio di un periodo connotato da un fervore di ricerche, sperimentazioni e scoperte che condurrà nell’arco di soli cento anni a una trasformazione radicale dell’aspetto complessivo delle città.
Lo sviluppo dell’illuminazione stradale e la sua funzione di servizio pubblico segna l’inizio di una nuova epoca, l’avvio di un processo di trasformazione radicale dell’ambiente urbano e del suo utilizzo: con la luce le notti cittadine diventano rapidamente nel contempo più sicure e più adatte alla vita sociale. I primi lumi ad olio pubblici schermati da un cilindro di vetro per evitare il tremolio della fiamma fecero la loro comparsa a Milano nel 1784 (www.archilumen.it ). La lampada di Argand, di cui erano dotati, che sopravvisse a lungo accanto alla lampada a petrolio, rivoluzionò sensibilmente la percezione della luce, togliendo agli oggetti quella patina giallastra o rossastra che li aveva ricoperti fino ad allora come potrebbe evincersi osservando alcune opere di Caravaggio che avvolge grandi parti dei dipinti in ombre profonde abolendo lo sfondo per circondare le immagini di oscurità, con la creazione di apparizioni dal buio, che emergono proprio grazie a sprazzi di luce scaturiti da una fiaccola o da uno spiraglio di finestra aperta. L’immagine che si coglie è solo una parte della realtà, solo quel tanto che la debole illuminazione ci consente di vedere, mentre il resto rimane avvolto nell’oscurità, ossia nel mistero (Gregori 1996).
La lampada ad olio, sovvertendo questa percezione del reale, permise di ottenere per la prima volta una fiamma bianca, senza fumo, stabile (Crisafulli 2007). E se l’introduzione della rete del gas fu talvolta osteggiata perché percepita come una rivoluzione tecnologica che diminuiva il potere di controllo sulla propria abitazione o se l’intero sistema presentava di fatto inconvenienti tecnici, come le perdite dovute all’imperfezione degli impianti di distribuzione, i costi elevati o le difficoltà ad illuminare gli edifici più grandi, il profondo cambiamento avvenuto con l’introduzione dell’illuminazione elettrica vinse in seguito ogni resistenza e modificò rapidamente abitudini consolidate, rese frequentabili anche in orari notturni strade e luoghi aperti, riqualificò quartieri interi, valorizzò gli edifici storici, impose un servizio pubblico in grado di raggiungere capillarmente ogni zona della città. Ma l’illuminazione con gas artificiale pur trovando una soluzione alternativa nell’illuminazione elettrica fin da metà ’800, rimase in uso fino all’inizio del ’900, sia perché si perfezionò con tecnologie più avanzate, come la lampada di Auer del 1890, sia perché vincolava per anni con contratti non rescindibili Municipi e società del gas (www.museoitalianoghisa.org).
Il nuovo sistema, basato sull’elettricità, fu reso possibile dal susseguirsi frenetico di ricerche innovative che negli ultimi decenni dell’800 era culminato con la scoperta di nuove sorgenti elettriche, prima tra tutte quella dell’arco elettrico: la luce intensa e incandescente ottenuta con il filamento al carbonio raggiunse un livello così elevato di incorporeità e di astrazione da alienare ogni reminiscenza del rapporto esistito per secoli tra fuoco e luce, come è diffusamente spiegato nell’Antologia storica dell’elettricità, pubblicata dall’Enel (1978). Il chiarore prodotto inondava gli oggetti, fino a toglier loro volume, con un effetto di appiattimento, che richiese correttivi atti a modulare la luce, dosandone quantità, diffusione e orientamento. Le caratteristiche formali e tecniche della lampada fine ottocentesca di Edison resteranno pressoché le stesse presenti nelle lampade che ancora oggi utilizziamo e i miglioramenti apportati da allora mireranno prevalentemente a renderne più facile e conveniente la produzione seriale. La luce iniziava a rischiarare vetrine, insegne, facciate di negozi trasformandosi in un vero e proprio medium pubblicitario, così popolare che artisti e architetti lo sperimentarono un po’ ovunque, attivando quel fenomeno di rapidissima espansione, per cui la luce pubblicitaria divenne quasi l’emblema dell’estetica moderna.
L’affermarsi della luce elettrica operò infatti una vera rivoluzione in senso pratico, annullando la differenza costitutiva tra giorno e notte, ma anche estetico, con l’apporto di un enorme potenziale di creatività che lambì nella prima fase di fine ‘800 e poi decisamente inondò i vari ambiti sociali ed artistici, dal teatro alla pittura, alla scultura, avvalorando di fatto la profezia futurista che aveva indicato nella luce artificiale una tecnologia che sarebbe entrata a far parte dell’opera d’arte fino a fondersi con essa in un tutto indissolubile (Coen 1986). Le opere di light art tracciano in effetti un percorso che conduce rapidamente alle installazioni tridimensionali concettuali e minimaliste che, dagli anni sessanta in poi, utilizzano oltre ai materiali più variegati e inusuali anche la luce come potente e originale mezzo espressivo, pur non esaurendo in esso la finalità dell’opera (Fabbri 2009). La luce artificiale considerata oggi un bene elementare, indispensabile, prodotto e gestito come servizio pubblico è universalmente intesa come sinonimo di civiltà. Da una vita notturna monocolore e scura si è pervenuti a una diffusa sovra illuminazione, accecante a tal punto che l’obbiettivo dei prossimi decenni sembra essere diventato quello di puntare piuttosto che sulla quantità dell’illuminazione, sulla sua qualità, dosata e distribuita all’insegna di un ristabilito equilibrio tra buio e luce (Di Sora 2009).
La tecnologia elettrica, a partire dai primi decenni del ’900, si è assestata, potendo contare su macchine e sistemi idraulici sempre più grandi oltre che notevolmente perfezionati e da allora lo sviluppo della rete elettrica non ha più subito flessioni, ma come si potrà evincere. ampiamente dalle testimonianze orali raccolte sull’argomento, una battuta d’arresto notevole si è verificata nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto sotto i colpi inferti dai bombardamenti del 1943/1944 che distrussero anche l’illuminazione cittadina e sotto gli oscuramenti forzati del periodo bellico, eventi questi che si collocano sulla linea del tempo in una posizione molto ravvicinata a noi, ma che sembrano invece segnare una distanza prospettica direttamente proporzionale alla rapidità dei mutamenti dell’ultimo cinquantennio.
Partita dal presupposto che sia ancora possibile oggi sondare e testare la percezione della portata di questa innovazione, avvalendosi della testimonianza diretta di chi ha vissuto almeno alcune fasi del cambiamento, ho scelto di focalizzare la mia indagine sul comune marchigiano di Porto Recanati, basandomi sul convincimento che le testimonianze orali abbiano un valore documentario importante se non talvolta preminente, per ricostruire gli ambienti, il paesaggio, i costumi, le attività quotidiane ma anche i grandi avvenimenti che sono entrati con prepotenza nella storia della gente comune. Storie, dettagli, piccoli personali apporti, sfaccettature di un vissuto non molto remoto sul piano diacronico, ma decisamente distante se confrontato con il ritmo incalzante dei cambiamenti successivi intervenuti nel volgere di pochi decenni, che nel loro insieme agevolano l’esplorazione di un tema solo apparentemente marginale.
