di Andrea Girometti
Il costituzionalismo garantista e la democrazia in diretta designano modelli teorici e pratiche certamente distanti, antitetiche su diversi aspetti, ma allo stesso tempo risultano utili per indagare gli sviluppi e le antinomie che caratterizzano le democrazie odierne, lo stato di “crisi” che le affligge. Crisi che è connaturata al processo democratico ed emerge negli scarti che inevitabilmente si producono tra aspettative, risultati e pratiche. Due studi recentemente pubblicati – La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e politico (Laterza, 2013) di Luigi Ferrajoli e La democrazia in diretta. Le nuove sfide alla rappresentanza (Feltrinelli, 2013) di Nadia Urbinati – consentono di riprendere, criticamente, il dibattito sulla qualità delle democrazie reali, di decostruirne alcuni luoghi comuni, nonché di evidenziare i pericoli in atto e di proporre un rinnovamento del paradigma democratico. Proveremo a fare interagire i due testi, ancorché scritti da prospettive diverse – da una parte un giurista (Ferrajoli), dall’altra una filosofa della politica (Urbinati) –, e a tracciare una sintesi dei principali argomenti.
La democrazia attraverso i diritti
Luigi Ferrajoli pone al centro della sua riflessione la frattura, in termini giuridici e politici, imposta dalla promulgazione delle “costituzioni rigide” nel secondo dopoguerra. Esse svolgono il ruolo di fonte primaria rispetto alla legislazione ordinaria (ridisegnando la sintassi stessa del diritto), ma non solo in termini formali, bensì sostanziali, circoscrivendo una sfera del non decidibile: “ciò che nessuna maggioranza può validamente decidere, cioè la violazione dei diritti di libertà e ciò che nessuna maggioranza può legittimamente non decidere, cioè la soddisfazione dei diritti sociali costituzionalmente stabiliti” (p. V).
Di fatto si traccia uno stretto legame tra democrazia formale e sostanziale, criticando come obsoleta una concezione meramente procedurale – intimamente indifferente ai contenuti – del processo democratico e scartando dai due paradigmi “classici”, giuspositivista e post-positivista (tendenzialmente neo-giusnaturalista). Il risultato è un terzo modello: una rilettura del costituzionalismo e della democrazia definita ‘garantista’ – le cui tesi di fondo Ferrajoli ha già sviluppato in Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia (Ferrajoli 2007) –, o meglio una ri-declinazione paradigmatica di entrambi capace di completare, da un lato, il paradigma positivista tramite “la positivizzazione delle scelte […] cui il legislatore deve uniformarsi”, dall’altro, “lo stato di diritto e la democrazia, dato che comporta la sottoposizione di ogni potere, incluso quello politico e legislativo, a norme formali e sostanziali dirette in via primaria a limitarne e a vincolarne l’esercizio e in via secondaria a censurane o a rimuoverne le violazioni a garanzia dei diritti di tutti” (p. VI).
La principale derivata di quest’impostazione è “una fisiologica illegittimità del diritto vigente” – impensabile nell’approccio positivista kelseniano, ma anche in un autore come Norberto Bobbio (pp. 39-44) – cui devono rispondere la scienza giuridica e la politica: l’una accertando, l’altra, insieme alla giurisdizione, riparando e correggendo. Ma cosa succede quando il tasso d’illegittimità del diritto vigente diventa patologico? La crisi delle democrazie odierne, particolarmente evidente nell’ambito europeo, crisi a sua volta di legittimità e di risultati, almeno se la si guarda con gli occhi dei molti, è sin troppo evidente. A poteri sempre più impersonali e de-territorializzati come la finanza, corrisponde l’inefficacia e la restrizione del diritto e delle istituzioni politiche, perlopiù ancorate allo stato-nazione. L’autonomia della sfera politica, certamente relativa e problematica rispetto a quella economica, il suo ripiegarsi su quest’ultima assumendo i vincoli dettati dal paradigma “neoliberista” – in cui, nella scena globale, a dire il vero, stati e operatori economici si riconfigurano e riconnettono, in competizione tra loro, tracciando nuove linee di demarcazione e consolidamenti oligarchici piuttosto che lasciare il campo ad un’effettiva “libera concorrenza” senza ingerenze – mina alle fondamenta il paradigma costituzionale svuotando conquiste civili e sociali. Pertanto, i vincoli e le garanzie trascritti nelle costituzioni post-belliche evaporano, e solo un’espansione del costituzionalismo garantista su scala sovranazionale – è la conclusione di Ferrajoli – può arrestare il processo di de-costituzionalizzazione in atto.
Democrazia costituzionale e costituzionalismo garantista. Un mutamento di paradigma
I cinque densi capitoli che compongono il libro – suddiviso tra una prima parte dedicata al modello teorico e una seconda al progetto politico – prendono le mosse dall’esame dei modelli di diritto (giurisprudenziale, legislativo e costituzionale) sino a delineare i tratti della democrazia costituzionale garantista in alternativa alle interpretazioni in chiave “(paleo)giuspositivista e (neo)giusnaturalista”. Se rispetto al paradigma legislativo è comune il carattere formale, e pertanto possono darsi costituzioni di tipo illiberale e anti-democratico, diversamente dal rule of law che incorpora principi di giustizia sostanziale (pp. 23-24), tuttavia è stato il “primo giuspositivismo, basato sul primato della legge [che] ha reso possibile alla legislazione la positivizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali” e “il secondo giuspositivismo, basato sul primato della costituzione e sulla subordinazione ai diritti in essa stabiliti della stessa produzione legislativa, [che] ha reso obbligatoria la positivizzazione delle medesime garanzie mediante la loro imposizione allo stesso diritto positivo” (p. 25).
Nel primo caso, tramite l’introduzione del suffragio universale, è stato possibile stabilire “il chi e il come della produzione normativa” in capo ad alcuni soggetti rappresentativi, nel secondo caso si è posto l’accento sul “che cosa delle norme prodotte a garanzia degli interessi e dei bisogni vitali dei soggetti rappresentati”. Pertanto, il sovra-ordinamento della costituzione, come evento storico-contingente, rispetto alla legislazione, ha imposto un “dover essere logico, oltre che giuridico”, della seconda rispetto alla prima, vincolando la “legge della volontà”, cioè il principio di maggioranza, alla “legge di ragione”, cioè il rispetto e l’attuazione dei diritti fondamentali.
