di Fabio D’Angelo
Abstract
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Introduzione
Nel Secolo dei Lumi les savoirs fioriscono e conoscono un’eccezionale diffusione grazie agli incontri e agli scambi scientifici che portano molti gentiluomini, letterati e savants a viaggiare (Belhoste 2012). Il viaggio nel Settecento diventa occasione anche di formazione e ha tra i suoi principali attori i giovani rampolli dell’aristocrazia europea che si dirigono verso i grandi centri del Vecchio continente per completare il loro iter formativo. Accanto a essi geologi, mineralogisti, ingegneri, chimici si spostano nello spazio euromediterraneo e cercano, classificano, descrivono e catalogano tutto quanto il mondo naturale offre ai loro occhi, senza tralasciare le testimonianze delle civiltà antiche. Questa particolare tipologia di viaggio è ancora assimilabile ai caratteri del Grand Tour, “un istituto formativo specifico” (Berrino 2011, 13).
Nel corso dell’Ottocento il consolidarsi della società borghese e l’affermarsi della cultura romantica generano un’importante trasformazione del viaggio: entrano in gioco “nella fase di acquisizione della realtà” (Ivi, 14) i sensi. Con un approccio non più soltanto scientista il viaggiatore si avvicina alle bellezze naturali, artistiche e paesaggistiche dei luoghi visitati, privilegiando l’aspetto ludico. Egli è disposto anche a cogliere e a sfruttare i divertimenti e gli svaghi offerti. Tuttavia non è possibile collocare ancora questa forma di viaggio nella categoria “turismo” con cui si fa riferimento a servizi e politiche di accoglienza e di promozione delle città che cominceranno ad affermarsi a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. È più corretto invece parlare di “viaggio di diporto” che serve non solo per conoscere i posti visitati, le abitudini, le ricchezze naturali, ma anche per “frequentare i luoghi nei quali si vanno elaborando le specifiche culture nazionali [e per cogliere] ogni occasione per porre a confronto popoli, culture, politiche e istituzioni” (Ibidem).
Se i primi decenni del XIX secolo segnano l’affermarsi del viaggio di diporto e il progressivo declino del Grand Tour settecentesco (De Seta 1992), nello stesso periodo non sono invece significativi i cambiamenti nell’elaborazione degli itinerari: agli inizi dell’Ottocento infatti si seguono i percorsi già conosciuti nel secolo precedente (Severini 2013). Le principali differenze vanno ascritte al migliorameno dei servizi di trasporto e di ospitalità.
Non essendo più valide quelle relazioni private che avevano procurato ospitalità e agevolato i viaggi alle aristocrazie, i diportisti necessitano di strumenti di informazione che consentano di orientarsi nel corso degli spostamenti e del soggiorno. Questa nuova esigenza è ciò che stimola la produzione di guide e manuali che contengono informazioni dettagliate su alberghi, case arredate e trattorie (Starke 1820; Valery 1840). Le prime edizioni, però, per la mancanza di sufficienti notizie sugli Stati italiani, specialmente su quello meridionale, sono parziali: nel 1800 a Firenze viene dato alle stampe L’Itinerario italiano (Itinerario italiano 1800) che “dedica solo pochissime pagine alle regioni meridionali” (Berrino 2011, 29).
Come nel Settecento ancora nell’Ottocento il flusso dei viaggiatori in arrivo dalla parte settentionale del Vecchio continente si dirige verso l’Italia (Brilli 2006). Molti sono quelli che, soprattutto per difficoltà logistiche, decidono di limitare il loro itinerario alla città di Roma. Non sono pochi tuttavia quelli che scelgono di spingersi fino al golfo di Napoli (Doria 1984; Pemble 1998; Richter 2002). Napoli, che in quel momento è accreditata come una delle città più importanti d’Europa, offre infatti l’opportunità di godere dell’amenità del luogo e delle testimonianze storico-artistiche. Ma essa è anche la sede di importanti istituzioni scientifiche che accolgono gli studiosi stranieri desiderosi di iniziare nuove ricerche (Torrini 1989; Di Mitri 2002).
