di Eleonora Belloni
Le più recenti indagini demoscopiche volte ad accertare il grado di soddisfazione della vita raggiunto dalla popolazione italiana sembrerebbero far pensare che gli enormi progressi (sorretti da incontrovertibili dati oggettivi) registrati dal secondo dopoguerra ad oggi in tutte le dimensioni del benessere non siano accompagnati da una pari percezione soggettiva di tali miglioramenti. Il fenomeno è in gran parte spiegabile con quella che gli psicologi chiamano habituation, e che indica in sostanza la tendenza a valutare le condizioni proprie e dell’ambiente in cui si vive con uno sguardo miope che tende ad ignorare il passato, anche non troppo lontano, e a dare per scontate le acquisizioni più o meno recenti. Quale migliore occasione, dunque, di quella offerta dai ravvicinati anniversari della nascita di Confindustria e dell’Unità d’Italia per ripercorrere le tappe di quello straordinario progresso vissuto dal nostro Paese in un lasso di tempo che, storicamente, appare brevissimo? E nel contempo per indagare le ragioni di una crisi che, se pur internazionale, sembra aver colpito il nostro Paese prima e più profondamente di altri, costringendolo ad una fase di ristagno economico che dura ormai da un quindicennio?
Questo l’intento della pubblicazione promossa da Confindustria in occasione delle celebrazioni del proprio centenario, e curata da Luca Paolazzi, che di Confindustria dirige il Centro Studi. Una raccolta di saggi, che rileggendo le tappe fondamentali dello sviluppo italiano con approccio interdisciplinare, si propone di fornire al lettore una lente correttiva che lo aiuti a rivolgere lo sguardo all’indietro, per poi “vedere meglio in avanti” (p. VI).
È del resto il titolo stesso del volume – Libertà e benessere in Italia – a fornire fin da subito la chiave di lettura di un percorso in cui i due termini appaiono legati a doppio filo: la libertà, intesa qui nel suo significato più ampio non esclusivamente riconducibile alla semplice libertà di iniziativa privata, come molla del progresso e del benessere; il benessere come fonte di nuove e più ampie libertà. Così come il sottotitolo – 150 anni di storia unitaria e i traguardi del futuro – chiarisce la volontà che la ricostruzione storica non rimanga fine a se stessa, ma rappresenti un momento di riflessione proiettato ad un futuro che, si auspica, possa conoscere il superamento della crisi attuale ed il rilancio dello sviluppo del Paese. Ripercorrere il passato, insomma, alla ricerca di quella ricetta di sviluppo, di quei valori e di quegli ideali, che già in passato hanno permesso al Paese di superare crisi ben più gravi, e che tuttavia sembrano oggi essere andati smarriti.
L’analisi non poteva, ovviamente, non partire da quella straordinaria trasformazione, materiale, ma non solo, che ha permesso all’Italia di raggiungere livelli di crescita che la pongono oggi stabilmente tra le prime dieci economie del mondo per Pil totale. Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi (Nel secolo breve il lungo balzo del benessere degli italiani) ripercorrono, con il supporto di indagini statistiche puntuali ed innovative, quel percorso “che ha prodotto in centocinquanta anni un vorticoso cambiamento in tutte le dimensioni della qualità della vita” (p. 4), tale da trasformare un Paese ancora annaspante nella condizione millenaria di miseria in una moderna società dei consumi di massa.