L’intreccio di democrazia formale e sostanziale è la cifra della democrazia costituzionale (pp. 26-27). Per questo la riduzione della democrazia a procedura formale, insieme di regole del gioco che attribuiscono il potere al popolo, in forma diretta o tramite rappresentanti, è inadeguata, anche empiricamente, “a dar conto delle odierne democrazie costituzionali, nelle quali il potere del popolo o dei suoi rappresentanti non è affatto illimitato” (p. 27). Vi sono precisi limiti e vincoli che rinviano ai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti: in primis l’indisponibilità dei diritti di libertà, l’inviolabilità dell’uguaglianza politica come condizione, imprescindibile, per il dispiegamento effettivo della democrazia politica contro l’onnipotenza delle maggioranze (e la premessa che la sorregge: una presunta volontà buona e giusta espressa dalle maggioranze), le derive totalitarie già tragicamente sperimentate nel Novecento (fascismo e nazismo hanno conquistato il potere legalmente), il riemergere – si guardi il caso italiano dell’ultimo ventennio – della demagogia populista strettamente correlata con la produzione del correlativo senso comune. Da ciò segue anche una critica radicale alla possibilità stessa di “autogoverno”, che sarebbe tale solo se tutte le decisioni fossero prese all’unanimità cui, peraltro, corrisponderebbe “un’omologazione ideologica”, la fine del pluralismo e della libertà stessa.
Su questo aspetto Ferrajoli è molto netto: ciò che caratterizza la democrazia […] è non tanto il libero consenso, quanto il libero dissenso” (p. 32). Pertanto, in un quadro in cui le leggi sono sempre eteronome, riguardando tutti allo stesso modo, ““l’autonomia” assicurata dai diritti politici è la libera autodeterminazione di ciascuno che tramite il voto si manifesta , oltre che nella libera partecipazione nella scelta dei rappresentati [che sarebbe impossibile vincolare tramite mandato imperativo, non essendo ipotizzabile neanche solo prefigurare prima delle elezioni le decisioni degli eletti], nel consenso e ancor più nel dissenso nei confronti delle loro decisioni” (p. 33).
Se la dimensione formale della democrazia trova espressione nell’uguaglianza politica di tutti i rappresentati/governati, è sempre al valore connesso all’uguaglianza (e alla dignità della persona in quanto tale) che si àncora la dimensione sostanziale. Allo stesso tempo, se le decisioni politiche e la produzione legislativa implicano, come già accennato, “una virtuale e strutturale divaricazione tra la validità e il vigore, cioè tra il dover essere costituzionale e l’essere della produzione legislativa” (p. 45), la “democrazia garantista” si articola in quattro dimensioni: politica, civile, liberale e sociale. Le prime due di carattere formale le seconde sostanziale, esse “corrispondono alle quattro classi nelle quali possono distinguersi tutti i diritti fondamentali: i diritti politici e civili, i diritti di libertà e i diritti sociali” (pp. 45-46). Pertanto, il carattere rappresentativo del sistema politico – con gli annessi suffragio universale e principio di maggioranza – esprime una sola dimensione della democrazia a cui occorre aggiungere, in seconda battuta, la dimensione civile riguardante la sfera dell’autodeterminazione giuridica in ambito privato.
L’”attività negoziale” ne rappresenta il paradigma, ma per Ferrajoli, in polemica con l’approccio lockiano, essa non configura delle “libertà” ma dei “diritti-poteri” consistendo “in atti precettivi produttivi di effetti normativi anche nella sfera giuridica altrui”. Come tali, interferendo con le libertà altrui, essi sono sottoposti a limitazioni giuridiche e “gli atti con cui sono esercitati […] si collocano ad un livello normativo più basso rispetto a quello della costituzione e perfino della legge” (p. 47). Allo stesso tempo, l’inscrizione del “che cosa”, cioè dei contenuti delle decisioni desumibile dal quadro normativo dei diritti fondamentali, delinea la dimensione sostanziale della democrazia. Da un lato, i diritti di libertà e autonomia impongono limiti, “cioè divieti di lesione”, dall’altro, i diritti sociali “impongono vincoli, cioè obblighi di prestazione”. Ecco tratteggiata la sfera del non decidibile in cui si pongono limiti alle decisioni in materia di libertà e autonomia e obblighi in materia di prestazioni sociali. In questo movimento unitario democrazia liberale e democrazia sociale si implicano a vicenda (pp. 47-48). Ferrajoli, nei capitoli successivi, si sofferma sulle caratteristiche del costituzionalismo garantista (pp. 50-94) e sulla critica del costituzionalismo principalista (pp. 95-137).
Se sul secondo versante sottopone a critica l’oggettivismo etico e la pretesa riconnessione di diritto e morale che informerebbe il neo-costituzionalismo, e dunque l’incapacità di accettare la possibile definizione solo formale dei diritti fondamentali e di quelli logicamente ad essi connessi, sul primo versante il giurista italiano tratteggia gli elementi essenziali del costituzionalismo garantista, partendo dai quattro postulati che lo sorreggono: 1) un rinnovato principio di legalità, per cui ad ogni potere corrispondono norme primarie non solo formali ma sostanziali che ne regolano l’esercizio “sottoponendolo ai limiti e ai vincoli nei quali consistono le garanzie primarie correlative ai diritti costituzionalmente stabiliti, nonché alle separazioni tra poteri che ne impediscono confusioni e concentrazioni” (p.52); 2) il principio di completezza deontica, cioè l’introduzione di doveri a garanzia di diritti e interessi stabiliti da norme primarie; 3) il principio di giurisdizionalità per cui, a norme e garanzie primarie, deve corrispondere, in caso di violazione, “l’intervento di garanzie giurisdizionali ad opera di funzioni e di istituzioni di garanzia […] separate da qualunque altro potere”. In questo contesto “i giudici sono non solo soggetti alla legge, ma anche soggetti soltanto alla legge” (pp. 53-54); il principio di azionabilità, “per cui dovunque ci sia una giurisdizione deve pur essere prevista , quale ulteriore garanzia secondaria, la sua attivazione da parte dei titolari dei diritti e degli interessi lesi” (p. 54). I quattro principi elencati designano “la sintassi dello stato costituzionale di diritto” (p. 55). La possibile violazione produce la comparsa, peraltro fisiologica, del diritto illegittimo. A sua volta la natura rigida delle costituzioni – rigidità, che, a ben vedere, è connaturata alle costituzioni –, in un’ottica garantista, è antitetica ad un’idea di sovranità popolare in forma di potere costituente permanente. Alla posizione di Sieyès, per cui ogni principio costituzionale può essere modificato (Sieyès 1788), e all’argomento per cui ogni generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni successive, Ferrajoli oppone la tutela dei principi costituzionali come condizione normativa e garanzia per evitate che le generazioni precedenti amputino le mani delle generazioni future. In altre parole, il metodo democratico, i diritti politici e il suffragio universale, i diritti di libertà e i diritti sociali appartengono alla sfera del non decidibile e formano le garanzie costituzionali primarie e secondarie.