Le informazioni sulla storia dell’illuminazione privata e pubblica per documentare e valutare l’impatto che la diffusione della luce ha avuto nel paese provengono sia dalla raccolta di lunghe conversazioni intrecciate con quindici persone nate negli anni che vanno dal 1920 al 1930, sia da fonti scritte reperite presso istituzioni locali come il Comune, la Biblioteca e il Centro studi porto recanatesi. Una ricerca condotta scartabellando l’Archivio storico del Comune si è rivelata sorprendentemente fruttuosa.
Nell’ambito di una ricca e molto ben conservata raccolta di atti e delibere del Comune, spicca infatti un volumetto di venti pagine a stampa, edito dalla tipografia Rinaldo Simboli di Recanati nel 1877, dal titolo Capitoli di obblighi per l’appaltatore della pubblica illuminazione in Recanati. Porto Recanati, centro costiero che conta nel 1877 quasi cinquemila abitanti è però ancora a quella data una borgata del più importante Municipio di Recanati, da cui dipende giuridicamente e fiscalmente: riuscirà ad ottenere la sua autonomia soltanto nel 1893 e dunque il libretto offre indicazioni preziose su tutto il vasto territorio recanatese, con una ricchezza di dettagli sulla gestione della pubblica illuminazione tale da permettere di ricostruire abbastanza fedelmente la situazione che doveva presentarsi a un abitante di allora. I Capitoli stabiliscono che il Municipio di Recanati dia in appalto per tre anni il servizio della pubblica illuminazione con fanali a olio minerale, detto lucellina, per la città di Recanati e sobborghi e per la borgata di Porto Recanati. La pubblica illuminazione era costituita da ottanta fanali complessivi, il cui elenco è riportato nell’apposito allegato A, in fondo al testo. Da esso si evince che ad ogni fanale è attribuito un numero progressivo, da 1 a 80, dipinto sul fusto con vernice bianca, viene indicata la tipologia del fanale che può essere di due specie, il nome della contrada e del fabbricato dove è collocato il fanale, che può essere una casa, un palazzo, la chiesa parrocchiale, la scuola o una colonna di proprietà comunale. L’appalto comprende la provvista della lucellina, il mantenimento e la pulitura dei fanali, delle loro aste e degli accessori, la manodopera e tutte le spese necessarie per la pubblica illuminazione. Il Municipio si riserva invece di sostenere direttamente le spese necessarie per aumentare o diminuire il numero dei fanali, sempre che i lavori non possano essere anch’essi eseguiti a un prezzo più conveniente dall’appaltatore, cui il Municipio paga seimila lire l’anno per il servizio che comprende l’intera manutenzione, il trasporto e la conservazione dell’olio, compresi i rischi che dovesse essere costretto ad affrontare, come danneggiamenti ai fanali dovuti a grandine, uragani, o imputabili all’azione dell’uomo, esclusa la guerra. Un’attenzione particolare è dedicata alla scelta della lucellina che deve essere di “primissima qualità” e affinché non venga nel tempo magari sostituita con prodotti di livello inferiore, il Municipio ne conserva un campione uguale a quello dell’appaltatore in un recipiente di vetro chiaro e incolore, chiuso e sigillato con due diversi timbri, uno del Municipio e l’altro dell’appaltatore. Viene inoltre messo a disposizione dell’appaltatore un magazzino, che dovrà essere utilizzato esclusivamente allo scopo di custodire la quantità di lucellina necessaria per 60 giorni di pubblica illuminazione, indicata con comunicazione scritta al sindaco, che dopo averla confrontata col campione in suo possesso, ne autorizzerà la conservazione. Nel magazzino dovranno essere inoltre stipati anche almeno cinquecento tubi di cristallo chiaro e incolore, necessari per far ardere i fanali e una congrua provvista di fustagni in tessuto, piatti o tondi a seconda del tipo di fanale. I fanali sono infatti di due diverse specie: la prima utilizza “lucignoli” o fustagni piatti, la cui larghezza di 25, 16 o 12 millimetri determina tre categorie, in ordine decrescente, mentre la seconda usa fustagni tondi, di 25 o 21 millimetri e prevede dunque due sole categorie. Mi piace citare a titolo di esempio e curiosità che a Recanati, in contrada Monte Morello il fanale contrassegnato dal numero 3, di seconda specie, a fustagno tondo, largo 25 millimetri, illuminava il fienile Leopardi, nei pressi di quel “paterno ostello” che aveva ospitato il poeta qualche decennio prima. Riflettere sul fatto che nell’intera contrada dove si trova ancor oggi il palazzo Leopardi erano presenti solo cinque fanali nel 1877 rende più agevole immaginare quanto dovessero essere buie le notti di cinquanta anni prima e quale spettacolo di indicibile bellezza e suggestione dovesse offrire un plenilunio nell’oscurità più totale. Del resto, non molto diversa da quella del borgo di Recanati doveva presentarsi la notte per le vie di una grande capitale europea. 1888, Londra, una sera di settembre. Mancano ancora parecchi minuti alle sette e Sherlock Holmes sta attraversando in carrozza lo Strand dove “i lampioni altro non erano che caliginose chiazze di luce evanescente che gettavano sul marciapiede sdruccioloso un debole alone circolare”. Le facce “passavano per un attimo dalle tenebre alla luce, per ricadere subito nell’oscurità” (Doyle 2005). Sfogliando ancora i Capitoli, leggo che la pulizia giornaliera dei fanali deve essere effettuata ogni mattina e terminata entro le ore 11 nel periodo compreso tra il 1 ottobre e il 31 marzo, mentre entro le ore 10 dal 1 aprile al 30 settembre. Gli operai addetti alla manutenzione hanno in dotazione una particolare divisa, costituita da una sopravveste di tela lunga come una giacca, di colore turchino e un cappello nero di tela cerata con la scritta – Servizio della illuminazione pubblica – ed essi dovranno essere sempre tutti presenti nell’ufficio dell’appaltatore dal tramonto del sole fino all’una di notte, pronti ad affrontare ogni evenienza, come la necessità di un’accensione straordinaria. Con cadenza mensile, il Municipio stabilisce il numero di ore di accensione dei fanali in ciascuna notte e di ogni motivata accensione straordinaria rispetto all’orario stabilito dovrà essere presentato il conto la mattina seguente. Sarà la luna a determinare gli orari di accensione, poiché i fanali devono restare totalmente spenti nelle notti di luna piena, mentre dovranno essere accesi durante i quarti soltanto fino al sorgere della luna: duemila ore di accensione l’anno per ogni fanale è il limite pattuito con l’appaltatore, tra ordinario e straordinario.
