di Federico Chiaricati
Sabato 9 novembre 2013, presso la Sala del Planisfero della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, si è svolto il seminario pubblico Metodi e temi della storiografia sull’anarchismo, promosso dalla Biblioteca Panizzi e dall’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa. Questo incontro è la prima parte di un’iniziativa culturale più ampia, dedicata alla storiografia dell’anarchismo italiano dal 1945 a oggi, che si completerà con un convegno nazionale di due giorni nel maggio del 2014 e con la pubblicazione degli atti l’anno successivo. L’idea iniziale è venuta da Giampietro Berti, storico dell’Università di Padova, tra i massimi esperti dell’anarchismo italiano, ed è stata articolata in collaborazione con Carlo De Maria, ricercatore dell’Università di Bologna, nell’ambito del comitato scientifico dell’Archivio Famiglia Berneri, di cui entrambi gli studiosi fanno parte. Si tratta di un progetto ambizioso, che guarda ad alcuni importanti anniversari che cadranno nel 2014, e cioè il bicentenario della nascita di Bakunin e il 150° della Prima Internazionale.
L’introduzione dei lavori, svolta da Berti, ha subito permesso di capire quale fosse l’approccio del seminario. Non si tratta di delineare una storia del movimento anarchico bensì di tracciare un’analisi della storiografia dell’anarchismo. In prima istanza, dunque, è necessario un discorso di carattere descrittivo e informativo, che sia uno strumento di lavoro per tutti coloro che si avvicinano agli studi sull’anarchismo.
Il programma della giornata è stato particolarmente ricco e si è suddiviso in varie sessioni di lavoro. La prima, affidata per intero a Pietro Adamo, si è incentrata sulle interpretazioni complessive dell’anarchismo prodotte dal 1945 ad oggi. Si tratta di una manciata di volumi, che il relatore prima elenca poi analizza puntualmente. Il primo libro è quello di George Woodcock, Anarchism: a history of libertarian ideas and movements del 1962, tradotto in Italia come L’anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano, Feltrinelli, 1966 (una nuova edizione profondamente riveduta del volume di Woodcock, inedita in Italia, è del 1986). Il secondo, del 1964, è di James Joll, The anarchists, mentre il terzo è di Mirella Larizza Lolli, Stato e potere nell’anarchismo, Milano, Angeli, 1986. Dopodiché Adamo si sposta al 1993, anno di edizione di Demanding the impossibile. A history of anarchism di Peter Marshall, mai pubblicato in italiano. A seguire si segnala il libro di Jean Préposiet, Histoire de l’anarchisme. E per finire l’opera di Giampietro Berti Storia del pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Manduria, Lacaita, 1998. Rimangono più in secondo piano il libro di Adriana Dadà del 1984, edito da Teti, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito: storia dei documenti dell’anarchismo italiano, e i lavori di Gino Cerrito.
L’analisi di Adamo comincia quindi da Woodcock, che nel volume del 1961 sembra descrivere in buona sostanza una “marcia funebre dell’anarchismo”, ritenendone la forza, in Occidente, ormai ridotta al minimo. Si tratta di un libro che in un qualche modo guarda al passato celebrando qualcosa che a giudizio di Woodcock non c’è più. Il libro di Joll si caratterizza, invece, per un approccio molto polemico, che descrive la tradizione dell’anarchismo in termini profondamente negativi, seguendo la classica visione liberale dell’utopia. Venendo, poi, al lavoro di Larizza Lolli è necessaria una piccola premessa. L’autrice, provenendo dalla scuola di Gianmario Bravo, si trovava influenzata dall’interpretazione, profondamente negativa, che la scuola marxista storicamente dava del movimento e del pensiero anarchico. Il parere di Adamo, però, è che l’autrice sia riuscita a fornire osservazioni e critiche meno accese e più equilibrate. Un cenno a se stante merita anche la nuova edizione di Woodcock del 1986, dal momento che si rileva un cambio completo di prospettive rispetto all’edizione del 1962. In quei ventiquattro anni, infatti, c’era stata la stagione dei movimenti e, soprattutto negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone, una certa vitalità del movimento libertario, proseguita negli anni Ottanta. Woodcock, quindi, riscrive parti del suo libro dove, invece di celebrare “la marcia funebre” di un movimento in dissolvimento, elabora una proposta verso il futuro, verso un anarchismo più pragmatico e spinto al confronto diretto con le problematiche contemporanee. Si giunge così al 1993 e al libro di Marshall, che Adamo ritiene sostanzialmente compilativo, e che non si discosta molto dalla visione di Woodcock. Sembra infatti che l’autore abbia redatto una sorta di summa descrittiva di ciò che altri autori avevano già scritto. Il libro di Jean Préposiet, nonostante numerose lacune, si presenta come un’opera estremamente eclettica, limitata però dal fatto di affrontare soltanto alcuni temi e non altri. Per ultimo, il libro di Giampietro Berti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostruire l’evoluzione intellettuale e filosofica dell’anarchismo negli ultimi tre secoli. Quindi più che un libro di storia del movimento anarchico, si può definire un lavoro sulla storia del pensiero anarchico.