L’analisi, quantitativa e qualitativa, della trasformazione dei consumi conferma di fatto la crescita “rivoluzionaria” vissuta dal Paese soprattutto nell’ultimo sessantennio, quando i consumi degli italiani sono cresciuti di circa quattro volte e mezza. Innumerevoli le conquiste: da quelle riguardanti i bisogni primari (alimentazione e vestiario), all’abitazione, da sempre priorità assoluta delle famiglie italiane; dagli elettrodomestici alle automobili, entrambi divenuti simboli del “miracolo” italiano degli anni Cinquanta e Sessanta che rese “irriconoscibile, nello spazio di una generazione, la vita quotidiana dell’italiano medio” (p. 56). Ma la ricostruzione non potrebbe dirsi completa se si trascurassero tutte quelle acquisizioni, assai meno quantificabili ma non per questo meno rilevanti, che vanno ad interessare la qualità della vita di ogni individuo, influenzandone la percezione del proprio benessere. La salute e l’istruzione, ad esempio, vengono ad assumere in tale prospettiva il peso di variabili imprescindibili nel completare il quadro di un Paese che continua a presentarsi percorso da grandi contraddizioni. Così, se i dati sulla speranza media di vita ponevano l’Italia dell’Unità ad uno degli ultimi posti in Europa, oggi la stessa classifica la vede seconda solamente al Giappone, a testimoniare l’incontrovertibile benessere raggiunto dalla società italiana, pur nel quadro di un “problema demografico” (Massimo Livi Bacci, La popolazione muove la frontiera dello sviluppo) in cui alcuni fattori, a partire dalla riduzione della natalità e dall’emergere di nuove patologie sociali, quali depressione ed obesità, sembrano passibili di frenare, quando non di annullare, i vantaggi accumulati dalle generazioni precedenti.
All’opposto vi è la situazione dell’istruzione, che tende a rimanere il vero tallone d’Achille dello sviluppo italiano. Per finire, l’annoso e tutt’ora irrisolto problema dei grandi divari interregionali, che – lo studio lo mostra con chiarezza – tendono ad investire, in misura più o meno pronunciata, tutte le dimensioni del benessere prese in esame. Un problema, quello della “questione meridionale”, che centocinquanta anni di storia unitaria non sono riusciti a debellare, riproponendolo invariato alle generazioni future.
Un problema che, non a caso, viene indicato da Fabrizio Galimberti (Breve storia della libertà economica in Italia) come “forse la più grossa limitazione alla libertà economica” (p. 129) che ancora grava sul Paese. Una battaglia ancora aperta, quella per il superamento delle lacune storiche dell’Italia nel campo delle libertà economiche. Una battaglia, dal cui esito dipende gran parte delle speranze di rilanciare lo sviluppo economico italiano, se è vero – come la storia ripercorsa in questi saggi sembra dimostrare – che benessere e libertà sono indissolubilmente legati a doppio filo.
La libertà economica – ci ricorda Galimberti – “è un concetto relativo, quello che in un dato momento storico e in un dato Paese sarebbe da condannare, può invece essere appropriato in circostanze diverse” (p. 104). La storia delle libertà economiche in Italia lo conferma pienamente. Dopo la politica liberista fatta propria, sul modello sabaudo, dai primi governi post-unitari, la crisi agraria che investì l’Europa intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento determinò anche in Italia quella svolta protezionista che, attraverso le leggi del 1878 e del 1887, finiva per avvantaggiare non solo l’agricoltura, ora protetta dalla concorrenza del grano americano, ma anche l’industria tessile, prima, e quella siderurgica, poi. Partendo da tali premesse, lo spirito di una nuova imprenditorialità andò ad innestarsi, ad inizio Novecento, in un tessuto reso favorevole da una situazione di distensione politica e di stabilità monetaria, rendendo possibile “la rivoluzione industriale italiana”. È quello il momento in cui la libertà economica si esplica nella nascita di tante piccole e medie imprese, che poi costituiranno il tessuto connettivo del sistema produttivo nazionale; nella crescita di poche ma importanti aziende di grandi dimensioni; nella formazione della prime forme di rappresentanza organizzata, sia operaia che padronale, che lungi dal limitare quella libertà, ne facilitavano il pieno esercizio.
Saranno la prima guerra mondiale, prima, ed il fascismo, con la sua svolta autarchica, poi, ad interrompere il trend positivo dello sviluppo nazionale, finendo per imprimere all’economia italiana quella caratterizzazione di “economia mista”, che si rivelerà nel secondo dopoguerra un fardello di cui sbarazzarsi solamente a costo di grandi sacrifici. La storia dell’ultimo sessantennio è la storia di come il ritorno ad una politica di libertà economica e di scambi internazionali all’interno di un sistema fondato sulla pace e la collaborazione rappresenti per l’Italia l’unica ricetta di sviluppo e di benessere, sebbene il risanamento resti – come dimostrano le conclusioni di Galimberti, e come confermano le vicende dell’ultimo quindicennio – un risanamento “incompiuto”, che rende necessario un rilancio dello sviluppo nazionale.