L’illuminazione dovrà essere per tutta la sua durata “splendentissima” e ogni fanale, trascorsa un’ora dalla sua accensione, dovrà aver raggiunto la sua massima luminosità. Vengono altresì stabilite con precisione contravvenzioni che l’appaltatore dovrà pagare al Municipio per i fanali spenti o non adeguatamente illuminati e l’accertamento sarà possibile e continuo, in quanto gli operai hanno l’obbligo di fare continue perlustrazioni nei quartieri dove sono collocati i fanali. Nella borgata di Porto Recanati, come risulta dall’allegato A, sono presenti complessivamente 14 fanali, numerati da 67 a 80, tutti a fustagno piatto largo 16 millimetri. Uno di essi è collocato nel piazzale Castelnuovo, tutti gli altri su cinque stradoni, davanti a civili abitazioni, alla chiesa parrocchiale al magazzeno di S. Croce e alle suore del Preziosissimo Sangue.
Anche per il Porto vigono le stesse disposizioni di Recanati sulla gestione del servizio, come la presenza di un magazzino con deposito di lucellina, tubi, fustagni e oggetti di pulizia, a cui ha libero accesso il sindaco per ogni controllo. Un rappresentante dell’appaltatore deve essere sempre presente nella borgata, a lui si devono rivolgere gli agenti di polizia urbana per ogni necessità e ogni giorno, in città come nella borgata, deve essere allestito un ufficio, che rechi sulla porta la scritta – Servizio della illuminazione pubblica – con ingresso sulla pubblica strada, aperto dal tramonto fino alle undici pomeridiane e al cui interno sarà sempre possibile scrivere su un libro in bianco eventuali osservazioni o reclami. Un ‘ispezione mensile fatta da un commissario incaricato valuterà lo stato dei fanali e la gestione del servizio nel suo complesso. Il documento, approvato dalla giunta municipale di Recanati, dal sindaco Vincenzo Ortolani e da due assessori, è datato 12 aprile 1877. Leggendo i Capitoli di obblighi, è possibile constatare quanto l’illuminazione pubblica fosse considerata un bene prezioso da gestire nel tempo con la massima cura, parsimonia ed oculatezza, coinvolgendo attivamente le istituzioni. È inoltre possibile immaginare con un realismo suggerito e rafforzato da dati oggettivi come fossero illuminate le stesse strade, immutate nella loro struttura, visibili e percorribili oggi. Se i cinque stradoni di Porto Recanati e il piazzale Castelnuovo, vale a dire l’intero paese abitato allora, era illuminato da quattordici fanali in tutto, oggi una sola strada, il corso principale e la piazza antistante il Castello Svevo sono illuminati da ottantadue lampioni a due, quattro, persino otto lampade.
Il buio fitto doveva avvolgere gran parte delle vie, come lamentano ancora pochi anni dopo i cittadini del Porto nella Seconda istanza di autonomia presentata il 19 settembre 1881: “Fu fatto pervenire al ministro dell’interno una domanda firmata da tutti i capi di famiglia e i maggiori di età di Porto Recanati per ottenere l’emancipazione di questa frazione di Comune dal municipio di Recanati, poiché che è cosa dolorosa ed umiliante, che il paese, ove pure convengono a villeggiare numerosissime e ragguardevoli famiglie forestiere, non risenta alcuno dei benefici dell’odierno incivilimento, di cui godono persino le più umili borgate. Scarsissima è l’illuminazione delle vie, resa indispensabile oltre l’ordinario in una località, ove le contrade vengono percorse con frequenza nelle ore notturne in ragione degli approdi dei legni pescherecci, e di quant’altro è relativo all’industria della pesca, che è la primaria in questo paese” (Fini 1993).
L’autonomia da Recanati, ottenuta nel 1893, fu accolta con gioia da tutta la popolazione e festeggiata il 7 maggio anche con uno spettacolo pirotecnico notturno (Perfetti, Carlorossi, Buschi 2007). Nell’agosto del 1902 fu finalmente inaugurato il primo impianto di illuminazione elettrica e già nel 1903 tutti i fanali sono stati sostituiti con lampade ad elettricità, come si evince da un altro prezioso, seppur breve documento, rinvenuto anch’esso tra le carte d’archivio del Comune, che permette di avere qualche informazione su quello che è stato il passaggio cruciale, il momento più significativo nella storia dell’illuminazione pubblica. Si tratta di una relazione della giunta comunale dal titolo Finanze del Comune di Porto Recanati (Macerata) e le nuove opere di risanamento, stampata a Foligno dalla Società Poligrafica Francesco Salvati nel 1904. La relazione è stata letta al Consiglio comunale nell’adunanza straordinaria dell’8 marzo 1904: si ricorda preliminarmente che Porto Recanati dopo aver ottenuto lo status di comune autonomo dieci anni prima, con atto firmato dal presidente del consiglio Giovanni Giolitti, ha dal 1° maggio 1903 anche la sua autonomia amministrativa. Dopo aver ricordato con orgoglio le opere realizzate dal 1894 in poi, per ampliare o istituire le scuole, la pescheria e il cimitero, il relatore afferma che si è “dotato il paese della illuminazione a corrente elettrica, municipalizzando tale servizio, con soddisfazione della cittadinanza, che ne usa già su vasta scala e con vantaggio non piccolo per le finanze del Comune. (Costo dell’impianto, spese di contratto ecc. L. 18,738.46.)”. Con l’introduzione dell’energia elettrica si avviano anche a Porto Recanati come nel resto d’Italia rilevanti cambiamenti economici e sociali, che trasformano in un breve volgere di anni il volto del paese.
La scelta di raccogliere testimonianze dirette sul tema del rapporto tra luce e buio, dalla viva voce di chi fosse ancora in grado di ricordare alcune fasi salienti dei cambiamenti avvenuti sembrava doversi scontrare necessariamente con un limite temporale insormontabile: il 1902, anno di introduzione dell’elettricità nel paese, è un tempo, come già sottolineato, piuttosto ravvicinato se consideriamo i molti secoli di buio che l’hanno preceduto, ma irrimediabilmente lontano, se si guarda invece ai dati anagrafici dei potenziali testimoni, il più anziano dei quali è nato il 4 gennaio 1920. Tutti i quindici intervistati, di età compresa tra 77 e 91 anni, anche considerando gli anni remoti della loro infanzia, avevano già una certa familiarità con la luce elettrica, ma ogni narrazione, spesso ricca di dettagli su aspetti poco esplorati del vivere quotidiano, ha delineato un percorso di approccio al tema molto interessante perché accidentato, contraddittorio, assolutamente non lineare.