La seconda sessione del seminario, intitolata Le biografie e le generazioni, ha visto gli interventi di Carlo De Maria (Metodo biografico e scansioni generazionali nello studio del socialismo anarchico italiano) e Antonio Senta (Le radici risorgimentali e il primo internazionalismo italiano). De Maria introduce il suo argomento sottolineando come l’applicazione del metodo biografico non abbia forti tradizioni nella storiografia del nostro paese. L’unica eccezione è la storiografia dell’anarchismo che da sempre riconosce come suo aspetto caratterizzante la ricostruzione di singole individualità e, attraverso il metodo biografico, analizza aspetti più generali della storia del movimento di emancipazione. Questa peculiarità si può spiegare attraverso due specificità del movimento anarchico, ossia il diffuso individualismo che ne caratterizza la cultura politica e la mancanza di sistematicità delle sue forme associative e organizzative che non ha permesso di studiare l’anarchismo sotto la visuale della “storia di partito”.
Per ogni scansione generazionale (sono quattro le principali individuate dal relatore) l’intervento di De Maria si sofferma su alcune figure che più di altre hanno attratto e stimolato studi e ricerche. La prima generazione è quella dei militanti nati a metà del XIX secolo e comprende quattro grandi personalità: Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino. I principali studiosi di questa prima generazione sono due: Pier Carlo Masini (che pubblica i suoi lavori principali tra gli anni Sessanta e Settanta) e Giampietro Berti (che dà alle stampe i suoi libri più importanti tra gli anni Novanta e Duemila). Per quanto riguarda, in particolare, Andrea Costa e gli internazionalisti romagnoli, De Maria evidenzia, insieme alla produzione di Masini e Berti, anche gli studi sulle origini del socialismo italiano di Renato Zangheri.
Un ritratto collettivo di questa prima generazione viene fornito da Pier Carlo Masini nel suo Storia degli anarchici italiani: da Bakunin a Malatesta: 1862-1892, Milano, Rizzoli, 1969. Proprio Bakunin rappresenta una sorta di padre politico della prima leva dell’anarchismo italiano e, dunque, secondo De Maria, è necessario dedicare alcuni cenni anche alla storiografia relativa al rivoluzionario russo. Dopo la traduzione dell’opera di Kaminski, Bakunin: una vita avventurosa, a cura di Carlo Doglio (Milano, Istituto editoriale italiano, 1945) e la raccolta di scritti di Bakunin curata da Pier Carlo Masini nel 1963 (raccolta divisa in tre volumi, di cui è particolarmente importante la parte sugli scritti napoletani degli anni 1865-1867), la vera fortuna storiografica di Bakunin si colloca negli anni Settanta. In particolare, nel 1977, gli atti del convegno tenutosi l’anno precedente a Venezia, Bakunin, cent’anni dopo, rappresentano una pietra miliare degli studi bakuniniani. Da allora in poi non si riscontrano lavori monografici sul rivoluzionario russo di importanza rilevante e si può quindi sostenere che con la fine degli anni Settanta si esaurisca anche l’ondata di interesse su Bakunin.
In maniera simile, gli studi biografici dedicati a Carlo Cafiero conoscono una certa fortuna a partire dal 1968; proprio quell’anno Gianni Bosio, per le edizioni del Gallo (poi ristampato da Samonà e Savelli), cura la pubblicazione di La rivoluzione per la rivoluzione. Si arriva negli anni successivi all’opera fondamentale su Cafiero: la biografia scritta da Pier Carlo Masini e pubblicata da Rizzoli nel 1974. Nei decenni successivi, l’interesse per Cafiero è sopravvissuto solo attraverso le numerose ristampe del suo scritto più conosciuto, quel Compendio del Capitale, pubblicato per la prima volta nel 1879, e più volte riproposto. Le più recenti edizioni sono del 2009 e si devono alla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, con introduzione di Franco Bertolucci, e alle Edizioni dell’Asino di Roma, con nota conclusiva di Carlo De Maria.
Contrariamente a Bakunin e Cafiero, gli studi su Malatesta non vivono di evidenti ondate di interesse o di mode momentanee. Una certa attenzione può essere certamente riscontrata negli anni Settanta, ma è significativo che l’opera più importante sull’anarchico di Santa Maria Capua Vetere arrivi solamente nel 2003: si tratta del monumentale libro di Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale, 1872-1932, Milano, Angeli.
Anche gli studi su Francesco Saverio Merlino conoscono uno sviluppo tardivo, a partire dai primi anni Ottanta (con i libri di Emilio Raffaele Papa del 1982, Maria Rosaria Manieri del 1983, Aldo Venturini del 1984); un interesse che culmina poi nel decennio successivo con il volume di Giampietro Berti, Francesco Saverio Merlino: dall’anarchismo socialista al socialismo liberale, 1856-1930, Milano, Angeli, 1993. Per comprendere il concentrarsi negli anni Ottanta dell’attenzione verso la figura di Merlino è importante – sostiene De Maria – ricordare che si tratta del decennio che vede il craxismo dominante e quindi l’impegno verso l’analisi del “socialismo liberale” dell’intellettuale napoletano è in un qualche modo alimentato da determinate condizioni politiche e culturali.