Su di esse si può intervenire solo in termini incrementali, dunque maggiormente includenti. Essendo queste ultime sia di carattere negativo che positivo, le loro violazioni possono originare antinomie e lacune. Nel caso di norme costituzionali negative, in base al principio di stretta legalità, “il riferimento è all’inderogabilità della costituzione da parte del legislatore ordinario” (p. 62) per contrastare la produzione di antinomie nell’ordinamento giuridico; nel caso di norme costituzionali positive, il riferimento è alle garanzie, in base al principio di completezza, “indispensabili all’effettività dei diritti fondamentali […] soprattutto dei diritti sociali a prestazioni positive: come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza e simili” (p. 65), da cui segue, per colmare le lacune, la necessità d’introdurre “le garanzie legislative primarie e secondarie correlative ai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti” (p. 66). In quest’ottica, colmare le lacune significa mettere in discussione l’approccio kelseniano che nell’assenza di obblighi o divieti, in relazione ai diritti costituzionalmente stabiliti, intravede “l’inesistenza dei diritti stabiliti” (Ibidem). Di più: significa contestare l’equivalenza kelseniana tra diritti e garanzie e l’appiattimento dei diritti soggettivi sui diritti patrimoniali. La prospettiva garantista implica non solo la possibilità, ma l’inevitabilità che “il diritto vigente sia costituzionalmente illegittimo” (p. 68). Ciò evidenzia, sottolinea Ferrajoli, una fertile ambivalenza del diritto. Allo stesso tempo, se i diritti fondamentali diventano frammenti di sovranità popolare e, essendo di tutti e di ciascuno, non possono essere soppressi o limitati dalla maggioranza (equivarrebbe a un colpo di Stato), il compito del legislatore politico risulta chiaramente orientato nel suo dover essere e lo stato diventa uno strumento che ha nella garanzia e nel perseguimento dei diritti fondamentali – colmando lacune e rimuovendo antinomie – la sua “ragion d’essere” (p. 80).
La stessa cultura giuridica diventa necessariamente militante e dunque polemica con le tesi maggioritarie di segno giuspositiviste improntate all’avalutatività della scienza del diritto. Ancora una volta, il mancato riconoscimento dell’esistenza di un diritto illegittimo, così come la falsa equivalenza che vorrebbe identificare la teoria formale del diritto con il suo carattere avalutativo, riscontrabili nelle posizioni di Kelsen e Bobbio, sono i principali bersagli delle argomentazioni di Ferrajoli. Vi è, inoltre, una ritrosia, comune a molti teorici del diritto, ad intendere in termini puramente formali i diritti fondamentali – in quanto assunzione di valori né veri né falsi, ma scelti, postulati e razionalmente difesi –, a riconoscere la portata normativa sostanziale dettata dalla loro incorporazione costituzionale: le costituzioni post-belliche, tuttavia, hanno trasformato “limiti e vincoli politici esterni in limiti e vincoli giuridici interni di diritto positivo” (p. 91). Più in generale, si stenta a cogliere “i nessi biunivoci tra politica e diritto e tra scienza giuridica, filosofia politica e sociologia del diritto” (p. 88) e la promozione di una cultura giuridica militante in difesa dell’assetto costituzionale.
Il costituzionalismo come progetto politico
Sul versante dell’elaborazione del progetto politico costituzionalista, Ferrajoli assume come punto di partenza l’innegabile crisi della democrazia costituzionale, ampiamente intrecciata con la crisi economica, imputata al passaggio dal “governo pubblico e politico dell’economia” al “governo privato ed economico della politica” (p. 143), con un’evidente erosione della dimensione sostanziale della democrazia. Sono saltati i nessi “democrazia/popolo e poteri decisionali/regolazione giuridica” e contemporaneamente si è riconosciuta “la lex mercatoria come legge naturale” (p. 144), con il conseguente ripiegamento dell’intervento pubblico diretto a riequilibrare le disuguaglianze socio-economiche e “la trasformazione della politica in tecnocrazia” (p. 145), contro il monito di Bobbio sull’incompatibilità di democrazia e tecnocrazia (Bobbio 1984). La “crescente confusione tra poteri politici e poteri economici” ha stabilito “un rapporto sempre più stretto tra politica e denaro” (p. 146): il finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali risponde sempre più a meccanismi privatistici; la lievitazione dei costi induce subalternità – una sorta di neo-mandato imperativo – vincolando gli eletti agli elettori più forti sul mercato (non solo economico). Il controllo privatistico dei media – con l’intensificazione della produzione di opinione pubblica, per riprendere le tesi di Pierre Bourdieu – e la vistosa estensione di conflitti di interessi, nonché di forme di corruzione sempre più sofisticate, distorcono profondamente la rappresentanza politica. Se si considera l’ambito europeo, l’erosione del “modello dirigista dell’economia” incentrato sull’azione dei singoli stati – si pensi agli articoli 42 e 43 della Costituzione italiana – a favore del modello della libera concorrenza, affermato dal Trattato sul funzionamento dell’UE, modifica la gerarchia delle fonti normative, rendendo impossibile l’attuazione del programma disegnato dalla costituzioni statali.