Anche se l’attrazione per Napoli nel corso dell’Ottocento è ancora particolarmente forte, negli itinerari di viaggio del XIX secolo si assiste a un ampliamento delle mete. In essi si inseriscono infatti anche altre città e regioni del Sud che diventano destinazioni privilegiate sia per italiani sia per gli europei (Semeraro 1991; Settembrino 2004; Caserta 2005). Numerosi ad esempio sono gli scienziati che, dopo essersi imbarcati a Napoli, raggiungono la Sicilia. Più difficile risulta invece il passaggio dal versante Tirrenico a quello Adriatico in quanto, nonostante i lavori di ammodernamento all’impianto viario avviati al tempo del regno di Gioacchino Murat (Di Biasio 2003), spostarsi da Napoli a Bari risulta ancora poco agevole. I viaggiatori considerano inoltre pericoloso addentrarsi nei paesi lucani o in Calabria per la presenza dei briganti.
Arrivati a Napoli o in altre province del Sud d’Italia scienziati, letterati e intellettuali desiderano conoscere ogni aspetto dei luoghi visitati: dalle curiosità naturali, ai costumi del popolo e della corte, alle istituzioni, alternando di volta in volta uno sguardo romantico all’approccio scientista. E le memorie scritte all’indomani del ritorno in patria raccontano un mondo complesso e contraddittorio, antico e moderno, nobile e plebeo, ricco e povero, cosmopolita e provinciale, levantino ed europeo.
Napoli e i suoi environs negli itinerari di viaggiatori italiani ed europei
Nella maggior parte degli itinerari che guidano il cammino dei viaggiatori europei verso il Sud d’Italia, Napoli è la principale meta e in alcuni casi l’ultima tappa del viaggio. Tuttavia non pochi sono quelli che scelgono la capitale del Regno delle Due Sicilie come punto di partenza di un nuovo percorso che li porterà a scoprire altre città e paesi del Mezzogiorno.
Il 14 luglio 1825 Édouard Gauttier d’Arc, vice console di Francia in Grecia ed esperto orientalista, decise di recarsi ad Amalfi (Gauttier d’Arc 1829) per verificare l’esistenza del manoscritto delle Tavole amalfitane, un’antica legge che regolava i rapporti marittimi della repubblica marinara.
Il racconto del soggiorno amalfitano del funzionario francese si apre con l’invito a tributare all’antica repubblica un grande elogio perché è ad Amalfi che sarebbe stata adoperata per la prima volta la bussola “qui, avec l’invention de l’imprimerie [a] contribué à tirer l’Europe de la barbarie où elle était plongée” (Ivi, 4)1. E per la bellezza del suo paesaggio e per essere stata un tempo un importante centro politico-culturale in grado di rivaleggiare con Pisa, Genova e Venezia, ogni viaggiatore dovrebbe organizzarvi un “religieux pélegrinage” (Ibidem). Tuttavia – come notava lo stesso Gauttier d’Arc – erano pochi gli stranieri che decidevano di visitare Amalfi per l’impossibilità di raggiungere facilmente la città, sia a cavallo sia impiegando un vetturino o una diligenza, a causa della situazione precaria in cui versavano le strade del regno. Basti pensare che il vice console francese per recarsi ad Amalfi fu costretto a imbarcarsi su una chiatta al porto di Napoli, raggiungere Castellamare e poi, a bordo di un vetturino, giungere alla meta stabilita.
Durante la navigazione lo splendore del panorama che progressivamente si dispiegava agli occhi di Gauttier d’Arc lo spinse a dimenticare le difficoltà del viaggio. Le emozioni, lo stupore, l’ammirazione per quanto visto e vissuto acquistarono notevole rilevanza. Le colline verdeggianti di Posillipo, le torri grigiastre del Castel Nuovo, il molo e il faro, “objet d’un culte d’amour pour les Napolitains” (Ivi, 7), e le case con colori variopinti donavano “à la ville un aspect si pittoresque” (Ibidem). Nelle parole di Gauttier d’Arc l’elemento del pittoresco, che insieme al sublime costituisce uno dei sentimenti tipici dell’uomo romantico al cospetto della natura, ritorna spesso così come in altri diari e racconti di viaggio ottocenteschi (Bodei 2008).