Gli anni che intercorrono tra le due guerre, in cui scorre infanzia e adolescenza degli intervistati, vedono un paese in rapida evoluzione, soprattutto grazie al decollo dell’industria turistica, dal momento che la villeggiatura balneare, fenomeno elitario durante il ventennio, inizia a diventare di massa, con l’enfatizzazione del ruolo svolto dal turismo marino ad opera del fascismo, che predicando il miglioramento della razza punta a curare la salute della gioventù, spesso minata dal rachitismo e fa allestire colonie marine e istituti elioterapici, come il Preventorio marino, di fine anni Venti. La stazione ferroviaria, attiva già dal 1863, a inizio estate si anima molto intensamente con l’arrivo di intere famiglie che tornano ogni anno su una spiaggia già abbastanza attrezzata con tendoni stesi tra casotti di legno e i primi ombrelloni, concerti e feste negli chalets, come la memorabile rievocazione storica della battaglia di Lepanto allestita sulla spiaggia nella notte del 21 agosto 1927, illuminata da fiaccole e bengala, che vide protagonista il tenore Beniamino Gigli, assiduo frequentatore del paese.
Le foto d’epoca restituiscono scene di una vita solare, che nel corso degli anni trenta ha visto scardinare i valori assegnati al colore della pelle: se fino ad allora il colorito scuro, peculiarità limitata alle classi sociali inferiori esposte ai lavori dei campi o alla pesca, era stata sdegnata in ogni modo da nobili e borghesi con l’ausilio di costumi integrali, cappelli a tesa larga e ombrellini di ogni foggia, ora i corpi si scoprono sempre di più al sole e l’abbronzatura, oltre che sinonimo di buona salute, inizia a diventare un canone estetico ricercato (Perfetti, Carlorossi, Buschi 2007). Una vita diurna persino un po’ patinata e tanto intensamente illuminata da rendere davvero difficile immaginare come si svolgesse la vita quotidiana nelle case e dopo il tramonto.
Avvincente la narrazione di Marcello Bartoli1, nato nel 1930 che ricorda e riferisce alla perfezione molti dettagli, anche legati all’attività lavorativa di fornaio del padre, cui è poi subentrato lui stesso, che si svolgeva soprattutto di notte. Prima del 1938 il panificio era dotato di luce, che però spesso “ndava via” costringendoli a utilizzare le candele e dal momento che quell’attività all’epoca rendeva pochissimo, soltanto otto lire, il padre si arrabattava in un secondo lavoro con la distribuzione della pizza nelle sere d’inverno e del gelato, durante l’estate, con un carretto, sopra cui mettevano un’anfora piena di carburo o di olio, per cercare di illuminare un po’ le strade immerse nel buio.
Il forno era illuminato molto debolmente con la luce elettrica,ma essendo abbastanza grande, circa 8 metri quadri, quando si infornava il pane non si riusciva a vedere nulla: su un tubo laterale venivano allora messi ad ardere olio, candele e tutto quello che si riusciva a trovare, oppure si accendeva una lampada a carburo per illuminare un po’ l’interno del forno, che rimaneva comunque parecchio in ombra. Per far saltare la luce elettrica, cosa che avveniva molto spesso, bastava un piccolo temporale, una breve pioggia e allora Bartoli si doveva recare a piedi fino alla cabina elettrica situata fuori paese, dove oggi si trova il Cimitero, alle due o alle tre di notte, spesso camminando nella neve e nel buio più totale. Senza quel minimo di luce che con fatica riuscivano ad avere, non era proprio possibile far funzionare l’impastatrice e tutto il lavoro doveva essere svolto a mano, cosa che avveniva molto spesso. L’addetto della cabina elettrica, unico autorizzato dall’Enel a fare riparazioni, doveva scendere in paese, sempre immerso nell’oscurità fitta, salire su una scala e tentare di sistemare una linea che era fatta di fili rotti o logori in più punti, ma quando non poteva andare, tutta la lavorazione doveva essere fatta a mano, usando le candele.
La chiusura del forno imposta dai fascisti, essendo suo padre un convinto repubblicano, lo costrinse ad andare a lavorare nel forno di un suo zio a Porto Potenza: il mezzo che usava per spostarsi era la bicicletta che aveva una luce a dinamo sul manubrio e una sorta di “targa”, ossia una placca di alluminio con inciso un numero registrato al Comune. Con l’entrata in guerra dell’Italia, ma soprattutto sotto i bombardamenti che colpirono duramente anche Porto Recanati iniziò un periodo difficile e ogni volta che suonava la sirena, correvano a rifugiarsi sotto una grotta, al buio, nel palazzo di fronte, insieme a tutti i vicini. Una candela infilata nel collo di una bottiglia, al centro del tavolo, era l’unica illuminazione durante la cena e le finestre dovevano essere serrate per non essere visibili all’esterno, con l’entrata in vigore del coprifuoco. L’atmosfera serale di un interno porto recanatese del 1943 sembra rimandare con un salto temporale di oltre quattrocento anni a un notturno di Georges de la Tour, pittore dell’oscurità e del silenzio, dove spesso è proprio la luce della candela a definire gli oggetti e le figure conferendo alla scena l’intimità dolce e un po’ stralunata dell’ambientazione domestica (Aa. Vv., 2000). Ma Bartoli e altri giovani della sua età riuscivano anche a divertirsi, nonostante le ristrettezze, usando un garage come locale da ballo, illuminato solo con candele, pile o con quello che si trovava in casa oppure, suonando la fisarmonica, andava con un gruppetto di quattro o cinque amici a fare serenate, in giro al buio “co ‘na candela e i cerini, tanto a cantà ce se vedeva uguale!”.
Di balli domenicali fatti sempre al suono della fisarmonica in un piccolo appartamento vuoto e senza luce elettrica, riferisce Giuseppina Filippetti2. Nata nel 1924, Giuseppina ricorda anche, una volta terminata la guerra, la “festa enorme” dei balli al Kursaal, il bel teatro sul mare che era stato inaugurato nel 1931, in sostituzione della vecchia pescheria.
La gioia era grande perché il passato che si lasciava alle spalle era fatto di privazioni e fatica: nel 1933, a soli nove anni, sua nonna la portava con sé a fare il fieno su un carretto che percorreva strade non asfaltate, “era tutta breccia e c’era i cavalli”, la chiamava alle due di notte “Peppinella, alzete, senti i carrioli che so’n’dati ia, partene” e lei salita sul carretto si addormentava lungo il percorso verso la strada Regina, poi “co la falcetta” tagliavano e raccoglievano il fieno finché “non faceva giorno”. Tutto il lavoro veniva svolto al buio, non c’era illuminazione di nessun genere ma riuscivano a farlo “perché già erimi pratici, insomma non c’avemi gnente, al buio, al buio”. La testimonianza di Giovanni Mordini3, nato nel 1928, permette di ricostruire con molta precisione e ricchezza di dettagli quegli anni. Suo padre lavorava saltuariamente nello stabilimento del Cementificio Scarfiotti, fabbrica che produceva negli anni venti 70.000 quintali di cemento Portland l’anno, dando lavoro a una sessantina di dipendenti: la grande struttura copriva un’area di 15.000 metri quadri ed era stata aperta nel 1907, quando aveva avuto inizio un’importante e rapida trasformazione economica e sociale del paese che vide il ceto operaio affiancare e superare numericamente quello tradizionale dei pescatori (www.centrostudiportorecanati.it ).