Per Ferrajoli, prima della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto, a entrare in crisi è lo “Stato moderno, inteso […] quale sfera pubblica deputata alla difesa degli interessi generali e quale istituzione politica separata dall’economia e rispetto ad essa eteronoma e sopraordinata” (p. 151), a prescindere – aggiungiamo noi – dall’esistenza reale più che ideale di un tale Stato e dalla possibilità che non vi siano scarti tra politica e istituzioni. Tuttavia, sottolinea il giurista italiano, non si tratta di ritornare all’assoluta sovranità dello stato-nazione, ma di rilevare e combattere le paradossali “resistenze degli Stati a dar vita a sfere pubbliche sovranazionali” (p. 153), a un governo pubblico dell’economia a livello europeo e, in prospettiva, mondiale. Allo stesso tempo, non si spiega la subordinazione della politica all’economia senza “il simultaneo processo di liberazione della politica da limiti e vincoli legali e costituzionali” (p. 158): il governo economico della e sulla politica produce, paradossalmente, una nuova forma di supremazia politica declinata nell’onnipotenza delle maggioranze e dei capi direttamente eletti dal popolo, nel verbo della ‘governabilità’, nella semplificazione e verticalizzazione dei sistemi politici supportate da ideologie maggioritarie e derive populiste. Ritorna la vulgata dei mandati imperativi e della “democrazia diretta”, peraltro evirata da ogni tensione egualitaria in termini economico-sociali (come sottolinea Nadia Urbinati), e trainata dai nuovi attori – polarizzati tra semplificazione e demagogia – della democrazia del pubblico. Il processo di de-costituzionalizzazione e la rinnovata onnipotenza della politica hanno avuto come prima vittima il lavoro e, più in generale, i diritti sociali. Ma, se si guarda al contesto europeo, è la stessa uguaglianza politica che è venuta meno se, ad esempio, votare in uno stato come la Germania conta assai più che votare in uno stato come la Grecia. In queste condizioni, procedere verso l’unificazione politica e istituzionale dell’UE dovrebbe essere l’imperativo categorico di ogni cittadino democratico.
Ferrajoli, ribaltando le argomentazioni sull’assenza di un popolo europeo che fungerebbe da freno in questo percorso, afferma che “l’unità politica è data dall’uguaglianza dei diritti, stabiliti nelle costituzioni, di quanti in esso si riconoscono, appunto come uguali: dalla “par condicio civium” e dai loro “iura paria”, come scrisse Cicerone oltre duemila anni fa. È quanto afferma lo stesso preambolo alla Carta europea dei diritti fondamentali: L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà” (p. 169). Di più: “l’esistenza di un demos come unità, o omogeneità culturale” non è il presupposto, “bensì l’effetto dell’uguaglianza dei diritti i quali agiscono come fattori di integrazione politica e sociale generando la percezione [corsivo nostro] degli altri come uguali e il senso comune di appartenenza a una medesima comunità politica” (p. 182). Le basi di “un embrionale costituzione” (p. 183) sono dunque già tracciate, manca la volontà politica degli stati guidati da governi assoggettati all’ideologia neoliberista e schiacciati sui residui di sovranità particolare da coltivare in senso escludente. Eppure la capacità regolativa del diritto, e dunque l’implementazione del paradigma costituzionale, non può che espandersi per affrontare quelle che Ferrajoli chiama le cinque emergenze planetarie: democratica, sociale e umanitaria, ambientale, nucleare, criminale (pp. 176-180).
Il futuro del costituzionalismo, se rimaniamo anche solo nel contesto europeo, dunque, è dettato dalla capacità di estendersi in ambito sovranazionale su più dimensioni: per porre argini ai mercati, occorre un costituzionalismo di diritto privato che ridimensioni i diritti-poteri divenuti poteri (quasi) assoluti; così come occorre rafforzare o introdurre funzioni e istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali stabiliti dai trattati internazionali. Fermo restando che la costituzionalizzazione dell’UE non può che passare attraverso un’Assemblea Costituente europea, per il rafforzamento in senso intensionale della dimensione formale della democrazia costituzionale (p. 194) occorre ridefinire la geografia dei diversi poteri, a partire dalla rigida separazione tra poteri politici e economici (dal divieto delle lobbies, all’ineleggibilità di chi è titolare di rilevanti interessi privati sino l’istituzione di organi terzi e imparziali sui contenziosi elettorali) che culmina nel finanziamento pubblico dei partiti come garanzia di separazione effettiva, riducendo quello privato ad un importo modesto dettato dall’adesione ideale di iscritti e simpatizzanti. Non meno importante è la separazione tra partiti e istituzioni, il ritorno al ruolo di “corpi intermedi”, organi e strumenti che i cittadini, associandosi, si danno per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (come recita l’art. 49 della Costituzione Italiana, disatteso per quanto concerne il metodo democratico interno ai partiti), con una significativa preferenza per sistemi elettorali proporzionali.
Vi è inoltre una doppia separazione, questa interna solo alla sfera pubblica, che rivisita e supera la tradizionale tripartizione dei poteri formulata da Montesquieu. Essa è distinta, da una parte, tra funzioni politiche di governo (esecutive e legislative) e funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria, dall’altra tra funzioni amministrative di governo e funzioni amministrative di garanzia primaria dei diritti. In particolare è il ruolo e l’inquadramento della Pubblica Amministrazione – ambito che ha incanalato lo sviluppo del Welfare State – alle dipendenze dell’esecutivo che va completamente rivisitato, liberandolo “dalle pratiche dello spoils system, delle lottizzazioni partitiche e dei condizionamenti politici” e riconoscendone “la legittimazione politica nell’applicazione della legge a garanzia di tutti” (p. 202). A sua volta, il rafforzamento in senso intensionale della dimensione sostanziale della democrazia costituzionale incrocia i già citati quattro postulati del modello garantista. Rispetto a questi ultimi, merita una segnalazione il principio di completezza, laddove lo si pone in stretta correlazione con il diritto a un reddito di base e dunque alla riformulazione universalistica del welfare. L’estensione di un reddito di esistenza universale e incondizionato rappresenterebbe, incontestabilmente, una conquista di civiltà. Tuttavia, la lettura delle dinamiche economiche che sorregge le tesi di Ferrajoli – la frattura consumatasi con l’avvento del neocapitalismo e l’impossibilità di garantire la piena occupazione, men che meno qualitativamente buona – sembra, più o meno implicitamente, rassegnarsi allo status quo, con il rischio di riprodurre e legittimare un mercato del lavoro duale più che un’auspicata difesa dei lavoratori nei rapporti sempre asimmetrici tra capitale e lavoro. L’ipotesi di una redistribuzione e riduzione del lavoro socialmente necessario, associata all’estensione di un reddito minimo, non sembra contemplata.
