di Alessandro Santagata
Alla fine del XIX secolo, dopo che al Congresso di Bruxelles della II Internazionale la questione era stata oggetto di documenti contrapposti, si chiudeva nel movimento operaio e socialista il dibattito sull’antisemitismo. A mettere autorevolmente fine alla discussione era August Bebel, uno dei padri della socialdemocrazia tedesca, che nel suo rapporto del 1893 Sozialdemokratie und Antisemitismus definiva l’antisemitismo “il socialismo degli imbecilli”, prendendo così le distanze da certi ambienti del socialismo utopista, soprattutto francese, della prima metà del secolo. La scomunica dell’antisemitismo operata da Bebel, Viktor Adler, Franz Mehring e Edouard Bernstein avrebbe funzionato come una sorta di lavacro per il movimento operaio cancellando la memoria di un filone di pensiero molto influente sugli sviluppi della polemica antisemita del Novecento e ora al centro della riflessione di Michele Battini nel volume Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione e persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, 2010). Oggetto della ricerca non è l’influsso dell’antisemitismo sul movimento operaio e socialista, ma la storia di un paradigma, quello dell’antisemitismo sociale, nato dall’incontro di percorsi culturali eterogenei, la tesi è che il cosiddetto “socialismo degli imbecilli”, l’antisemitismo dei socialisti francesi Alphonse Toussenel, Gustave Tridon, Georges Vacher de Lapouge e Auguste Chirac, sia da porre in correlazione con lo choc subito dalla Chiesa cattolica con il crollo dell’ordine comunitario e corporativo tradizionale dopo la frattura dei Lumi e la Rivoluzione francese. Rifacendosi soprattutto alle osservazioni di Giovanni Miccoli, Battini rileva come nella letteratura dell’intransigentismo cattolico (Joseph de Maistre, Louis de Bonald) la “questione ebraica” venga interpretata come il prodotto dell’avvento dello Stato costituzionale di diritto e dell’abolizione delle discriminazioni che avevano protetto per secoli la società cristiana dalle speculazioni usuraie della banca ebraica. La polemica antiebraica diviene perciò già nei primi decenni del XIX secolo una funzione della nuova guerra culturale all’economia liberale e alla società dell’individualismo, nonché del progetto di riproporre la religione tradizionale come regolatrice della politica. Sarà poi negli Ottanta e Novanta che l’antigiudaismo si alimenterà della rivolta intellettuale contro la rappresentanza politica parlamentare (si pensi a personaggi come Hippolyte Taine o Maurice Barrès) e il cosidetto “feticcio della merce” (W. Benjamin) realizzando così un’inedita saldatura tra intransigentismo cattolico, nazionalismo, pensiero positivista e settori del socialismo eterodosso. Si tratta di un concerto – sottolinea l’autore – in cui le voci dei settori antidemocratici del movimento operaio si levano in armonia con quelle dei conservatori e dei reazionari, corrodendo le basi della democrazia fondata sui diritti naturali con l’acido ideologico del principio di una diversa “legge di natura”, identificata con il determinismo sociale o ambientale e con la razza. È quindi nella battaglia per la difesa dell’“ordine della gerarchia” (definizione da cui prende il titolo la precedente opera di Battini dedicata allo studio dei filoni del pensiero antidemocratico moderno) che la figura dell’ebreo assurge a simbolo dei mali della civiltà moderna divenendo così il nemico per eccellenza. Nella prima parte del volume Battini affronta il nodo delle origini del moderno paradigma antisemita rilevando l’influenza che il pensiero di Bonald (Sur les juifs, 1806) ha esercitato sugli sviluppi dell’ideologia socialista fourierista, in particolare su quella di Alphonse Toussenel. Come aveva notato già nel 1908 lo storico francese Élie Halévy, Toussenel in Les juifs, rois de l’époque, pubblicato nel 1845, recupera dal “maestro” dell’intransigenza la reazione all’individualismo e colloca l’usura in una cornice moderna di critica nei confronti del mercato autoregolato e dell’emancipazione giuridica. Toussenel ripete inoltre l’accusa di Bonald ai philosophes di aver iniziato una campagna a favore degli ebrei volta a destabilizzare il sistema politico ed economico, ma si spinge ben oltre, fino a elaborare la prima proposta di economia socialista fondata sull’espropriazione delle ricchezze e la ridistribuzione del capitale delle famiglie ebraiche. In tal modo, egli anticipa la richiesta di misura legislative discriminatorie che alla fine del secolo sarà avanzata dagli antisemiti più radicali come Édouard Drumont. Il fatto che poi lo stesso Drumont si confronterà sulla questione antisemita con Auguste Chirac, blanquista noto per le sue propensione autoritarie, sulle pagine della rivista ufficiale del socialismo francese, la “Revue socialiste”, conferma come si tratti di un dibattito tutt’altro che estraneo al movimento operaio internazionale. Lo mostrano, del resto, anche gli esisti del già ricordato Congresso di Bruxelles della II Internazionale, in occasione del quale i più alti dirigenti del movimento operaio decisero di mantenere una posizione equidistante tra la mozione filosemita del militante ebreo lituano-americano Abraham Cahn e le posizioni antisemite dei socialisti blanquisti Albert Reynard e Paul Argyriades, manifestando così quanto fosse ancora forte il pregiudizio antiebraico e la timidezza dei dirigenti nel contrastarlo. Per Battini, tale reticenza si può spiegare con il permanere di un’inclinazione a vedere nell’antisemitismo popolare anche l’espressione di una forma primitiva di anticapitalismo, il che non porta però i leader dell’Internazionale a distaccarsi dalla linea emancipazionistica e assimilazionistica fatta propria da Marx nella polemica con Bruno Bauer.