Il lavoro, fino al 1936-37, veniva assegnato con chiamata giornaliera e la precedenza era data a coloro che erano iscritti al Partito Fascista: quando il padre, prima di decidersi a prendere la tessera, convinto dalla moglie e dalla necessità di sfamare quattro figli, veniva “scalatu”, cioè rifiutato, non scelto, era necessario limitare ancora di più le spese, perché si passava dalla abituale povertà alle ristrettezze estreme. Tornare al lavoro era del resto indispensabile anche per poter fare la spesa nello spaccio interno all’azienda, pagando con una trattenuta nella busta paga ogni quindicina, cadenza con la quale veniva pagato il salario. Acquistavano pasta, farina, baccalà e olio d’oliva, mentre il pane veniva fatto in casa: dodici pagnotte ogni settimana e una crescia con l’orello (orlo). La luce elettrica era un lusso che non potevano permettersi spesso in famiglia, e dal momento che l’illuminazione della casa veniva perlopiù fatta con candele e lume a petrolio, che ricorda con un tubo di vetro sempre affumicato, la sera andavano a letto molto presto.
L’utilizzo della lampadina da cinque candele era dunque centellinato, sorvegliato dalla madre che raccomandava ai figli di non accenderla troppo, di non “llugrà”, non consumarla e strettamente collegato al lavoro del padre: se mancava il lavoro, venivano a “stroccà”, staccare la luce e si ricominciava con lume e candele. Ma quell’unica lampadina da cinque candele e dalla tonalità un po’ giallognola – “parea che illuminaa tutto el celu e per quei puretti che ce lea era na cuntentezza che nun se pole mmaginà” –, dava una gioia immensa perché era un bene prezioso.
Tutte le testimonianze sono concordi nella descrizione della pubblica illuminazione, scarsa e presente solo in alcune zone, le più centrali, costituita da un solo lampioncino per un’intera strada, o attaccato agli angoli delle case, con una sola lampada protetta da una plafoniera bianca o appeso centralmente in mezzo alla via a un filo elettrico che univa le case dei due opposti marciapiedi, come ricordano sia Giuseppina Grilli (( Intervista a Giuseppina Grilli, realizzata a Porto Recanati il 07/12/2010.Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. ))nata nel 1932, sia Michele Michelini4, del 1923. La Grilli detestava le candele che furono costretti ad usare fino alla fine della guerra, perché “metteva ‘na malinconia !”, mentre Michelini ricorda che anche il Corso principale, dove abita tuttora, era illuminato molto debolmente.
La situazione delle strade, sebbene siano passati due secoli, non doveva presentarsi troppo dissimile da quella descritta da Montesquieu nel suo Viaggio in Italia (2008). A Firenze si “vive con molta economia […] La sera, si fanno lume con una piccola lanterna […] Nelle case, quando non si gioca, l’illuminazione è data da una lampada; quando c’è poca gente, una fiamma; quando la gente entra, accendono tre fiamme: perché la lampada ha tre bracci e poggia su una specie di candeliere […] Nessun caminetto e, nel cuore dell’inverno, niente riscaldamento”. La festività del Natale non prevedeva allora alcuna illuminazione particolare, né in casa, né per le vie, e chi faceva l’albero lo addobbava con mandarini, arance e qualche torroncino, mentre una processione che si celebra nel paese ogni Venerdì Santo, la “bara de notte” è presente nel ricordo di tutti. Il rito, che risale al 1713, fu istituito dalla Confraternita del Cristo Morto e consiste nell’allestimento di una struttura alta quasi cinque metri in legno e tela che simboleggia il sepolcro, la “bara” appunto di Cristo, montata ogni anno in segreto da un artigiano incaricato e istruito dal suo predecessore. La “bara” viene portata per le vie del paese con una lenta e notturna processione, che prevede tante soste nelle vie quante furono le “stazioni” della passione di Cristo.
Ebbene è nitido, nel ricordo di tutti, il corteo di uomini e donne al seguito con torce accese; al passaggio della Bara, si ponevano sui davanzali delle finestre di ogni casa delle candele accese per illuminare le strade buie. Meno suggestivo ma sicuramente divertente è invece il frammento di un’altra antica festa, quella di san Martino, che riemerge dal ricordo di Luciana Gardini5, nata nel 1932: per le strade di Ancona, era il 1940, dove suo nonno, fascista che “avea fatto la Marcia su Roma” l’aveva portata, vide un uomo incappucciato che andava in giro per le strade buie con una campana e con un lume acceso in mano gridando: “Se tutti gli scurnati avesse un lampiò, madò che illuminaziò!”. La Gardini, che detesta la luce fioca e giallognola del passato, ricorda tra l’altro che le bollette della luce da pagare erano l’incubo di via Garibaldi, dove abitava e quando sulla strada si presentava l’incaricato alla riscossione, un tal Carloni, che portava in una borsa a soffietto le bollette da consegnare, una persona cominciava a gridare: “È arrivato Carloni!”, e tutti si precipitavano a chiudere la porta, perché i soldi per pagare non c’erano proprio. L’incaricato dava allora cinque o sei giorni di tempo per pagare e poi tagliava la luce e “a tanti la tagliava!”.
Per sopperire alla necessità di scaldare la casa, suo padre che era meccanico aveva costruito una stufa a segatura, che fu utilizzata per diverso tempo. Sensazione terribile quella del dover restare chiusi nel rifugio, seppure solo per un’ora. Con i bombardamenti da mare, lei si rifiutava di fuggire e restava a casa, col nonno, stranamente non aveva alcuna paura dei bombardamenti, aveva più timore di chiudersi nel rifugio. Nel 1942/43 quasi nessuno aveva in casa la luce né tantomeno un apparecchio radio, per cui molte persone si riversavano davanti alla locale Casa del Fascio per ascoltare le audizioni che tutte le sere venivano trasmesse, mentre qualcuno riusciva di nascosto ad ascoltare Radio Londra, che faceva conoscere una verità ben più tragica di quella ufficialmente diffusa dal regime fascista: Porto Recanati, che contava allora appena cinquemila abitanti ebbe trentanove caduti militari e quattordici civili, tra cui molti bambini, per i bombardamenti o per lo scoppio di ordigni bellici.