Dopo aver accennato agli studi su Luigi Galleani (nato nel 1861) e Pietro Gori (del 1865), visti come personalità che fanno da ponte tra la prima e la seconda generazione, De Maria approfondisce il discorso sulla seconda generazione, quella dei militanti nati negli anni Settanta del XIX secolo, che vissero generalmente come primo banco di prova del loro impegno politico la crisi di fine secolo. Le due figure di maggior rilievo sono Luigi Fabbri (nato nel 1877) e Armando Borghi (col quale si arriva già all’inizio del decennio successivo: il suo anno di nascita è il 1882). Uno dei primi studi dedicati a Luigi Fabbri è quello di Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati (Milano, Rizzoli, 1981), in cui l’ultimo capitolo è dedicato proprio all’intellettuale marchigiano. Nel 1996 è da segnalare la bella biografia scritta dalla figlia, Luce Fabbri; sulla scia di questo lavoro Pietro Adamo cura la pubblicazione su “A. Rivista Anarchica”, negli anni immediatamente successivi, degli ultimi articoli di Luigi Fabbri in tema di Libera sperimentazione. Il biennio 2005-2006 (in corrispondenza del settantesimo della morte) conosce una vera fioritura di studi su Luigi Fabbri, quasi tutti pubblicati dalla Biblioteca Franco Serantini. Si inizia con la pubblicazione degli atti del convegno Da Fabriano a Montevideo: Luigi Fabbri vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, a cura di Maurizio Antonioli e Roberto Giulianelli. Quest’ultimo darà alle stampe, sempre nel 2005, anche l’Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900-1935) e curerà un volume collettaneo: Luigi Fabbri. Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento. L’anno seguente, sull’onda di questo interesse per Fabbri, si colloca una breve monografia di Santi Fedele, Luigi Fabbri un libertario contro il bolscevismo e il fascismo, Pisa, BFS, 2006.
Sulla figura di Armando Borghi conviene ricordare il numero monografico del Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna (1990) interamente dedicato ad Armando Borghi col titolo Armando Borghi nella storia del movimento operaio anarchico e internazionale. Dello stesso anno è la monografia di Maurizio Antonioli Armando Borghi e l’Unione sindacale italiana, Manduria, Lacaita. Infine, nel 2012, in occasione del centenario dell’Usi, un volume collettaneo dal titolo Le figure storiche dell’unione sindacale italiana, USI-AIT, accoglie un contributo di Gianpiero Landi, uno dei principali studiosi di Borghi.
La terza generazione dell’anarchismo riconosce come figura più importante quella di Camillo Berneri; in realtà un discorso più ampio dovrebbe abbracciare due grandi coppie appartenenti a questa generazione, cioè Camillo Berneri-Giovanna Caleffi e Ugo Fedeli-Clelia Premoli. I militanti della terza generazione, nati negli anni Novanta dell’Ottocento, vivono in pieno i problemi e le difficoltà dell’esilio antifascista, esperienza che coinvolge spesso interi nuclei familiari, spingendo le donne ad assumere un ruolo di grande rilevanza nel tessere reti di assistenza e di mutuo appoggio tra gli esuli. Va ricordato, a questo proposito, il ruolo di primo piano giocato dall’Archivio Famiglia Berneri, prima nella sede di Pistoia poi in quella di Reggio Emilia, nello stimolare studi capaci di fare luce sia su Camillo Bernari sia sull’anarchismo al femminile, con particolare riferimento alle figure di Giovanna Caleffi Berneri e Maria Luisa Berneri, a cui sono stati dedicati recentemente volumi curati dallo stesso De Maria.
Per quanto riguarda, infine, la quarta generazione, quella dei militanti nati tra le due guerre mondiali, si riscontra ancora una carenza di studi. Tra le piste di indagine più interessanti e promettenti si segnalano il libro su Pier Carlo Masini uscito da BFS nel 2008 (Pier Carlo Masini: impegno civile e ricerca storica) e le ricerche relative all’impegno dei militanti libertari nella sfera dell’intervento sociale e dell’azione educativa; un impegno particolarmente vivo negli anni che vanno dalla Ricostruzione al boom economico. Si ricorda, a questo proposito, il convegno su “Educazione e libertà” promosso dall’Archivio Famiglia Berneri a Reggio Emilia nel 2012.