Con i due saggi che compongono la sezione centrale del volume, Battini entra nel cuore della questione del “socialismo nazionale” come vettore dell’antisemitismo economico. L’autore prende in esame le posizioni dei padri della “Civiltà Cattolica” negli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo sul nesso tra influenza giudaica e sviluppo del materialismo e del liberalismo, entrambi giudicati come il prodotto di quella genealogia dei mali moderni della quale gli ebrei sarebbero stati i principali promotori, mentre, sul versante laico, studia la circolazione del paradigma antisemita moderno negli ambienti del nazionalismo socialista del Cercle Proudhon, che si rifaceva alla lettura di Drumont degli aspetti più ambigui della riflessione di Proudhon sull’influenza degli ebrei nella società. Battini individua in questo ultimo scorcio di secolo la saldatura tra l’evoluzione in senso antisemita dell’antigiudaismo cristiano e i filoni dell’antisemitismo anticapitalista in quel socialismo nazionale che diviene la base programmatica dell’Action française. Nella dottrina politica di Charles Maurras e di Léon Daudet si possono infatti riconoscere non soltanto gli influssi del pensiero corporativista cattolico di Frédéric Le Play e di René de La Tour du Pin, ma anche l’eredità della visione positivista della società di Auguste Comte e le influenze del socialismo utopista saintsimoniano. Sarà poi con l’esplosione del caso Dreyfus che l’antisemitismo contagerà una fetta sempre più larga della società politica francese innescando nuove alleanze politiche tra settori del socialismo blanquista, i seguaci del generale Georges Ernest Jean-Marie Boulanger e le riviste del socialismo nazionale: “La Libre Parole” di Drumont, “L’Antijuif” di Jules Guerin e “Le Courrier de l’Est” di Maurice Barrès. Dopo la prima guerra mondiale – conclude Battini – delle eterogenee retoriche di quella che Zeev Sternhell ha definito “destra rivoluzionaria”, i fascisti erediteranno il progetto di un regime di coesione nazionale di stampo socialista nazionale, anche se Mussolini non ammetterà mai il legame di parentela con gli sviluppi del pensiero francese attribuendo piuttosto la genesi della concezione dell’economia corporativa al manifesto di San Sepolcro e alle rivendicazioni del socialismo nazionale. A fare invece in qualche modo da filtro tra il sindacalismo nazionale francese e l’esperienza fascista italiana è la figura Paolo Orano, curatore della campagna antiebraica italiana che preparò il varo delle leggi razziali, al quale Battini dedica quello che è forse il capitolo più riuscito del volume. A suo parere, nel pensiero di Orano è possibile leggere la stratificazione nella propaganda di regime dei diversi linguaggi antiebraici italiani di stampo cattolico, sindacalista e quindi nazionalista. In Orano, infatti, la scelta antisemita, maturata già durante il periodo giolittiano, è soprattutto una scelta srategica finalizzata a riunione delle forze del “socialismo eterodosso” (rivoluzionario e nazionalista) contro il blocco giudico-liberale e si nutre della lettura di Bonald e Toussenel usati come armi contro lo stesso “socialismo giudico” (pacifista e riformista). Sono idee che ricorreranno anche nella opera più celebre di Orano Gli ebrei in Italia che ne farà negli anni Trenta uno dei portavoce del regime.
Con lo studio su Orano, Battini conclude la parabola che da Bonald porta alle leggi razziali e, pochi anni dopo, all’Olocausto. Quella tracciata dall’autore non è evidentemente una strada lineare, come del resto non lo sono mai i percorsi delle idee nel mondo contemporaneo, resta dunque da capire quale sia stato il rapporto tra la rappresentazione ideologica e la realtà. Scrive Battini: “L’ideologia antiebraica in guerra contro l’emancipazione giuridica dalla fine del XVIII secolo ha elaborato una propria critica della società di mercato, utilizzando una falsa rappresentazione degli ebrei, e i suoi testi di propaganda hanno fornito materiali veri per la fabbricazione di un documento falso, che pretendeva di provare un evento mai avvenuto e l’esistenza di un complotto mai ordito: I Protocolli; questi stessi materiali, però, dal primo pamphlet di Bonald agli articoli di Drumont, servirono a formare un mito politico vero, che sortì effetti sociali reali ed ebbe conseguenze storiche drammatiche sulla scena europea”. Per l’autore, dunque, “i miti sono meno reali delle merci o dei virus, ma sono un aspetto della realtà: l’istituzione di una società e delle sue pratiche politiche ha una dimensione immaginaria”; tuttavia “la realtà sociale non è fatta solo di relazioni immaginarie” ed proprio nella direzione di come certe proiezioni ideologiche siano diventate una realtà totalitaria di sterminio che si muove il volume di Battini.