Tre erano i rifugi antiaerei principali approntati per difendersi dai bombardamenti, in piazza Carradori e nel cortile dei Salesiani, nella zona sud del paese, e nell’attuale piazza Brancondi, che allora si chiamava piazza Umberto I, a nord. I bombardamenti erano quotidiani, ce ne furono almeno centoquaranta, e miravano a distruggere i due ponti della strada e della ferrovia sul fiume Potenza, che non crollarono mai, ma furono fatti saltare dai genieri tedeschi durante la ritirata. Anche i bombardamenti navali furono numerosi e colpirono alcune case sul lungomare Lepanto. Giuseppina Filippetti6 ricorda nitidamente il terrore dei bombardamenti che la sorpresero in spiaggia spingendola a nascondersi sotto le barche e poi la corsa folle sotto gli spari “in mezzo al fogo” per raggiungere a nord, verso la fabbrica Montecatini, le case dei contadini, dove trovavano rifugio nelle stalle, che venivano illuminate con candele o con il lume a petrolio.
Una candela costava sui quattro soldi, una cifra importante se si considera che equivaleva alla paga di una giornata di lavoro, e ancora di più costava il lume a petrolio, che si consumava più in fretta e proprio per questo, come confermano tutte le testimonianze raccolte, veniva utilizzato solo in cucina, mentre le altre stanze e le scale venivano illuminate solo con candele. Suo marito Giulio Petrini7, nato nel 1920 a Loreto, tornando con la memoria a un paese con tante zone buie e pochi lampioni, ricorda che in casa le candele facevano tanto fumo da annerire il naso. Per Il suo lavoro di muratore,che lo ha portato a realizzare anche il pavimento della Santa Casa di Loreto nel 1937, doveva smettere quando tutte le candele disponibili erano finite. Grandi ristrettezze, “le miserie nere”, nessun servizio igienico nella piccola casa a un solo piano, difficoltà a barcamenarsi e un’illuminazione pubblica così scarsa “a bago bago” che non si vedeva una persona a venti metri, questo è quanto emerge dal vivacissimo narrare di Giovanni Gasparini8, nato nel 1921: la luce era un lusso, che veniva spesso letteralmente tagliato, perché non si riusciva a pagarlo e allora si tornava al lume a petrolio e alle candele. Lungo le vie del paese, intorno al 1930/31 i lampioni erano pochissimi e posti a distanza di cento, centocinquanta metri l’uno dall’altro anche nelle due vie principali, il Corso e il Lungomare, che non erano asfaltati ma ricoperti di “breccia”, di terra. La barca di suo padre, che era un pescatore, emigrato due volte in Argentina senza fare fortuna, veniva illuminata con un piccolo fanale di lamiera, dotato di una cordicella e al cui interno era posta una semplice candela, ma non illuminava per niente. Anche il ricordo della guerra è vivace, perché “l’ha fatta” da marinaio: aveva vent’anni quando la sua e altre tre imbarcazioni sono state affondate a Palermo, dai bombardamenti degli americani.
Quattro ore di naufragio in acqua e poi credendosi finalmente in salvo sul molo palermitano ecco di nuovo da levante squadriglie americane che lanciano bombe a raffica su di loro. Iniziano a correre verso un rifugio, che però per fortuna lui vuole lasciare poco dopo temendo di “fa’ la fine del topo”, e via di corsa verso un piazzale, riuscendo così a scampare alla morte, con altri due marinai di Numana e Porto San Giorgio. Si è ritrovato dunque proprio lì a Palermo in mezzo a una feroce battaglia, tra i bombardamenti degli alleati e le cannonate tedesche, ha visto saltare il rifugio, dove avevano pensato di riparare pochi attimi prima, tomba per moltissime persone che si erano messe in salvo là sotto.
Ricorda, con qualche nota di rimpianto per l’ordine e la sicurezza nelle strade che oggi non ha più, gli anni della dittatura fascista, ma subito la associa all’orrore per l’olio di ricino e l’imposizione di non poter circolare dopo le due di notte: si viveva nella paura. Abitava nella campagna del piccolo comune di San Girio Elisa Senigagliesi9; il suo narrare fa materializzare i ritmi e le abitudini della vita contadina, sconvolti anch’essi dalla guerra, come la filatura della canapa che veniva coltivata, essiccata, battuta e utilizzata sia per la produzione di cordame, sia per la tessitura di lenzuola da corredo. La sua famiglia era composta da ben ventiquattro persone, di cui quattordici figli di età compresa fra tre e quattordici anni; vivevano “sotto padrone” e da lui sono stati “divisi” in due nuclei. Il suo comprendeva dieci persone che alloggiavano in una casa attigua a quella padronale, illuminata da un lume a petrolio in cucina e con candele in camera.
La luce elettrica è stata introdotta nel 1942 e la cabina si trovava nei pressi di un mulino ad acqua, sulla strada Regina: ricorda un aneddoto divertente su un suo vicino di casa un po’ all’antica che, quando andarono per fare l’allaccio chiese ingenuamente “chi riva prima a casa io o la luce?”. Candele, lume a petrolio o luce si aveva l’abitudine di accendere solo nella stanza dove si stava, non erano ammessi sprechi. Nella stalla della sua abitazione un ripostiglio serviva da rifugio quando i bombardamenti, che arrivarono a colpire un pagliaio e il campo vicino, costringevano a nascondersi al buio; il suono della sirena e una “macchina che passava a di’ de smorcià le luci” avvertivano che doveva iniziare l’oscuramento totale. Tre famiglie di “sfollati” abitavano insieme a loro e mangiavano con loro, perché non avevano niente, in quella casa sempre gelida che il camino non riusciva a scaldare a sufficienza.
Gli anziani utilizzavano il “prete” e la “monaca”, un’intelaiatura di legno con cui si poteva tenere tra le lenzuola un recipiente pieno di brace ardente, come hanno indicato del resto anche altri intervistati, per cercare di riscaldare un po’ il letto,mentre i giovani utilizzavano uno scaldaletto di rame. Sul letto duro e scomodo perché fatto solo di tavole, si poggiava un materasso realizzato riempiendo un sacco con le bucce migliori, più bianche e morbide del granturco. “Ce ranciavamo, lì per lì era caldo, poi se ghiacciava subito”. Delle strade di Porto Recanati dove è venuta a vivere nel 1957, dopo il matrimonio, ricorda il Corso, debolmente illuminato e le vie interne molto buie.
Anche lei, come tutte le altre donne, non usciva mai la sera e il primo acquisto di un televisore risale al 1962, mentre prima si andava a vederlo in un piccolo bar sul Lungomare, prendendo solo un caffè. L’inverno ’43/44 fu particolarmente difficile e come ricorda nelle sue memorie Giovanni Mordini10 (2008), la chiusura delle fabbriche e la povertà spingeva molti ad arrangiarsi, cercando in campagna un po’ di frutta e verdura. Il pasto abituale in famiglia consisteva in fagioli e verdure cotte. Sua madre faceva evaporare l’acqua del mare per ottenere un po’ di sale e ha vivo nella memoria il ricordo di lei affaccendata a maneggiare la “sventola” davanti la “rola”, il pianale posto davanti al camino e a “ppiccià” il “fogu in mezzo”, con la legna sempre un po’ umida che riempiva la casa di fumo.