La cantilena di un giovane mozzo, ripetuta a voce bassa per l’equipaggio, richiamò l’attenzione dei passeggeri sulla piccola chiesa di Santa Maria di Portosalvo situata a poca distanza dal porto di Castellamare luogo in cui Gauttier d’Arc decise di approdare prima di recarsi ad Amalfi. “Au premiere cour d’œil” Castellamare destò grande sorpresa nel vice console: ad accoglierlo infatti vi fu un folto gruppo di asini che attraversava la piazza nei pressi del porto. Dopo questo curioso incontro il funzionario francese diede inizio, accompagnato da un cicerone stabiese, al suo itinerario che lo condusse in diversi paesi dell’area vesuviana. E al diario di viaggio Gauttier d’Arc affidò le sensazioni che gli suscitavano di volta in volta i luoghi attraversati.
Se rispetto ai grandi centri urbani Castellamare offriva “peu de curiosités” (Gauttier d’Arc 1825, 12), la città doveva essere considerata comunque tra le più importanti del regno. Avevano sede infatti l’arsenale, il porto militare – nel quale si formavano gli armamenti della marina reale – e la residenza del re che non fu possibile tuttavia visitare perché in quei giorni vi risiedeva il sovrano con la famiglia.
Nel tragitto che separava l’arsenale dal castello reale la guida che accompagnava il funzionario francese lo invitò a soffermarsi sulle numerose ville che si ergevano sulle colline stabiesi. In esse durante il periodo estivo dimoravano tanti stranieri, soprattutto inglesi, che vi risiedevano per sfuggire al calore di Napoli. La guida scorse facilmente e indicò ai suoi ospiti “le charmant édifice” del barone Acton, oppure l’appartamento del Ministro dell’Inghilterra, o ancora quello dell’ambasciatore austriaco. Stabia inoltre era meta preferita anche per i valetudinari che vi accorrevano per bere le acque alcaline e sulfuree considerate importanti rimedi medicinali.
Trascorsa la notte in un albergo locale, il 15 luglio Gauttier d’Arc e il suo seguito partirono alla volta di Pompei che richiamava da sempre folti gruppi di viaggiatori europei e italiani desiderosi di compiere passeggiate ed escursioni tra le rovine delle antiche città romane (École française de Rome 1981; De Seta 1996). L’uomo del Settecento, per cultura e per formazione neoclassica, era interessato esclusivamente a studiare dal vivo i reperti archeologici. Le rovine invece ispiravano nell’uomo romantico la sensazione del disfacimento delle cose prodotte e generavano in lui la commozione del tempo che è passato. Le testimonianze delle civiltà antiche, pur se venivano aggredite dalla corrosione del tempo, erano comunque presenti in queste rovine. E le rovine, per lo spirito romantico, sono più emozionanti e piacevoli di un edificio, o di un manufatto intero.
Nel suo racconto Gauttier d’Arc non si lasciò impressionare dalla bellezza degli scavi archeologici pompeiani ed ercolanesi e a essi non dedicò molta attenzione. Si limitò soltanto a riproporre alcuni versi del poeta francese Bignan che richiamavano l’antico splendore di Pompei (Bignan 1828).
Da Pompei il funzionario francese giunse a Nocera e poi si addentrò nel golfo salernitano. Iniziava quello che Gauttier d’Arc definì “l’Eden des paysagistes” (Gauttier d’Arc 1825, 27) in cui “tout devient encore plus magique dans le tableau qui se déroule à nos yeux. A gauche, le noir Vésuve exhale une fumée lente; plus loin, les cîmes bleuâtres de l’Apennin ceignent et terminent l’horizon […]. Rien n’est comparable à ce tableau” (Ivi, 28).