Alla lunga relazione di De Maria, è seguita quella di Antonio Senta, che ha analizzato le radici autoctone dell’anarchismo italiano, con particolare riferimento alle sue radici risorgimentali. Figura centrale a questo proposito è quella di Carlo Pisacane. Si possono ricordare gli studi di Nello Rosselli che, dopo aver dato alle stampe il primo lavoro su Mazzini e Bakunin, pubblica nel 1932 uno studio su Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano. Nel secondo dopoguerra è Aldo Romano nel suo Storia del movimento socialista in Italia, Bari, Laterza, 1966-1967, che si concentra ampiamente sulla figura del rivoluzionario napoletano. Lo stesso Romano cura la stampa anche degli scritti e dell’epistolario di Pisacane. Negli ultimi quarant’anni i maggiori studiosi che si occupano di Pisacane sono Leo Valiani, Luigi Russi e Cesare Vetter, che a metà anni Ottanta ne ha indagato le fonti culturali francesi (tra cui Proudhon). Insieme a Pisacane sono da ricordare anche tanti altri cosiddetti “eretici” del Risorgimento, in qualche modo dissidenti rispetto al pensiero mazziniano, che metteranno l’accento sulla questione sociale e federalista (vista in opposizione al centralismo). Autori che hanno dedicato ampi studi a questo tema sono Franco Della Peruta (che si è soffermato, ad esempio, sulla figura di Ferrari) e Silvia Rota Ghibaudi (che ha messo in correlazione Ferrari e Proudhon). La produzione di Della Peruta è importante anche per gli approfondimenti su altri “proudhonisti italiani”, come Rusconi e De Cristoforis, e su altri “eretici” del Risorgimento: Giovanni Montanelli, Domenico Guerrazzi, l’ex prete Ausonio Franchi e Alberto Mario. Su questi stessi temi, anche Pier Carlo Masini pubblicò quattro articoli su «Volontà», nel 1947, intitolati Dittatura e rivoluzione nel Risorgimento italiano, in cui si occupa in maniera approfondita di Pisacane, Cattaneo, Ferrari e Montanelli. Nel 1978 esce, sempre di Pier Carlo Masini, Eresie dell’Ottocento: alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano, Editoriale Nuova, dove viene messa in luce la figura di Arcangelo Ghisleri come interprete e continuatore del pensiero di Cattaneo. Sono, poi, da ricordare i lavori di Carlo Francovich, che si è concentrato sullo studio delle associazioni segrete, come la carboneria, e dei loro legami con la Giovine Italia e la massoneria (studiata anche da Fulvio Conti e Marco Novarino in Massoneria e unità d’Italia: la Libera muratoria e la costruzione della nazione, Bologna, Il Mulino, 2011). Il merito di questi autori è stato quello di studiare i rapporti tra massoneria e socialismo, elementi molto importanti per analizzare le origini dell’anarchismo italiano. A completamento di quanto detto, Senta termina con alcuni importanti cenni bibliografici, relativi ad autori come Luigi Di Lembo (Il federalismo libertario e anarchico in Italia: dal Risorgimento alla seconda guerra mondiale, Livorno, Sempre avanti, 1994), Giorgio Sacchetti (il contributo in Le radici libertarie del Risorgimento livornese e toscano. Atti del convegno di studi di Livorno, 26 marzo 2010, in memoria di Luigi Di Lembo, Pentalinea, Prato, 2012, una sorta di bilancio storiografico sugli elementi libertari del Risorgimento toscano), Gino Cerrito e Natale Musarra (che hanno messo in luce le particolarità dell’anarchismo e del primo socialismo siciliano). In conclusione, secondo Senta è innegabile un punto di incontro tra un certo federalismo di stampo napoletano (storicamente attento alla questione sociale) e il bakuninismo (come sottolinea il lavoro di Marcello Ralli Libertà e giustizia: foglio settimanale democratico-sociale, organo dell’associazione omonima, Napoli 17 agosto-24 dicembre 1867, Salerno, Laveglia, 1977), che determinerà anche una sovrapposizione di temi con l’ambito più propriamente risorgimentale. Questo aspetto può essere colto nelle biografie della generazione precedente a quella di Malatesta. C’è, infatti, una generazione di passaggio composta da militanti che avevano visto nel Risorgimento l’occasione per un risveglio delle coscienze e la possibilità concreta per le masse popolari di un ingresso nell’agone politico. Senta ricorda alcune di queste figure, come Giuseppe Fanelli (protagonista dell’insurrezione a Milano del 1848 e sodale di Pisacane a Sapri nel 1857, fa parte dei Mille, è massone e deputato e poi dal ’65 è bakuninista), Saverio Friscia (mazziniano, garibaldino, deputato, massone, bakuninista e poi protagonista della sezione siciliana di Girgenti dell’Internazionale), Carlo Gambuzzi (garibaldino, bakuninista, e massone come i primi due, ricoprirà ruoli sempre più importanti tra le fila internazionaliste fino a diventare membro della commissione di statistica dell’Internazionale italiana, nominata a Rimini nel 1872) e anche Celso Ceretti, considerato da Masini come un mediatore tra il garibaldinismo e l’anarchismo.
La terza sessione del seminario ha avuto come tema L’insediamento territoriale e le forme associative/organizzative, con le relazioni di Giorgio Sacchetti e Pasquale Iuso. Il primo intervento, di Giorgio Sacchetti, si è occupato di territorio, sociabilità e di storia delle organizzazioni anarchiche. Si parte dai lavori di Ugo Fedeli e, in particolare, dalla sua opera sugli atti e i convegni della FAI. La questione da tenere presente è la fuoriuscita dalla semplice dimensione politica e in questo senso il termometro della sociabilità è un dato molto interessante. Secondo il parere di Sacchetti occorre uscire dai classici metodi di indagine storica per utilizzare un metodo sincronico cioè andare a vedere quali sono le contaminazioni culturali (ad esempio, l’antimilitarismo del primo Novecento negli studi di Cerrito ha un certo collegamento con l’antimilitarismo socialista o addirittura tolstoiano). Si possono quindi tracciare dei percorsi tra il XIX e il XX secolo in cui si riconoscono dei campi di interesse dell’anarchismo. Da qui, conseguentemente, un’importanza maggiore dell’aspetto locale, mancando per quanto riguarda l’anarchismo un approccio ideologico centralizzato. Gli studi regionali diventano quindi centrali. Sacchetti ricorda, ad esempio, quello di Gino Bianco del 1961 sull’anarchismo ligure, L’attività degli anarchici nel biennio rosso (1919-1920), in “Il movimento operaio e socialista in Liguria”, fondamentale per capire l’apporto degli anarchici nel biennio rosso. Lo stesso lavoro di Sacchetti sui sovversivi toscani (Sovversivi in Toscana 1900-1919, Todi, Altre edizioni, 1983) non riguarda solamente un aspetto regionale ma è un contributo per capire come in un’area chiave dell’anarchismo si costruisce un evento come la costituzione della prima organizzazione nazionale, l’Unione Comunista Anarchica Italiana, nata a Firenze nel 1919.