Quella del braciere centrale attorno a cui si riuniva la famiglia per scaldarsi e per avere un po’ di luce è un’immagine ricorrente nella narrazione di molti: era il momento in cui si leggeva, anche libri e romanzi, come ricorda la Filippetti, si raccontavano favole ai bambini, si parlava un po’ prima di andare a letto, molto presto, per via del buio e del freddo. Qualcuno riusciva anche ad inventarsi qualche congegno per ottenere un po’ di illuminazione e a questo proposito è interessante il racconto di Anna De Chellis11, nata nel 1927, che si è trasferita a Porto Recanati, dopo essere vissuta per ventitré anni in Abruzzo, dove era nata. Suo padre era casellante e sorvegliava la linea ferroviaria di Castel di Sangro, sprovvista completamente di luce: l’illuminazione era realizzata lungo i binari e in casa con lampade ad acetilene, da caricare ogni giorno, usando il carburo fornito dalle Ferrovie; si faceva gocciolare l’acqua dal serbatoio superiore per far sviluppare il gas che, una volta acceso produceva una luce forte, bella ma “tremenda”. Anna ne ricorda l’odore aspro e la pericolosità, visto che una volta la lampada è scoppiata in mano a suo padre, al momento dell’accensione. Si doveva, infatti, stare molto attenti a far uscire l’acqua goccia a goccia, lentamente, per evitare la fiammata improvvisa. Le lampade ad acetilene di cui disponevano erano di due tipi: quella con cui suo padre andava in servizio era più grande e provvista di un fanale, che emetteva una luce intensa perché doveva camminarci lungo la ferrovia, era “come la luce dei treni”, mentre quella che usavano in casa aveva un “bussolotto” sotto, dentro cui si mettevano le “pietre di gas”, il carburo.
Con lo scoppio della guerra e assediati da sei mesi di bombardamenti, venne distrutto tutto, “non c’era più niente”, ma suo fratello era riuscito a fabbricarsi un piccolo impianto elettrico, utilizzando i fili del telefono che avevano lasciato i militari, collegati a una piccola lampadina: l’oscuramento era totale e ogni volta che l’accendevano, solo per cenare “el fuuumo!” li avvolgeva insieme all’odore insopportabile, ma almeno si riusciva a vedere qualcosa. Suo padre aveva costruito per sfuggire ai tanti bombardamenti un rifugio, che veniva illuminato sempre con acetilene o con le torce, ma poi dovettero proprio allontanarsi dalla linea ferroviaria e sfollare in campagna, per una settimana, trovando rifugio in un pagliaio, nel buio più completo e in compagnia di topi molto grossi. Lei ha iniziato a lavorare molto presto, a dodici anni, prima ricamando dalle suore e poi facendo la sarta, sempre usando la lampada ad acetilene per illuminare la zona di lavoro e il ferro a carbone, che veniva fatto scaldare sulla stufa a legna, per stirare. Con l’arrivo a Porto Recanati negli anni Cinquanta, la luce elettrica le ha permesso di avere anche un ferro da stiro che non bucava più le camicette di seta. Un altro sarto con cui ho conversato, Giuseppe Campolo12, nato nel 1924 a San Lorenzo, in provincia di Reggio Calabria, ricorda con grande lucidità molti dettagli sulla vita quotidiana degli anni intorno al 1930. Suo padre aveva un piccolo negozio di generi alimentari, che vendeva proprio di tutto, persino quaderni e chiodi, come oggi nella grande distribuzione. Nel suo paese l’illuminazione elettrica non era ancora arrivata e il paese collinare era fornito di lampioni alimentati con acetilene a carburo, che venivano accesi la sera dal lampionaio, proprio come avveniva a fine Ottocento, fornendo comunque una discreta illuminazione che permetteva di uscire la sera in tutta tranquillità; anche il negozio era illuminato con la luce bianca diffusa dalla lampada a carburo, così come nell’abitazione, dove si girava per le stanze con il lume a petrolio. Porto Recanati quando vi giunge il 6 febbraio del 1946, si presenta come un paese di cinquemila abitanti, dove l’attività prevalente è tornata ad essere la pesca, un paese ferito dalla guerra. L’abitazione che Campolo prende in affitto ha acqua e servizi fuori, nel cortile, pochissime le macchine in circolazione e ancora più modesta la vita sociale, soprattutto di sera, nonostante la luce elettrica sia ora diffusa. Con grandi sacrifici, avvia una piccola sartoria, che inizia progressivamente a lavorare a pieno ritmo, anche per sedici ore al giorno. Nel paese ci sono ancora le truppe di occupazione: la sera le ragazze che lavoravano in sartoria fino a mezzanotte venivano da lui riaccompagnate a casa, ma in giro c’era una certa tranquillità per le vie debolmente illuminate, la paura più forte e diffusa nel paese era quella dei licantropi o “lupi mannari”, il cui urlo è stato sentito una volta dallo stesso Campolo. L’attività di sarto allora consisteva nel confezionare a mano i vestiti, su ordinazione, per tutta la famiglia e per tutte le occasioni, impiegando in media tre giorni di lavoro per completarne uno, con un costo di manodopera che si aggirava sulle 2500 lire. La povertà unita alla mancanza di abiti confezionati spingeva molte ragazze a imparare a cucire per realizzare in casa i vestiti e per questo alcune di loro hanno frequentato una scuola di taglio, come racconta Vanda Sampaolo13, nata nel 1922 che ne ricorda anche il costo, sulle 20,25 lire e l’illuminazione, con il lume a petrolio, sufficiente per cucire. Lei, sei figli in famiglia, viveva in un’abitazione sul Corso del paese dove vedeva letteralmente gelare l’acqua che entrava per via della pioggia battente “a vento”. Mi descrive il “fogò” di cui anche gli altri hanno fatto menzione: era un grosso quadrato di legno, con al centro una bacinella metallica che veniva riempita di carbonella, per riscaldare la cucina. Quanto alle candele, unica fonte di illuminazione durante la guerra, ricorda il riutilizzo che faceva suo zio degli avanzi di cera, mettendoli dentro una canna. Mancava il sapone, ma mancava anche il cibo, perché con le sanzioni quello acquistato con la tessera era così scarso che solo il ricorso al “mercato nero” permetteva di sfamarsi. Suo nonno, guardiano della Pineta, si procurava un po’ di patate, ma spesso dovevano andare a rubare in campagna. L’oscuramento era “tremendo” e tutte le notti al suono della sirena, bisognava chiudersi in casa, con le candele e mettere una stoffa nera sul vetro per oscurare completamente. Verso la metà di maggio del 1944, con i tedeschi in ritirata e il fronte di guerra che si avvicinava sempre più, venne diramato l’ordine in tutto il paese di lasciare le case, “un ordine di sfollamento obbligatorio”, col coprifuoco che iniziava dopo le dieci, come ricorda tra gli altri Michelini14, per cercare un provvisorio alloggio in campagna: luci spente, allarme, nessuna attività. Le famiglie spesso molto numerose erano smembrate con lo sfollamento, perché era impossibile trovare un alloggio unico per tutti. Alcuni decidevano allora di non muoversi dal paese nonostante il divieto, e mandavano comunque i figli in un posto più sicuro: Michelini alloggiò a casa di