A Cava de’ Tirreni la disinvoltura e il contegno che mostrarono gli abitanti impressionò favorevolmente d’Arc che mai avrebbe pensato di ritrovare simili caratteristiche nella popolazione di un piccolo centro dell’Italia meridionale. La posizione della città inoltre – ricordava il vice console – faceva di Cava una delle più ambite residenze estive. Egli sottolineò inoltre la notevole ricchezza libraria della biblioteca dell’Abbazia della Santissima Trinità definita, con toni tuttavia eccessivamente enfatici, la più fornita d’Italia.
Da Cava Gauttier d’Arc raggiunse Vietri di cui non gradì lo scarso livello di pulizia e di igiene che egli notò passeggiando per le strade cittadine. Si diresse poi verso Paestum e, dopo averne ammirato gli scavi archeologici, partì alla volta di Atrani, spinto dal desiderio di visitare una fabbrica addetta alla produzione della pasta “si célébrés par les gastronomes” (Gauttier d’Arc 1825, 39). Atrani rappresentava la penultima tappa dell’itinerario di viaggio verso Amalfi.
Stupore, meraviglia e un pizzico di malinconia sono i sentimenti che Gauttier d’Arc provò al suo arrivo ad Amalfi. Un tempo era un’importante repubblica marinara di cui si apprezzavano le leggi, i costumi, la cultura. A metà Ottocento invece restava ben poca testimonianza che potesse richiamare l’antica gloria della città. Tre barche di pescatori con le loro reti, qualche casa, “d’une assez triste apparence, placée toutefois dans la situation la plus pittoresque” (Gauttier d’Arc 1825, 42) e un piccolo albergo: “voilà tout ce qui reste aujourd’hui d’Amalfi”.
Dopo un soggiorno di quattro giorni ad Amalfi il vice console francese rientrò a Parigi anche perché, nonostante intense ricerche, non era riuscito a trovare il manoscritto delle Tavole amalfitane.
A differenza dell’itinerario percorso da Gauttier d’Arc, quello di André-Hippolyte Lemonnier, collezionista e segretario dell’Accademia di Francia a Roma, riprodusse un tragitto particolarmente conosciuto: da Roma a Napoli e l’ascensione al Vesuvio che costituiva l’oggetto prioritario di studio e motivo principale del viaggio di Lemonnier in Italia.
Il Settecento e soprattutto l’Ottocento sono i secoli in cui la geologia, la vulcanologia e la mineralogia, grazie anche agli impulsi e agli studi provenienti dalla Francia e dai paesi dell’area tedesca, acquistarono dignità scientifica e si imposero come discipline autonome (Vaccari 1998; 2003). Il miglioramento delle tecniche d’indagine del territorio, di estrazione dei minerali e la possibilità di studiare con maggiore precisione i fenomeni connessi alle eruzioni vulcaniche consentirono agli scienziati di esprimersi con maggior rigore riguardo all’origine della Terra e dei vulcani. In questo intensificarsi di studi, il Vesuvio si affermò come un laboratorio naturale in cui gli scienziati studiavano da vicino i fenomeni geologici che in esso si producevano. L’interesse per il vulcano napoletano inoltre si inseriva in uno più grande rivolto alla montagna. A partire dai primi decenni del Settecento le montagne erano percorse dagli ingegneri militari e dai cartografi che avevano l’esigenza di “mappare potenziali territori di guerra” (Berrino 2011, 20). A cavallo tra XVIII e XIX secolo erano i naturalisti a scalare le montagne e soprattutto erano i primi a pubblicare i risultati delle loro ricerche scientifiche. A partire dell’Ottocento ingegneri e naturalisti furono “affiancati” da letterati e artisti romantici. “[…] Se gli scienziati esploravano e descrivevano [le montagne], i letterati, i filosofi, gli artisti le interpretavano” (Ibidem). E la spedizione al Vesuvio di Lemonnier racchiudeva entrambe le azioni.