In altre parole, un mutamento dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Infine, il rapporto tra principio di completezza e beni fondamentali, consente di fare maggiore chiarezza sul tema dei “beni comuni”. Ferrajoli propone una distinzione, convincente, tra beni comuni (l’acqua, l’aria, l’integrità dell’ambiente, la Terra), beni personalissimi (le parti del corpo e la loro inviolabilità) e beni sociali (farmaci salvavita e alimenti di base), per quanto accomunati, ad eccezione dei beni personalissimi, dal fatto che chi li usa – tutti, indistintamente – non può essere libero di non comprarli. Ciò che li caratterizza è la non trasformabilità in merci, malgrado oggi lo siano, e il non essere a disposizione della politica. In questa classificazione si sottopone a critica l’estensione del concetto di beni comuni, tramite un approccio olistico (Mattei 2011), ai beni più disparati, sino ad arrivare al lavoro e al diritto, nonché lo stesso concetto di comune proposto da Toni Negri e Michael Hardt con cui si indica “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale” (Negri – Hardt 2010). Una critica illuminista già sviluppata in un recente pamphlet di Ermanno Vitale (Vitale 2013).
La democrazia tra crisi e metamorfosi. Verso una democrazia in-diretta
L’involuzione autoritaria in Ungheria, condensata nella limitazione dei poteri dell’Alta corte e dei diritti civili ad opera del partito nazional-populista Fidezs (sintomatica l’affermazione del leader e artefice della “riforma” costituzionale Viktor Orbán: “La gente si preoccupa delle bollette, non della costituzione”), la riscoperta del sorteggio in Islanda nel processo di riscrittura della costituzione, l’affermazione del Movimento 5 Stelle guidato da Beppe Grillo nelle elezioni politiche del febbraio 2013, e la centralità organizzativa in esso assunta da Internet: tre temi, apparentemente non interrelati, segnano il testo di Nadia Urbinati sulla democrazia in diretta. In realtà, tutti e tre evidenziano lo stato di crisi della democrazia e ne sondano la capacità d’innovazione o perlomeno di elaborazione e risposta alle turbolenze e agli stimoli esterni. Urbinati conduce un’attenta ricostruzione, soffermandosi sulle trasformazioni storicamente succedutesi, dell’idea di democrazia. Punto di partenza sono i governi democratici come forme che si vorrebbero pressoché immutate, dalle rivoluzioni del Seicento e del Settecento ad oggi – è la posizione di Bernard Manin (Manin 2010) –, nati con l’intento “di limitare, non di realizzare la democrazia” (p. 27). D’altronde, vi è “un’incompiutezza strutturale” alle basi della democrazia, una sorta di antinomia o perlomeno di tensione permanente, “sprigionata dai due valori fondamentali che la contraddistinguono: l’uguaglianza e l’autonomia; l’idea cioè che gli esseri umani, donne e uomini, siano uguali per valore e dignità morale e nessuno abbia per natura, tradizione, convenzione, volontà umana o divina un potere superiore tale per cui possa prendere decisioni sulla vita della comunità politica senza o contro il consenso di tutti”.
Da ciò segue che “la non coincidenza tra istituzioni democratiche e democrazia” (p. 29) sia una costante, dalle rivoluzioni moderne ad oggi, del processo democratico. In altre parole si verifica un “disaccordo permanente tra legittimità e fiducia, volontà e giudizio” – ma si potrebbe aggiungere, con Jacques Rancière, che è la politica in quanto tale ad essere segnata dal disaccordo (Rancière 2007)– e che è nel “potere negativo o di contro-democrazia”, per riprendere il lessico di Pierre Rosanvallon (Rosanvallon 2006), che i cittadini esercitano una forza giudicante “fuori del seggio elettorale” (pp. 29-30). Nel doppio movimento di polarizzazione e incontro tra politica diretta (l’elezione dei rappresentanti da parte dei cittadini) e politica indiretta (il voto degli eletti e la loro subordinazione al giudizio dei cittadini) “la democrazia diventa il nome di un’utopia pragmatica, non di un’utopia pura” (p. 30). Essa, nel difendere l’uguaglianza politica come pratica volontaria e libera, al di là delle condizioni disuguali in ambito economico, sociale e culturale, non ha un fine specifico se non la difesa della libertà stessa. O meglio, per riprendere Elias Canetti, è la capacità di decidere senza uccidere che la contraddistingue e rende possibile la difesa della libertà, una prassi inequivocabilmente fragile, che la si legga in termini puramente procedurali (Escobar 2011) o sostantivi (Alfieri 2012). Da parte dei cittadini, la democrazia non richiede altra competenza se non “di essere attori responsabili delle proprie scelte e quindi di essere capaci di violare le leggi e di essere giudicabili e punibili” (p. 44).
Di fatto, tuttavia, un sistema democratico non può vivere se non è in grado di promuovere la partecipazione e fare in modo che tutti (almeno) sentano “che vale la pena partecipare” (p. 46). Privo di fondamenti, “modo di operare insieme in pubblico” (p. 61) senza che il potere occupi un luogo specifico – Urbinati richiama le tesi di Claude Lefort – è pertanto difficile che il governo della democrazia, attraversato sempre da tendenze consensualistico-cognitivistiche e conflittuali, non sia un “governo della crisi” (p. 49): continuamente esposto al flusso degli eventi, alla necessità di produrre strappi e di mettere in campo decisioni e risposte efficaci che non ne snaturino il senso.
E cosa vi è di più snaturante – in un sistema che ha fatto della libertà e dell’uguaglianza politica, della rappresentanza, della partigianeria e della dialettica maggioranza/opposizione gli elementi di fondo – delle pulsioni tecnocratiche e populiste che riemergono sulla scena politica e la loro paradossale convergenza (si pensi, nel caso italiano, alla connotazione “antipolitica” di organizzazioni come la Scelta Civica di Mario Monti e il M5s) nel voler ridurre il pluralismo e la partigianeria in nome dei “problemi concreti da risolvere”?
In realtà, la crisi della democrazia è la crisi della democrazia rappresentativa, strettamente legata al benessere declinante e all’insicurezza sociale diffusa prodotta dalla crisi economica, che si manifesta nella critica della decisione democratica rilevabile almeno da quattro indizi, sintomi di altrettante crisi in corso (pp. 70-74): in termini di tempo e di forma (tempi troppo lunghi, discussione troppo ampia per quantità di attori interpellati), così come nella riduzione dello spazio della decisione sovrana (l’intervento sempre più pressante di soggetti non democratici e sovranazionali) e nel ricorso a soluzioni emergenziali attraverso gli esperti. Se per Manin la crisi in atto, sintetizzabile nel passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, è tale solo per chi, dall’interno del sistema politico, “avverte la difficoltà di ideare comportamenti funzionali”(p. 76), dall’esterno, chi utilizza un approccio descrittivo e analitico, ne coglie invece la metamorfosi in atto. L’avvento della democrazia del pubblico osservabile nel caso italiano – afferma Urbinati – è sintomatica non solo di una metamorfosi che lascerebbe inalterati i principi di fondo della rappresentanza, ma di una crisi del sistema rappresentativo: gli effetti si sono condensati, prima nell’affermazione di un partito patrimoniale (Forza Italia guidato da Silvio Berlusconi), poi nell’exploit di un movimento antipartitico (il M5s), che ha promosso nuove forme di organizzazione e disciplina.