una zia in campagna, verso il Ponte di Loreto e poi da sua nonna. Neppure il padre di Vanda Sampaolo voleva portare la famiglia nei rifugi, perché aveva paura che crollassero sotto i bombardamenti, e decise di mandare i figli in campagna: Vanda ricorda la campagna sotto la neve e una stalla, illuminata col lume a petrolio, che fu il suo riparo per due lunghi mesi, senza servizi igienici, c’era a malapena l’acqua “pe’ lavasse la faccia”. Durante l’oscuramento ricordano Giacomina Maroni15 e Teresa Pierini16 il paese era immerso nel buio più completo, ma si camminava lo stesso un po’, ci si era abituati a muoversi nell’oscurità e nelle case in campagna, dove avevano trovato rifugio da sfollate, usavano solo il lume a petrolio, non c’era proprio la luce elettrica. Entrambe mi sottolineano con forza quanto fossero difficili le condizioni di vita, quanto diffusa fosse la miseria e limitata la scelta del cibo, spesso solo castagne o solo uva per giorni e giorni e ci si riscaldava col “fogò in mezzo alla stanza”; le donne “reggevano” la famiglia, lavoravano duramente raccogliendo fieno ed erbe, dal momento che i mariti erano emigrati in Argentina, perlopiù senza fare fortuna visto che tornavano a casa con le “lagrime agli occhi”. Le truppe polacche entrarono in paese all’alba del 1 luglio 1944 e molti sfollati, esausti, credettero di poter far ritorno a casa, per tornare a una vita normale, ma nella notte tra il 4 e il 5 luglio si “scatenò l’inferno”, come ricordano soprattutto Mordini17 e Michelini18: piccoli aerei tedeschi, con ripetuti passaggi, mitragliarono per ore le truppe polacche e i carri armati “ammucchiati vicino ai Salesiani”. Mordini19 ricorda che quella sera erano andati a letto molto presto, come d’abitudine, perché mancava la luce e anche le strade erano buie. Le candele non si trovavano da mesi, si trovava solo un po’ di carburo per le fumose lampade all’acetilene: quella notte caddero bombe in ogni via, con colonne di fumo e morti tra i civili, sia a Porto Recanati, sia nella vicina Loreto dove una bomba colpì la cupola della Basilica della Santa Casa. Con la fine della guerra e col lento ritorno alla normalità, migliorano con una certa rapidità tutti gli aspetti della vita quotidiana e anche il rapporto col buio cambia, irreversibilmente e positivamente, come tutti sottolineano, con espressioni nette, senza rimpianti di nessun genere. Molti anni dopo, nel 1960, negli anni della rinascita economica in cui cominciano a diffondersi alcune innovazioni, era una festa grande andare a vedere un’ora di televisione il sabato sera, dopo una giornata di dura fatica, al dopolavoro della Montedison: le due fabbriche di Porto Recanati, la Montedison e i Cementi,disponevano di un dopolavoro che offriva una sala di lettura, uno spaccio alimentare e un bar con un apparecchio televisivo, ancora una rarità nelle case di allora (www.centrostudiportorecanati.it ). Con l’acquisto di un cioccolatino, “un boero”, ricordano ridendo entrambe, si poteva star lì per più di un’ora. Oggi con tutte le comodità “c’hai el mondo dentro casa!”.
Non è più necessario a volte accendere la luce in casa di notte, perché, dicono la Filippetti20 e la De Chellis21, è la luce esterna che entra in casa, aprendo un po’ la finestra. “Piacere” e “gioia”sono le sensazioni che suscita l’illuminazione attuale e le uniche critiche raccolte vertono sugli sprechi inutili per chi ha vissuto l’esperienza dura della privazione, come illuminare anche le stanze dove non si soggiorna, o qualche eccesso nell’uso della tecnologia sia in ambito domestico che pubblico.
La luce era un bene così prezioso che, racconta Luciana Gardini22, in passato veniva eseguito un suggestivo rituale: quando moriva un pescatore, gli altri suoi compagni di lavoro infilavano la “rigola”, la barra che si aggancia al timone, in alto sulla lancetta per formare una croce e mettevano un lume con la candela per far luce. Questo rito si ripeteva anche nel giorno dei morti, il due novembre, e ogni lancetta sul lungomare, sulla battigia veniva illuminata col lampioncino: un modo di illuminare la notte che sarebbe stato nelle corde di Caravaggio o di La Tour, carico di un forte valore simbolico, malinconico perché riferito alla fine dell’esistenza, possibile spia forse di un’accettazione forzata e rassegnata ma collettiva del buio, in sostituzione della quale proviamo oggi una vaga inquietudine, che cerchiamo di esorcizzare in parte cancellando totalmente ogni ombra.
”Bibliografia”</p>
Biografia
Abstract english
Contenuti correlati
- Intervista a Marcello Bartoli, realizzata a Porto Recanati il 17/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giuseppina Filippetti, realizzata a Porto Recanati il 05/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giovanni Mordini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Michele Michelini, realizzata a Porto Recanati il 04/11/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Luciana Gardini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giuseppina Filippetti, realizzata a Porto Recanati il 05/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giulio Petrini, realizzata a Porto Recanati il 05/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giovanni Gasparini, realizzata a Porto Recanati il 03/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Elisa Senigagliesi, realizzata a Porto Recanati il 06/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giovanni Mordini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Anna De Chellis, realizzata a Porto Recanati il 08/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giuseppe Campolo, realizzata a Porto Recanati il 18/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Vanda Sampaolo, realizzata a Porto Recanati il 09/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Michele Michelini, realizzata a Porto Recanati il 04/11/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giacomina Maroni, realizzata a Porto Recanati il 13/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Teresa Pierini, realizzata a Porto Recanati il 13/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giovanni Mordini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Michele Michelini, realizzata a Porto Recanati il 04/11/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giovanni Mordini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Giuseppina Filippetti, realizzata a Porto Recanati il 05/01/2011. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Anna De Chellis, realizzata a Porto Recanati l’08/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]
- Intervista a Luciana Gardini, realizzata a Porto Recanati il 05/12/2010. Copia del file video dell’intervista e la trascrizione integrale di quest’ultima sono conservate presso l’Archivio delle Voci (Laboratorio di storia sociale Memoria del quotidiano, Università di Bologna, Polo di Rimini, www.laboratoriodistoriasociale.eu) https://mail.unibo.it/owa/UrlBlockedError.aspx. [↩]