L’intervento di Pasquale Iuso, L’anarchismo italiano nel secondo dopoguerra: un nuovo oggetto della storiografia, si pone come primo interrogativo la questione se il movimento anarchico nel secondo dopoguerra possa essere considerato o meno un oggetto di studio storico. La crisi che il movimento anarchico ha avuto tra la fine del periodo resistenziale e l’inizio della stagione dei movimenti, infatti, sembra avere avuto una ricaduta negativa nell’interesse da parte della storiografia.
La quarta sessione del seminario si è soffermata sul tema dell’esilio e delle comunità italiane all’estero. Enrico Acciai, definendo l’esilio come un’esperienza che contraddistingue nel lunghissimo periodo le vicende politiche, religiose e sociali del continente europeo, afferma che senza analizzare l’esperienza dell’esilio (esperienza formativa per intere generazioni e che ha tracciato delle dinamiche di socialità alternative o in aperta opposizione alle realtà nazionali), diventa difficile comprendere a pieno la storia contemporanea europea. Si rivela fondamentale analizzare, ad esempio, l’antifascismo come fenomeno transnazionale in cui l’esilio gioca un ruolo importantissimo, senza il quale non saremmo in grado di afferrare il carattere particolare di questo preciso momento della storia europea. L’esperienza dell’esule deve perciò essere considerata come una delle caratteristiche determinanti della storia del Novecento, in particolar modo per ciò che riguarda la politicizzazione e la circolazione delle idee. Storicamente la figura dell’anarchico è stata spesso associata a quella dell’esule, basti citare Pietro Gori definito non a caso “il cavaliere errante dell’anarchia” e questa propensione all’esilio fu particolarmente accentuata per quanto riguarda l’area mediterranea. Tra Otto e Novecento si andarono a formare delle comunità di esuli libertari italiani lungo tutte le coste del Mediterraneo sia in Nord Africa che in Europa (soprattutto Spagna e Francia). Queste comunità furono così importanti da diventare spesso fondamentali per l’organizzazione dei movimenti operai nei paesi di accoglienza.
La storiografia più recente sta progressivamente facendo scomparire il confine tra emigrazione economica ed esilio politico. Acciai sottolinea come l’approccio in lavori come quelli di Lucy Ryall, Maurizio Isabella, Agostino Listarelli e Gilles Pécout nel vasto campo della storia sociale, nei quali si mantiene però vivo e centrale l’elemento della politicizzazione, sia molto interessante e da tenere in considerazione anche da parte di chi si occupa di storia dell’anarchismo. La giusta chiave può esser quella di partire dalle vicissitudini esistenziali provocate dall’esilio, così da poter ricostruire sia il reticolo di relazioni interpersonali e sociali attivate nel mondo dell’esilio quanto le dinamiche di dissenso e opposizione politica che intercorsero tra rifugiati di varie nazionalità e diverse fedi politiche. In questo senso negli ultimi anni l’esilio libertario si sta imponendo come un elemento degno di attenzione storiografica e anche come momento di definizione del movimento libertario nel suo complesso. Tre sono le novità storiografiche che stanno emergendo nell’ultimo decennio. Ci si sta interrogando sui luoghi dell’esilio, con la pubblicazione di lavori sulla Parigi degli anni Trenta del Novecento o della Londra degli anni Ottanta dell’Ottocento, in cui inserire l’esperienza e i rapporti dell’esilio libertario italiano con altri esili politici o nazionali. Il secondo punto vede emergere approfondimenti sul metodo biografico: sono soprattutto i lavori di Senta su Fedeli e di De Maria su Berneri. Per dare un significato all’esperienza dell’esilio come elemento caratteristico di un percorso biografico viene analizzato il proseguimento dell’attività politica fuori dal proprio luogo di origine. La biografia diventa quindi il pretesto per analizzare i vari mondi con cui si dovettero confrontare i personaggi di cui ci si occupa. Terzo e ultimo elemento è un maggiore interessamento sul carattere transnazionale dell’anarchismo. Nel 2007 dalle pagine dell’“International Review of Social History” è stato Davide Turcato a tornare sulla necessità di considerare il movimento libertario al di là dei confini nazionali (Italian Anarchism as a Transational Movement, 1885-1915). Questa esigenza derivava da un lungo percorso iniziato negli anni Novanta ad Amsterdam intorno all’Istituto di Storia Sociale, in particolare su iniziativa di Van Der Linden, la cui scommessa era quella di riuscire a far emergere le caratteristiche transnazionali delle organizzazioni operaie. Questo aspetto, particolarmente vivo nella storiografia spagnola e inglese, registra un certo ritardo da parte della storiografia italiana.