In effetti, l’affermazione del Movimento 5 Stelle mette in evidenza una crisi delle istituzioni rappresentative sotto almeno tre forme: 1) la rinascita di espressioni di democrazia diretta, che vorrebbero riallacciarsi idealmente ai modelli di democrazia classica (Atene ma anche Sparta e il modello del giudizio deliberante strutturato sul “rumore dei vocianti”) e proporsi come “antisistema”; 2) l’esaltazione di una “politica cognitiva” fondata su una (presunta) neutralità dell’informazione, e conseguentemente la riduzione della democrazia ad amministrazione, a-ideologica (Urbinati parla di necrosi della politica o ipo-politica), che consentirebbe alla “società civile” di autoregolarsi, con forti affinità con “il mito neo-liberale o liberista dell’autoregolazione dei processi economici e sociali” (p. 85), segnando una cesura con i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta, anch’essi fortemente critici dei meccanismi rappresentativi, ma caratterizzati da forme di iper-politica e critica radicale dell’ideologia auto-regolativa. D’altronde, nell’approccio di Beppe Grillo non vi è ostilità per il libero mercato, e la meritocrazia – un concetto le cui origini antidemocratiche e illiberali sono state totalmente rimosse – viene utilizzata come modalità di selezione delle candidature; 3) la rilevanza concessa a “forme plebiscitarie di partecipazione consensuale, ovvero politica dell’audience, che reclama non tanto più partecipazione da parte dei cittadini quanto invece un’azione giudicante del pubblico” (Ibidem). Le principali risultanti di questo approccio sono: direttismo della partecipazione (contro partiti e politici), depoliticizzazione della democrazia, centralità del giudizio rispetto all’azione (e dell’occhio rispetto alla voce, rilevando una continuità tra web e modello videocratico laddove l’interazione si articola sul paradigma discorsivo per immagini: assertivo, apodittico, dichiarativo). Inoltre, se si considerano le consultazioni tra eletti ed elettori (a dire il vero un numero ridottissimo di questi ultimi) dopo le elezioni, di carattere vincolante per le scelte dei parlamentari e “senza alcuna garanzia procedurale”, secondo Urbinati ci troviamo di fronte ad una “democrazia rappresentativa di opinione in movimento” (p. 87) costituita da un “popolo disgregato”: cittadini ordinari che la rete mette solo in comunicazione. Un popolo smaterializzato e dunque un “populismo senza popolo” (pp. 87-88)per riprendere una terminologia cara a Ernesto Laclau (Laclau 2008).
Democrazia rappresentativa, democrazia partecipativa e riscoperta del sorteggio
Identificare la democrazia rappresentativa come presenza costante di elementi democratici e aristocratici è certamente corretto, ma, ricorda Urbinati, ritenere che l’elemento elettivo sia sempre aristocratico non è esatto, così come non vedere l’interconnessione di rappresentanza e partecipazione nel processo democratico. Per quanto concerne la rappresentanza, si pensi solo a come Kant vi vedesse il modo in cui la politica diventava impersonale e si spezzavano per sempre i rapporti diretti di forza e di dominio: “patrimonialismo e patriarcalismo erano l’opposto di un governo rappresentativo” (p. 95). Su questo aspetto il ritorno odierno alla richiesta di un mandato imperativo tra eletti ed elettori, sotto forma di contratto, è indicativo del livello d’incomprensione della rappresentanza politica e dello slittamento verso una concezione privatistica della medesima, questione che anche chi scrive non ha sufficientemente sottolineato in un precedente lavoro sulle tesi di Manin (Girometti 2012). In realtà i rappresentanti politici (come i cittadini nella democrazia diretta) non devono rispondere ai propri elettori in quanto “hanno il potere di prendere decisioni che sono collettive, che si applicano a tutti i membri del corpo politico” (p. 96). Ciò non significa che siano completamente svincolati, ma che un’azione di condizionamento, seppure non legalmente vincolante, si svolge principalmente tramite un “corpo intermedio”: è il partito politico che permette “di tenere un rapporto di controllo e compartecipazione”.
Eliminarlo significherebbe, o che gli eletti rispondano a un loro committente (più facilmente a un capo), “o solo e soltanto a se stessi” (p. 98). Ad esercitare una pressione ed un controllo vi è inoltre il potere negativo dell’opinione e del giudizio dei cittadini, che gioca un ruolo di legittimazione, per quanto informale, nel e contro il sistema politico. Come evitare che esso si sostituisca agli attori politici e che tutte le opinioni e le voci – non solo quelle più forti – abbiano la stessa considerazione e possibilità di essere ascoltate? In ciò risiede uno dei principali problemi delle attuali democrazie rappresentative.
Ma il fiume carsico della democrazia partecipativa (pp. 113 – 145) come critica della rappresentanza non si è mai esaurito. Se la semplice identificazione di partecipazione e democrazia, al di fuori di processi regolativi condivisi, rischia di premiare una minoranza (la più attiva, la più dotata di capitale relazionale, d’influenza sulla costruzione dell’opinione pubblica, ecc.) o d’incentivare nuove forme di onnipotenza della maggioranza, l’avvento di Internet legato alla massima “tutto in pubblico per il pubblico” (p. 115) più che rendere trasparente i processi decisionali ha alimentato nuove forme di opacità e promosso nuovi condizionamenti – si pensi alle trattative in streaming tra le delegazioni del Partito democratico e il M5s per la formazione del governo, a come ogni attore doveva rispondere al proprio pubblico – mitizzando la trasparenza il cui ruolo risulta sicuramente efficace e da incentivare “quando si tratta di azioni delle istituzioni e di chi opera in loro nome” (p. 116). È indubbio che gli attuali governi rappresentativi siano il risultato dell’intreccio di liberalismo politico e democrazia, tuttavia ciò che sovente si rimuove nella critica della rappresentanza è che la loro affermazione ha prodotto una cesura con “le interpretazioni unanimistiche e consensualistiche che i regimi propagandistici plebiscitari del primo dopoguerra avevano inaugurato assestando un corpo mortale al governo parlamentare” (p. 118).