Un rilancio che non potrà prescindere dal recupero e dalla valorizzazione di quello spirito imprenditoriale che ha fatto da leva dello sviluppo fin da quando, al passaggio di secolo, un gruppo di imprenditori ancora poco nutrito numericamente ma sicuramente motivato ed aperto alle spinte innovatrici, pose le basi per il primo nucleo embrionale dell’industrializzazione italiana. Un nuovo spirito imprenditoriale che, al di là delle differenti strategie settoriali, accomunava piccoli, medi e grandi industriali nella sfida che avrebbe condotto il Paese a colmare il gap che ancora lo allontanava dalle avanguardie del benessere e dello sviluppo.
Delle grandi imprese, protagoniste dello sviluppo economico italiano, Fulvio Coltorti (Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese) ripercorre le vicende nei centocinquanta anni di storia unitaria, mettendone in evidenza le principali fasi di sviluppo. Dalla nascita, nel periodo post-unitario, fino alla Grande depressione che determinò il passaggio di un gruppo consistente di tali imprese sotto il controllo pubblico; dal secondo dopoguerra, periodo di grande fermento imprenditoriale, in cui “si visse la nuova stagione di libertà come occasione per sviluppare progetti d’impresa che il precedente regime aveva soffocato con la politica autarchica e il favore alle grandi concentrazioni capitalistiche” (p. 142), al “miracolo economico”, che vide il tessuto imprenditoriale come protagonista indiscusso della grande trasformazione; fino agli anni Settanta, quando la crisi creditizia, il periodo di intense lotte operaie, e la nascita dell’Enel nel 1962, a cui si sarebbero aggiunti i due shock petroliferi del 1973-74 e del 1979-80, finirono per penalizzare la grande industria privata, che andò perdendo la propria spinta innovativa a vantaggio di un tessuto dinamico di piccole e medie imprese.
In realtà – come si propone di dimostrare il saggio di Andrea Colli (La piccola impresa nello sviluppo economico italiano) – il ruolo giocato dalla piccola industria nello sviluppo economico del Paese è sempre stato cruciale, tanto da poter affermare che la “duratura e pervasiva presenza della piccola impresa in seno all’economia italiana non solo rende peculiare il percorso di specializzazione produttiva del Paese, ma contribuisce anche a modellare la sua fisionomia industriale in maniera per molti versi divergente rispetto a quanto è avvenuto in altre nazioni industrializzate” (p. 185). Il “capitalismo minore” appare fortemente legato al mondo rurale, in quanto fornitore di semilavorati e materie prime, ma anche di una forza lavoro flessibile e a basso costo. Sfruttando le risorse offerte dalle campagne e dai piccoli centri urbani, le piccole industrie riescono dapprima a fare da premessa stessa all’affermarsi della grande impresa negli anni del decollo, per poi consolidarsi come elemento costitutivo della realtà produttiva nazionale sia nel primo dopoguerra, quando la loro elasticità diverrà anzi elemento chiave per affrontare le sfide della ricostruzione, sia nella difficile congiuntura degli anni Trenta, sia, infine, negli anni del “miracolo”, che seppur dominati dalle grandi aziende pubbliche e private, conoscono un crescente dinamismo pure del settore della piccola e media impresa. È proprio questa, anzi, la fase che apre a quella che Colli definisce “la grande stagione della piccola impresa” (p. 204), quegli anni Settanta che vedono l’affermazione e la “sistematizzazione” dei distretti industriali, grazie anche alle opportunità offerte dall’integrazione economica europea.
Si tratta ad oggi di verificare in quale misura il modello produttivo italiano – del cui percorso di consolidamento storico queste pagine ci offrono un utilissimo strumento di analisi e di interpretazione – possa essere ancora in grado di accogliere le sfide offerte dalla nuova geografia economica mondiale.