Una sera di marzo del 1828, mentre l’intellettuale francese era al Café Grec, uno dei più antichi di Roma fondato nel 1760, gli fu annunciato che a Napoli si era appena manifestata un’eruzione del Vesuvio. A bordo di un vetturino e in compagnia dell’incisore François Bouchot, dei paesaggisti Jacques Raymond Brascassat, Léon Fleury, Jean-Baptiste Camille Corot e di altri artisti francesi e russi2, Lemonnier si diresse verso la capitale del Regno delle Due Sicilie (Lemonnier 1828).
Il viaggio fu poco agevole anche perché “les chemins de fer étaient encore à l’état de théorie incertaine en 1828” (Ivi, 2) e le strade carrozzabili erano in pessimo stato, sicché occorsero quattro giorni per raggiungere Napoli.
Dopo aver lasciato Roma il gruppo attraversò le paludi pontine e giunse a Terracina. In riferimento a questo centro abitato Lemonnier nel suo diario di viaggio si è limitato soltanto a evidenziare la “gaité” (Ivi, 3) degli abitanti locali. Seguendo un itinerario consolidato, da Terracina il vetturino fu a Formia poi a Fondi prima di effettuare un’ulteriore sosta a Capua.
Malgrado la lentezza con cui i cavalli trainavano il vetturino, Lemonnier e i suoi compagni riuscirono in poche ore a raggiungere Napoli, anche se durante il tragitto essi avevano appreso la notizia che l’eruzione del Vesuvio era conclusa. Il 31 marzo il gruppo decise ugualmente di dirigersi al cratere del vulcano: un’eruzione appena terminata e la possibilità di studiarne le caratteristiche costituivano per Lemonnier uno spettacolo paragonabile all’eruzione stessa. Dopo aver attraversato rapidamente il borgo di Resina e scalato i fianchi del Vesuvio, i viaggiatori francesi approdarono al cratere. Qui constatarono personalmente che l’esplosione vulcanica era avvenuta effettivamente prima del loro arrivo, il 21 marzo ed era terminata il 24. Restavano adesso da ammirare soltanto i gas che fuoriuscivano dal cratere, uno spettacolo comunque non meno attraente.
Prima di rientrare a Roma Lemonnier si recò in visita all’isola di Ischia. Furono sul monte Epomeo, un vulcano inattivo, a Lacco e a Foria prima di spostarsi verso Procida che si presentò agli occhi del collezionista francese più piccola e meno pittoresca di Ischia. L’unico aspetto interessante che egli rimarcò fu l’abbigliamento delle procidane, definito il più grazioso ed elegante di quelli visti in altri paesi d’Italia.
Da Procida il gruppo ritornò a Napoli e, attraversando le popolose strade cittadine, visitò le chiese, i musei, i giardini e i dintorni della città. Furono ad esempio alla grotta di Posillipo, a Pompei, Pozzuoli, Baia e Cuma. Il viaggio a Napoli sarebbe dovuto durare nell’intenzioni di Lemonnier soltanto pochi giorni. Vi soggiornarono invece due settimane estasiati dalle bellezze artistiche, naturali e paesaggistiche che “la plus belle contrée du monde” (Ivi, 10) offriva.
Nel viaggio di Adolphe Pezant, letterato francese, verso il Sud d’Italia (Pezant 1835), compiuto a partire dal 4 aprile 1835, ritornano alcuni elementi riscontrabili in altri diari. Invariato ad esempio è l’itinerario che ha inizio a Napoli e prosegue con un tour interno alle province del Regno, toccando mete classiche come Pompei, Ercolano, il Vesuvio, le isole del golfo. In Pezant inoltre ritorna ancora una volta la definizione di pittoresco.
È possibile tuttavia rintracciare nel recit de voyage di Pezant alcune caratteristiche differenti rispetto ai racconti precedentemente citati. Napoli non è il punto di arrivo dell’itinerario di viaggio, bensì quello di partenza. Dalla capitale del Regno infatti Pezant risale verso l’Italia centrale e settentrionale, prima di ritornare in Francia. Inoltre grande spazio in questo racconto viene riservato alla descrizione del popolo napoletano spesso criticato, ma a volte anche ammirato.