Allo stesso tempo la conquista del suffragio universale insieme al “contenimento del potere della maggioranza per mezzo dei diritti civili” non va letta come principio di autogoverno diretto se è vero che “la limitazione nel tempo e nell’intensità del potere decisionale passa attraverso l’indirettezza della sua pratica” (p. 119). È però innegabile, afferma Urbinati, che le principali sfide allo statu quo siano avvenute in nome della partecipazione diretta: c’è un filo conduttore che unisce, nelle differenze, i movimenti di contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, la rivolta antisegregazionista negli Usa, i movimenti democratici contro il regime comunista ungherese nel 1956. Il paradigma partecipativo – ad un tempo critico dell’individualismo proprietario che sorreggerebbe la liberal-democrazia, della rappresentanza come processo decisionale separato (si pensi all’alternativa praticata nei consigli di fabbrica) e promotore di forme di democrazia diretta incentrate, come nel modello svizzero, su piccole comunità autogovernate con l’ausilio del referendum propositivo/abrogativo come potere sovrano centrale – ha innestato sperimentazioni nel processo democratico che hanno prodotto insuccessi proficui (p. 122).
Gli insuccessi sono dati dalle singole pratiche (ad esempio la trasformazione dei consigli di fabbrica da luoghi in cui attuare l’autogoverno produttivo a forme di rappresentanza sindacale strutturata con compiti rivendicativi) e dall’assenza di significativi cambiamenti istituzionali; ciò che è stato valorizzato è invece nella dimensione extra-istituzionale, in particolare nel rapporto tra cittadini e partiti, contro le ossificazioni gerarchiche che strutturavano questi ultimi, e nel rinnovamento della sfera pubblica come ‘cassa di risonanza’, secondo la definizione di Jurgen Habermas, in cui si sono posti sempre più frequentemente all’attenzione del sistema politico i problemi ineludibili. Si può inoltre dubitare che partecipazione e rappresentanza abbiano disegnato negli anni ’60 e ’70 un movimento disgiunto. Urbinati si sofferma sui movimenti operai del 1969 che prendevano le mosse innanzitutto dalla richiesta di rappresentanza e inclusione, in cui dunque confluiva “una proposta di democrazia indiretta interrelata a democrazia partecipativa” invocando una “democrazia sociale che, sulle orme di Marx, contestava la separazione tra liberà economica e libertà politica” (pp. 130-131). La critica marxiana dei diritti politici scissi dalla diseguale condizione sociale e economica è sicuramente un punto alto della riflessione critica sulla rappresentanza e il parlamentarismo. L’illusione della sovranità popolare nasconderebbe la volontà di una minoranza, espressione della classe dominante. L’interesse generale e l’imparzialità dei legislatori, supportata da un mandato libero, cela il potere dei pochi.
Per Marx la democrazia non è solo metodo della maggioranza, ma inclusione e maggioranza sociale (p. 140). Da qui la difesa dei mandati imperativi e anche della revocabilità delle cariche che troviamo negli scritti marxiani sulla comune parigina, su cui ci siamo soffermati in un precedente lavoro (Girometti 2012a). Ma la rappresentanza con mandato libero è stata davvero un modo per (ri)stabilire il governo di una minoranza, oppure un tentativo, incerto, preso nei rapporti di forza, di porre un argine agli squilibri sociali e di svincolarsi dai rapporti diretti di dominio impedendo che gli uomini governassero invece delle leggi (p. 141)? Non è stato anche un tentativo di costruire un “interesse generale” in cui tra la figura dell’elettore e quella del cittadino fosse mantenuta una giusta distanza? Si può obiettare, con molte ragioni, che un simile sistema abbia prodotto un significativo riequilibrio sociale e discutere se possa o meno assumere forme inedite e ben più incisive. Ma – afferma Urbinati – la rappresentanza non ha l’ambizione di superare le disuguaglianze sociali, né va intesa come modo per coprirle e legittimarle nascondendosi dietro l’interesse generale, semmai ha il “compito di mobilitare lo strumento della legge per correggere le disuguaglianze affinché il loro peso non si riversi sulla legge” (p. 142). Ciò detto, la democrazia si distingue per flessibilità e capacità d’innovare il processo decisionale e nel farlo attinge a tutte le sue invenzioni. La riscoperta del sorteggio, nel percorso islandese di definizione della nuova costituzione, coincide con la rivalutazione di una pratica, radicalmente democratica, valorizzata prima nella polis ateniese per bloccare la formazione di aristocrazie (dunque come alternativa all’elezione), poi, ad esempio, nella repubblica fiorentina del Quattrocento come strumento di pacificazione tra le fazioni in lotta per il governo. Nel caso islandese vi è stata certamente una maggiore assonanza con la finalità che le era attribuita ad Atene. Non come alternativa e/o superamento dell’elezione, ma per correggerla – con un depotenziamento momentaneo della partigianeria e l’uso di un medium orizzontale come il web – prendendo atto dell’elevato livello di sfiducia e inadeguatezza dei partiti nella selezione degli eletti. Il sorteggio ha altresì evidenziato il grado di disuguaglianza “all’interno del corpo dei cittadini” (p. 159), non degli elettori che rimangono uguali. Disuguaglianza che si manifesta nell’identità del cittadino, nel diverso potere che si ha nel dominio dell’opinione, all’interno dei partiti e dei sistemi dell’informazione, sempre più alimentati da capitali privati.
Democrazia dell’audience versus corpi intermedi. Quali prospettive?