L’altra relazione della quarta sessione, quella di Pietro di Paola, ricorda come lo studio dell’esilio nel mondo libertario non sia prerogativa dell’area italiana; vi sono, infatti, studi sull’anarchismo tedesco negli Stati Uniti o l’esilio francese in Inghilterra e anche sugli anarchici italiani in Sudamerica. Questa vivacità stimola un dibattito di natura metodologica e terminologica sulle definizioni da dare al movimento (che può essere transazionale, internazionale o translocale). L’esilio, oltre ad essere stato elemento comune di quasi tutti gli anarchici (dai più famosi come Gori o Malatesta fino ai militanti meno conosciuti), ha abbracciato sostanzialmente tutti i continenti e un arco temporale molto esteso. Problema comune con altri campi di studio è che il movimento in esilio poggia su reti informali dove non si ha la presenza di organizzazioni strutturate in forma partito, reti che nonostante tutto continuano ad esistere nel tempo. I militanti inoltre sono in continuo movimento, ma ciò sembra non intaccare particolarmente i luoghi, che continuano a “produrre”. Da ricordare vi sono il lavoro di Steven Hirsch e Lucien Van der Walt, Anarchism and syndicalism in the colonial and postcolonal world, Leiden, Brill, 2010, e l’opera di David Berry e Constance Bantman, New perspectives on anarchist labour syndicalism: the Individual, the National and the Transnational, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2010 e il saggio Anarchism and Cosmopolitanism (contenuto in “Journal of Political Ideologies”, n. 3, 2011) in cui Carl Levy annuncia anche il suo prossimo lavoro su Malatesta.
Di Paola rileva che nonostante vi siano gruppi di esuli italiani in Inghilterra, essi rimangono chiusi, lavorano cioè come gruppi nazionali. È solo un problema di lingua o anche di relazione con la popolazione residente? O addirittura un problema di questione religiosa tra paesi cattolici e protestanti? Un recente lavoro di Bencivenni sui sovversivi in Nord America (Italian immigrant radical culture: the idealism of the Sovversivi in the United Staes: 1890-1940, New York, New York University Press, 2011) fornisce un ulteriore spunto di analisi, quello sulla cultura. Se c’è una cosa che tiene assieme questi nodi informali è la costruzione di un’identità comune che si sviluppa anche con la produzione di una cultura che avviene non solo tramite i giornali ma anche all’interno delle comunità dell’esilio, tra le quali c’è un continuo scambio. L’ultimo problema sollevato da Di Paola riguarda il tema del ritorno su cui mancano completamente gli studi, anche dal punto quantitativo (non si sa esattamente quanti anarchici tornano nel secondo dopoguerra e quando essi tornano, in quali circostanze storiche). Se l’esilio è una caratteristica così importante e formativa, bisogna anche analizzare in che modo questa esperienza ha modellato la storia e l’identità del movimento anarchico italiano.
La quinta sessione del seminario, a cura di Alberto Ciampi e Franco Bunčuga, si è concentrato sulle forme dell’anarchismo nell’arte e nella letteratura. Secondo Ciampi, nonostante una bibliografia mai verificata in maniera quantitativa (ma che si prospetta molto vasta), emerge il dato di una storica sensibilità dell’anarchismo verso l’arte in ogni suo aspetto, tradizionale o d’avanguardia. I gruppi, le riviste, i cenacoli hanno spesso accolto e dato voce a chi non riusciva ad esprimersi in altri contesti e in altre realtà. Su questa linea, Franco Bunčuga rileva come per molto tempo architettura e urbanistica siano state associate alla riflessione su subalternità e potere. Per quanto riguarda lo scenario italiano, il relatore si sofferma soprattutto su Carlo Doglio, L’equivoco della città giardino, Napoli, RL, 1953. In quest’opera Doglio recupera il discorso sulle città giardino alla luce del pensiero di Kropotkin, rilevando i fallimenti del progetto e sottolineando come sarebbe dovuta in realtà essere una città anarchica, cioè basata sulla partecipazione e sulla possibilità di una gestione comune. Altri intellettuali libertari hanno alimentato nei decenni successivi queste teorizzazioni: il nome più importante è quello di Giancarlo De Carlo.
La sesta sessione del seminario ha riguardato i temi dell’ecologia e del post o neo-anarchismo. Salvo Vaccaro pone una premessa terminologica essenziale, riguardante il termine post-anarchismo, che sintetizza un movimento esclusivamente culturale, che non ha radici italiane e che si occupa di valorizzare una pratica di ibridazione. Il prefisso post- (ma anche neo-) può far pensare a un superamento ideologico. Ciò che invece si cerca di elaborare, e qui si inserisce la caratteristica di ibridazione, è l’esigenza di ricercare la non ripetitività con l’anarchismo “classico” pur senza provocare nette cesure ideologiche. Queste discussioni nascono in contesti quasi esclusivamente anglosassoni. Capostipite (consapevolmente o meno) di questa operazione è l’autore americano Todd May che pubblica La filosofia politica del post strutturalismo anarchico nel 1994 la cui traduzione italiana esce nel 1998 per Elèuthera. Da questo momento, in particolare in area anglosassone, si susseguono studi e operazioni culturali (dal cinema, all’estetica, alla politica e soprattutto all’interno del pensiero filosofico) che accendono e alimentano il dibattito. Una bibliografia abbastanza esaustiva, che si ferma però al 2006, è contenuta in un supplemento del Bollettino dell’Archivio Pinelli edito dal Centro Studi Libertari di Milano. Un ulteriore tassello per la comprensione dell’argomento è fornita dall’antologia curata dallo stesso Vaccaro (Pensare altrimenti. Anarchismo e filosofia radicale del novecento, Milano, Elèuthera, 2011) in cui sono stati raccolti alcuni passaggi dei principali esponenti del pensiero post-anarchico per cercare di offrire un panorama meno legato a trend culturali ma più connesso ai concetti, in modo da creare un dialogo tra l’anarchismo e autori come Derrida e Deleuze.