A bordo del brigantino Madonna della pietà di Santo Antonio, comandato da un capitano napoletano, Pezant salpò da Marsiglia in direzione di Napoli. Alle sei di sera il marinaio, dopo aver raccolto tutto l’equipaggio, avvertì che era giunta l’ora della preghiera. L’episodio impressionò il viaggiatore francese al punto che egli gli dedicò diverse pagine nel suo journal. La preghiera a cui poté assistere Pezant gli appariva come frutto di un eccessivo fanatismo religioso. Sembrava essere, per le modalità attraverso le quali si compì, una derisione più che un omaggio dei fedeli alla divinità (Pezant 1828, 2). Derisione perché la preghiera fu pronunciata in un latino storpiato. “On sait que l’italien dérive presqu’entièrement du latin, ce qui fait présumer que les Italiens mieux que tout autre peuple, devraient savoir prononcer la langue latine; cependant, comme témoin auricolaire, je me suis convaincu qu’il n’en est rien, et qu’ils ne se font pas plus de scrupule que la majorité de tous ceux qui n’entendent pas le latin, de l’estropier quand ils adressent à Dieu leurs prières, sans savoir ce qu’ils disent” (Ivi, 3).
Il viaggio da Marsiglia a Napoli fu particolarmente lungo. Basti pensare che occorsero quattro giorni di navigazione per approdare al porto napoletano. Alle fatiche della lunga traversata si aggiunse anche un episodio spiacevole per Pezant. Agli uffici doganali del Regno era giunta notizia da Livorno che a Marsiglia si erano registrati diversi casi di colera. E poiché Pezant proveniva proprio dalla quella città francese, al suo arrivo a Napoli fu messo in quarantena per un mese in un edificio sull’isola di Nisida.
Nonostante l’incoveniente, al suo ingresso in città da via Toledo l’intellettuale francese non poté non ammirarne “l’aspect aussi majestueux et aussi varié” (Ivi, 223). In compagnia di una guida locale Pezant attraversò interamente via Toledo, definita la più ricca e la più grande della città, per poi giungere a Santa Lucia. Era in questa strada – raccontava la guida al suo ospite – che soprattutto a partire dal Regno di Gioacchino Murat si incontravano i ricchi napoletani che, seduti nei più rinomati ristoranti, gustavano les fruits de mer. Erano inoltre in molti ad accorrere a Santa Lucia perché vi si trovavano le principali sorgenti di acqua sulfurea e ferrata. A Santa Lucia per la bellezza e per la dimensione Pezant paragonò la strada di Chiaia in cui avevano dimora la nobiltà napoletana, gli ambasciatori e le legazioni delle più importanti nazioni europee.
A scandire il passaggio tra via Toledo, Santa Lucia e la strada di Chiaia vi erano alcune delle residenze dei sovrani napoletani come la Villa e il Palazzo Reale, il monumento – scrive Pezant – tra i più belli di Napoli. All’estremità di via Toledo si apriva agli occhi del viaggiatore francese Largo di Palazzo, attuale Piazza del Plebiscito, con la chiesa di San Francesco di Paola, inziata per volere di Gioacchino Murat, ma completata al tempo di Ferdinando I di Borbone come ex voto per aver riconquistato il regno. Da Largo di Palazzo la guida condusse Pezant alla Fontana Medina, al Castel Nuovo e poi al porto. Fu poi alla piazza del Mercato, che per l’intelletuale parigino rappresentava ciò che a Parigi erano les Halles. A piazza del Mercato si trovavano a buon prezzo, “tous les jours et en abondance” (Ivi, 238), tutti i generi alimentari.
Riprendendo la strada verso il mare, Pezant e la guida si recarono al Castel dell’Ovo e salirono poi verso il Monte San Martino per visitare Castel Sant’Elmo.
Nonostante il paesaggio naturale magnifico e le rilevanti bellezze storico-artistiche, Pezant riscontrava un livello molto basso di civilizzazione dei napoletani.