Le conclusioni di Nadia Urbinati sono condensate in due capitoli significativamente intitolati: dai partiti all’audience (pp. 161-173) e la rivoluzione contro i corpi intermedi (pp. 174-192). La tesi di fondo è che il recupero di strumenti non partigiani come il sorteggio, l’accentuazione dell’autonomia politica dei cittadini (con il carico di disuguaglianze che li caratterizzano) e la trasformazione dei partiti in macchine elettoralistiche, partiti-spugna, sempre più interni alle istituzioni – tendenza già stigmatizzata da Bobbio negli anni ’70 – con le conseguenti pratiche clientelari, abbiano prodotto un passaggio “della democrazia da rappresentativa a plebiscitaria” (p. 161). Ne è scaturito un plebiscitarismo dell’audience incentrato su “un attore non collettivo”, un agglomerato di individui indistinto e deresponsabilizzato (Ibidem). Contrariamente a quanto pensa Manin, è intercorsa la trasformazione da una democrazia “per mezzo dei” partiti ad una “dei” partiti. Questi ultimi non scompaiono, si riadattano. Si lasciano attraversare sempre più dai sondaggi, piuttosto che da narrazioni ideologiche. Si alleggeriscono, non diventando più controllabili da iscritti e simpatizzanti che non hanno più sedi e regole per articolare il dissenso. I partiti, così ridisegnati, diventano “un corpo oligarchico che si fa occupante diretto e per suo proprio interesse della politica rappresentata” (p. 164). Se Manin aveva rielaborato la critica di Carl Schmitt al parlamentarismo, da cui era seguita la concezione plebiscitaria della democrazia da parte del giurista tedesco e la ridefinizione di “pubblico” da categoria giuridico-normativa “a categoria estetica come ciò che è esposto alla vista, che è fatto davanti gli occhi del popolo” (p. 165), la restrizione della democrazia dei partiti, il suo oltre-passamento, letto in termini d’intensificazione del tasso democratico, tramite la democrazia del pubblico con al centro il primato del leader e degli esperti di comunicazione, è alquanto opinabile e in qualche modo inquietante. Alla centralità della volontà subentra quella del giudizio. Alla voce, l’occhio. L’azione politica legata alla partecipazione – diretta e indiretta – nella costruzione legislativa, viene sostituita da “un’azione giudicante valutativa di qualcosa che esiste e che altri fanno e si mostra all’occhio di chi è titolato a giudicare piuttosto che ad agire” (p. 166). E ancora: “parole, discussione e conflitti tra idee”, di cui si fanno portatori programmi e partiti, “sono centrali quando la voce è il centro della politica, trasparenza e “candore”“ lo diventano nella democrazia dell’audience, dove prevale “l’osservazione più che la decisone, e l’ideale critico del potere del popolo è il candore piuttosto che l’autonomia” (Green 2010). La posizione dello spettatore è passivizzante: si passa dal popolo elettore al popolo giudice. Muta anche il potere negativo: in un contesto simile, il potere negativo più moderno e influente sembra essere il mercato nella sua capacità di porre veti alla politica in nome di presunte regole neutre, e soprattutto si rafforza la modalità giudicante, accrescendo il potere imparziale dei giudici rispetto a quello parziale della politica. Più in generale nella scena del giudizio prende il sopravvento la teatralizzazione della dimensione pubblica e la strumentalizzazione dei media la cui imparzialità è come minimo equivoca, tanto più in un paese come l’Italia in cui capitale economico, mediatico e politico si sono concentrati nelle mani del fondatore di un partito – Silvio Berlusconi – con una forte identità ideologica, strumento necessario per accumulare e consolidare potere. Dunque anche la democrazia del pubblico reale riproduce gerarchie e omologazione, con l’aggravante di avere come vettore unificante “la persona del leader e il potere subliminale dei media e dei loro tecnici che li usano” (p. 168). Leader, peraltro, permanentemente sottoposto al potere oculare del popolo-audience, dove l’occhio, saturo d’immagini, è diventato particolarmente inetto: a titolo esemplificativo si pensi alla sovraesposizione di immagini e attenzione sulla persona Berlusconi e non sulle politiche messe in campo o da contrapporvi. Come ricorda Niklas Luhmann, produrre un effetto emotivo è la funzione dei mass media. Inoltre non va taciuto che la democrazia plebiscitaria, esercitata dal pubblico come dalla massa, non tollera limiti e ha come obiettivo polemico le istituzioni, in particolar modo le istituzioni di garanzia. Disegnando l’esatto opposto di un modello garantista della democrazia costituzionale in nome di un pubblico che diventa Costituzione e non sopporta i limiti imposti da organi non democratici, in quanto non eletti. Gli esempi nel caso italiano sono innumerevoli. Democrazia dell’audience e del web sembrano ridurre le distanze tra cittadini e istituzioni, ma lo fanno senza mettere in discussione le profonde disuguaglianze – economiche, sociali e culturali – che permeano la società e usurando la distanza tra cittadino e elettore. I cittadini, a loro volta, rigettano progressivamente la partecipazione tramite i partiti, e da spettatori reattivi seguono lo sviluppo degli eventi sul palcoscenico pretendendo trasparenza per poter giudicare. In tal senso, con la presenza immediata dell’opinione, rilanciano non la democrazia diretta, ma una forma di democrazia rappresentativa in diretta. Se i corpi intermedi vengono lasciati vuoti, degradando in macchine oligarchiche, lo stesso voto diventa meno importante del “clic sulla tastiera” (p. 183), che se non altro inscena l’essere in diretta dando la sensazione di poter contare. Tuttavia, per decidere, o meglio influire sulle decisioni, occorre avere una conoscenza diretta delle cose (come accadeva nella polis ateniese). Quanto i cittadini moderni sono “autosufficienti”? Se sono sicuramente più passivi degli antichi, in un contesto enormemente più complesso, l’informazione non è certo priva di filtri e quella fai-da-te promossa da Internet, che vorrebbe “fare di ciascuno un araldo” (p. 186), è strettamente connessa con un ambiguo processo di de-professionalizzazione. Anzi, la battaglia contro le mediazioni ha due nemici pubblici e intermedi: i partiti e il giornalismo. Ma è la stessa sfera pubblica che ha ormai abdicato al suo ruolo: gli indici d’ascolto sono diventati il principale parametro su cui orientare l’informazione. Scompaiono i temi politici, o li si banalizza. La traiettoria commerciale e privatistica prende il sopravvento grazie ai mass media e con il consenso-assenso degli stessi attori politici. I media tradizionali non scompaiono e dettano ancora le linee di divisione nella produzione di opinione pubblica, nel filtraggio delle notizie che secondo Chomsky e Herman ricalcano l’ideologia dominante appiattendo il ruolo dei giornalisti sulla struttura economica dei media stessi. La democrazia in-diretta rappresenta una sfida a tutte le intermediazioni, ma apre scenari non meno inquietanti nel momento in cui alimenta una “visione totalizzante del cittadino e del potere di chi conquista influenza di leadership nel mondo dell’opinione” (p. 192). Urbinati su questo punto non vede differenze in figure politicamente contrapposte come Berlusconi e Grillo, entrambi espressione di un dominio che dalla sfera privata e sociale ambiscono a conquistare il potere di formazione dell’opinione e della volontà politica. In definitiva, come difendere l’uguaglianza di cittadinanza dal potere espansivo che nasce nella società, sia esso economico o dell’opinione?
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