La seconda relazione, quella di Selva Varengo, affronta invece l’argomento dell’anarchismo verde italiano. L’ecologia sociale costituisce un primo tentativo di incontro tra anarchismo ed ecologismo sia in Italia che altrove. Prende avvio dai lavori di Murray Bookchin, il cui interesse per queste tematiche si sviluppa già a partire dai primi anni Cinquanta. Il suo primo saggio risale, infatti, al 1952 e il primo libro al 1962. Il punto di osservazione di Bookchin non si limita a descrivere una crisi ecologica ma cerca di individuarne la causa, indicandola nella rottura dell’equilibrio tra esseri umani e natura. Questo strappo deriva dall’emergere di quella che Bookchin definisce logica del dominio, che rende il problema ecologico una questione sociale. Gli squilibri del mondo naturale sarebbero una conseguenza delle distorsioni del mondo sociale. I principali lavori usciti in Italia comprendono i contributi di Selva Varengo, La rivoluzione ecologica, Milano, Zero in Condotta, 2007, Ermanno Castanò, Ecologia e potere, Udine, Mimesis, 2011 e la ristampa di Ecologia della libertà di Bookchin.
Una seconda corrente di pensiero analizzata dalla Varengo è quella della decrescita, movimento che si sviluppa in Francia nell’ultimo decennio e il cui teorico più noto è Latouche, di cui sono stati tradotti numerosi testi in italiano. La decrescita per Latouche è innanzitutto uno slogan per evidenziare la necessità di abbandonare l’ideologia della sviluppo illimitato: il suo obiettivo polemico è la crescita capitalista, giudicata folle e inutile. In Italia si può segnalare un dibattito alla “Quinta vetrina dell’editoria anarchica e libertaria” di Firenze nel 2011 e il laboratorio Decrescita e potere all’interno della “Terza conferenza internazionale sulla decrescita” tenutasi a Venezia nel 2012. Recentissimo è anche il contributo di Latouche apparso sul primo numero della “Nuova Libertaria” intitolato Saggio della rivoluzione e decrescita.
L’ultima sessione del seminario, curata da Massimo Ortalli e Luigi Balsamini, offre una panoramica sul tema degli strumenti, dei repertori e delle fonti per la storia dell’anarchismo. La prima considerazione di Massimo Ortalli riguarda una certa “insensibilità” degli anarchici verso la propria storia, particolarmente evidente fino alla fine degli anni Sessanta. Insensibilità che rispecchia, oltre il declino della presenza anarchica nella società, anche la difficoltà del movimento di riflettere su se stesso. Dal 1946 fino alla fine degli anni Sessanta i titoli da prendere in considerazione nella storiografia sull’anarchismo sono solo una settantina di cui meno della metà (circa una trentina) sono di autori riconducibili al mondo anarchico. Tra questi titoli vi sono tredici brevi monografie di Fedeli (lavori che si caratterizzano più su ricordi personali che su una effettiva ricerca storica), tre lavori di Masini, completi e molto articolati, e uno di Cerrito, che è il perfezionamento della sua tesi di laurea sulla rinascita dell’anarchismo in Sicilia. Da queste opere andrebbero tolte le autobiografie, le memorie, come quelle di Borghi, Mariani e Boschi e le varie opere commemorative. Di queste settanta opere, inoltre circa venti non riguardano l’Italia, ma si concentrano su aspetti internazionali come la Comune di Parigi, la Guerra civile spagnola e la Rivoluzione Russa. Si può quindi sostenere che l’interesse verso la nascita e lo sviluppo dell’anarchismo italiano sia alquanto insoddisfacente. A ciò si deve aggiungere che una parte di queste settanta opere è stata scritta da autori di area marxista che, considerando la temperie politica del tempo, non erano favorevoli a riconoscere valenze positive al movimento anarchico. Va infatti ricordato che non poche delle opere che trattavano dello sviluppo del socialismo e del comunismo, quindi un arco storico compreso tra gli anni Settanta e Novanta dell’Ottocento, non fanno quasi cenno alla presenza anarchica, sia per quanto riguarda la storia locale che nazionale, presenza in realtà piuttosto importante. Le interpretazioni cominciano a cambiare solamente dopo il ’68, grazie a movimenti (generazionali e politici) che esprimevano esigenze contigue al movimento libertario, come l’assenza di strutture verticistiche, la centralità dell’azione dal basso e il rifiuto della delega. Escludendo il fondamentale lavoro (già ricordato) di Woodcock, caposcuola in questa inversione di tendenza sarà il volume di Pier Carlo Masini del 1969, che per primo parla degli anarchici e dell’anarchismo come un movimento specifico. Un’altra testimonianza di questa inversione di tendenza è la pubblicazione di Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo. Atti del convegno promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 5,6 e 7 dicembre 1969), Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1971, che vide la partecipazione di numerosi importanti storici, anche non italiani, che dibatterono dell’anarchismo nella sua specificità. L’importanza del convegno fu di sottolineare come la presenza del movimento anarchico, nonostante la sua frammentazione organizzativa, anche a livello nazionale, era comunque spesso il risultato di una storia comune e generalizzata. È in questo clima che si sviluppa una nuova generazione di storici (più o meno contigui all’anarchismo) i cui lavori non sono condizionati