Riflettendo sul popolo, sulla cultura e sul governo, Pezant anticipava giudizi e considerazioni avallate poi dalla storiografia contemporanea (Villani 1969; Lepre 1985; De Lorenzo 2011). Durante il Decennio francese le riforme dei Napoleonidi avevano apportato grandi cambiamenti sociali, economici e politici. Tuttavia con il ritorno dei Borbone – continua Pezant – “le souvenir [dei sovrani francesi] a été oublié au point que tout y a rétrogradé […]” (Pezant 1835, 249). Inoltre riguardo al commercio interno ed esterno del regno Pezant sosteneva che i governanti avrebbero dovuto mettere meglio a profitto “les grands avantages que procure toujours à ses habitans une capitale qui a des relations de commerce aussi etendues que celles de Naples, où affluent les étrangers” (Ivi, 250).
Il popolo napoletano era descritto come arretrato culturalmente rispetto agli altri paesi europei, costretto a vivere in pessime condizione igieniche. Inoltre il tasso di povertà era notevolmente alto e ciò era chiaramente riscontrabile – racconta Pezant – percorrendo le strade cittadine. Numerosi sono gli stranieri ad esempio seguiti da torme di mendicanti ricoperti solo di cenci.
La devozione che spesso sfocia in fanatismo religioso era un altro elemento che contraddistingueva, per Pezant, il popolo napoletano rispetto agli abitanti di altre città italiane. A Napoli in ogni angolo di strada, in tutti i magazzini e negozi si potevano trovare le effigie della Vergine davanti alle quali brillavano notte e giorno delle candele. E a ognuna di queste immagini sacre il popolo napoletano doveva necessariamente una preghiera.
Non manca nel giornale di viaggio dell’intellettuale transalpino il riferimento alla passione “effrénée” che i napoletani avevano per gioco del lotto (Macry 1997). Il furore con il quale essi si dedicavano a questo gioco era difficilmente concepile per uno straniero come Pezant. Egli non capiva come fosse possibile arrivare a privarsi di generi di prima necessità pur di racimolare i soldi necessari a giocare al lotto. “Cette frénésie est capable encore de les porter au vol. On ne fait pas dix pas dans la rue de Tolède, sans y rencontrer un bureau de loterie” (Pezant 1835, 256).
Il soggiorno a Napoli di Pezant fu particolarmente lungo, ma prima di rientrare a Parigi egli decise di visitare altre città del regno, seguendo un itinerario di viaggio ben consolidato. Fu a Portici, a Pompei di cui descrisse con dovizia di particolare gli scavi archeologici e ricordò con un profondo sentimento di malinconia l’eruzione del 79 d. C. “Elle [Pompei] doit sa celebrité à un des plus grands évènemens de la nature, et à l’intérêt qu’inspire ce que le hasard et le malheur ont dérobés à la voracité des siècles” (Ivi, 299).
Da Pompei Pezant si spostò a Torre Annunziata, sede di un importante arsenale militare dei Borbone, poi a Torre del Greco, a Ercolano prima di tornare a Napoli. Il giorno designato per il rientro in Francia era giunto. “Un sentiment pénible et mélancolique s’était emparé de moi” e i ricordi di questa città “feront la jouissance du reste de mes jours” (Ivi, 328).
Nel corso dell’Ottocento a Napoli arrivavano oltre a folti gruppi di intellettuali anche numerosi scienziati. Essi sceglievano la capitale del Regno delle Due Sicilie per effettuare ricerche, per condurre studi specifici o per conoscere il funzionamento delle Accademie e delle istituzioni scientifiche.
L’itinerario scientifico si differenzia da quello artistico-culturale nelle finalità che esso intende perseguire. Vi è comunque un elemento condiviso tra le due tipologie. Sia nello scienziato sia nel letterato, nel poeta o nell’artista, ad esempio, la percezione e il modo di raccontare quanto Napoli offre dal punto di vista naturale, paesaggistico e storico-artistico è il medesimo.