dall’appartenenza ideologica, ma sono stati capaci di affrontare l’argomento in maniera scientifica e professionale, stimolando nuove analisi e dibattiti. Gli studi storiografici sull’anarchismo riprendono vigore anche in ambienti differenti, da un lato per contrastare la rinnovata presenza del movimento libertario in Italia e ridimensionarla, dall’altra perché si riconosce la specifica presenza dell’anarchismo all’interno del vasto universo del socialismo italiano. Questo fermento di studi non affronta solo la storia dell’anarchismo nella sua complessità ma anche nella sua settorialità, attraverso studi dedicati a singoli personaggi, esperienze locali, a formule organizzative, e a raccolte di memorie per creare una storia più legata al territorio. Negli ultimi trent’anni sono stati compiuti circa 160 studi biografici, dedicati a 120 diversi personaggi. Ma accanto a questi vi sono lavori che si concentrano su episodi locali di lotte operaie, resistenza antifascista, di vita comunitaria e proposte pedagogiche. Tutto ciò rende un quadro sempre più variegato e completo dell’anarchismo italiano. Accanto a questi studi prettamente storici, si incrementa anche il lavoro sulle fonti. Fondamentale il Dizionario biografico degli anarchici italiani, pubblicato nel 2003-2004 in due volumi dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa. Ortalli dedica un cenno conclusivo anche al rafforzamento della rete degli archivi dedicati alla storia dell’anarchismo, che cominciano a nascere solamente alla fine degli anni Sessanta e si sviluppano negli anni successivi. Tra i più importanti si possono ricordare l’Archivio Berneri-Chessa, la Biblioteca Serantini, il Centro Studi Libertari Pinelli, l’archivio FAI di Imola, la Biblioteca Travaglini e la Biblioteca Borghi di Castel Bolognese.
L’ultima relazione del seminario, quella di Luigi Balsamini, sottolinea in premessa proprio la centralità delle fonti d’archivio e dei fondi bibliografici per lo studio del movimento e delle forme dell’anarchismo. Fondamentali diventano quindi le biblioteche specializzate, gli archivi, i centri di documentazione, ma anche le biblioteche pubbliche, che possiedono un patrimonio e un servizio documentario di grande utilità (in questo ambito si registra un certo ritardo italiano rispetto alle esperienze anglosassoni) sia nel ristretto ambito della ricerca che in quello sociale. Nasce in questo modo il progetto di un catalogo collettivo del patrimonio documentario relativo alla storia e alle culture dei movimenti anarchici e libertari. Esistono già molte biblioteche specializzate, alcune nate di recente, altre invece legate all’eredità storica della stagione dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Alcune di queste hanno avviato da qualche tempo la catalogazione informatizzata del loro patrimonio, mettendo in rete il proprio catalogo (Opac) e consentendo di migliorare quel canale privilegiato di comunicazione (il catalogo appunto) che permette agli utenti di utilizzare il patrimonio conservato in una biblioteca (la differenza stessa tra deposito di libri e biblioteca è la presenza o meno di un catalogo del posseduto). Oggi, però, il ricercatore che studia l’ambito libertario e anarchico può solo spostarsi fra vari elenchi, mentre il progetto di un catalogo collettivo virtuale (Metaopac) consentirebbe di interrogare contemporaneamente i diversi Opac delle varie biblioteche come se l’utente finale avesse a disposizione un unico catalogo, mentre ogni biblioteca continuerebbe a lavorare in autonomia. A questo progetto, attivo già da quasi un anno, si stanno occupando informatici e bibliotecari di Castel Bolognese, Imola, Pisa, Fano, Bologna e Milano. Le difficoltà sono ben presenti, perché in un’epoca in cui il binomio “documento fisico-collocazione” viene superato dal concetto di “documento digitale-accesso”, l’utente che non sia un ricercatore o un professionista ha strategie di ricerca che difficilmente partono dal catalogo della biblioteca, bensì molto più semplicemente da un motore di ricerca come Google. L’aspettativa di una ricerca su Google o altri motori va al di là di una semplice citazione bibliografica; il catalogo collettivo dovrebbe quindi essere il più possibile aperto, cioè uno strumento che permetta la ricerca tra una pluralità di fonti e in grado di sfruttare quello che viene comunemente detto “web semantico”. Dovrebbe essere strutturato in modo da integrare anche raccolte di materiali digitali nativi e digitalizzati da cartaceo, riunendo sia risorse bibliografiche sia inventari archivistici. Il catalogo collettivo sarebbe il primo tassello di una cooperazione tra biblioteche specializzate in ambito libertario ancora tutta da costruire, che non è solo di natura difensiva (si coopera per far fronte a una diminuzione di risorse), ma deve essere vissuta come opportunità di crescita, perché nessuna biblioteca può considerarsi autosufficiente dal punto di vista bibliografico. Il vantaggio si orienterebbe a una maggiore specializzazione di ogni centro, riducendo le sovrapposizioni e impostando una rete collaborativa basata sul reciproco scambio.
Queste sono, in conclusione, le analisi che saranno sviluppate più approfonditamente al convegno del maggio 2014, di cui questo resoconto vuole essere una specie di mappa concettuale e bibliografica di orientamento.