Nel 1843 approdarono al porto di Napoli François Magendie, fisiologo francese, e James Constantin, medico transalpino che aveva effettuato diversi studi sulle proprietà delle acque minerali (Constantin 1844). L’itinerario progettato dai due medici ripercorreva lo stesso già ampiamente sperimentato da altri viaggiatori italiani ed europei. Napoli rappresentava infatti il punto di partenza di un “giro” più ampio che interessava i dintorni della capitale e le più importanti province del regno. Le finalità del viaggio di Constantin e Magendie erano invece diverse: raccogliere informazioni ed effettuare ricerche sulle acque minerali, sul clima e sulle conformazione geologica del suolo napoletano.
La prima tappa del percorso scientifico di Constantin e Magendie fu alla celebre Grotta del cane, un antico vulcano spento situato nella zona dei campi flegrei, precisamente nei pressi di Agnano. La Grotta costituiva una delle cavità naturali più visitate d’Italia e doveva il nome a un cane morto al suo interno asfissiato dai gas di acido carbonico. La Grotta era uno dei più famosi esempi per spiegare l’emissione naturale di vapori di anidride carbonica.
L’anidride carbonica è più pesante dell’aria e quindi il ristagno delle sue emissioni non supera il metro di altezza. Se un animale di piccola taglia, come può essere un cane, viene introdotto nella cavità avverte, a differenza di un uomo, gli effetti nocivi della respirazione della sostanza chimica.
Questo fenomeno negli anni Quaranta dell’Ottocento non era stato ancora studiato a fondo e di esso Constantin ne fece “l’objet d’expériences spéciales” (Ivi, 4). Durante il soggiorno napoletano il medico francese effettuò diversi esperimenti, impiegando animali di piccola taglia sui quali valutava gli effetti dell’inalazione dei gas prodotti all’interno della grotta. Analizzò poi gli stessi esiti sugli essere umani. “La grotte offrait un excellent laboratoire pour étudier la valeur des moyens qu’on met habituellement en usage dans le traitement de l’asphyxie” (Ivi, 9). Le settimane di indagini chimico-geologiche sul suolo della Grotta del cane portarono alla scoperta di una fonte di acqua termale gassosa che scorreva al di sotto della cavità. Constatin notò anche che la porosità del suolo lasciava passare liberamente l’anidride carbonica “qui se renouvelle sans cesse, comme le courant qui l’alimente” (Ivi, 16).
L’itinerario di viaggio di Constantin e Magendie che prevedeva anche l’ascensione al Vesuvio, la visita all’Accademia delle scienze e al Museo mineralogico, si limitò soltanto alla Grotta del cane. Dal diario di viaggio non è possibile risalire ai motivi per i quali i due medici francesi furono costretti a interrompere il soggiorno napoletano e a rientrare in patria.
Due anni dopo l’arrivo di Constantin e Magendie a Napoli, si tenne nella capitale, dal 20 settembre al 5 ottobre, il Settimo Congresso degli scienziati italiani.
Negli stati preunitari italiani nei primi anni del XIX secolo la ricerca scientifica è in ritardo rispetto a quanto accade nel resto d’Europa. A questa situazione cercano di porre rimedio gli scienziati che regolarmente, dal 1839 al 1847, si incontrano nelle diverse città della penisola, “camminano, avanzano insieme” con l’intento di promuovere ed ampliare gli studi scientifici. È un fatto di notevole rilevanza poiché per la prima volta idee, esperimenti, conoscenze, modelli culturali e politici vengono tra loro comparati e conoscono una rapida diffusione. Si assiste, inoltre, al consolidarsi di rapporti personali tra uomini di scienza e di conseguenza alla nascita di una comunità scientifica nazionale prima ancora della nazione stessa. Crescente è il successo delle adunanze; quella del 1845 a Napoli è segno di una vivacità culturale che, tuttavia, non giunge a maturazione per la politica di rigorosa vigilanza condotta dal governo borbonico.
Nel 1845 nella Capitale si riuniscono ben 1611 partecipanti. In quegli anni, così come i maggiori centri europee, Napoli è una città dal grande richiamo e gli scienziati accolgono quindi con entusiasmo la possibilità di partecipare al Congresso. Tutto il bagaglio di conoscenze frutto di un incessante lavoro di classificazione, descrizione e catalogazione in giro per l’Europa viene presentato proprio durante l’adunanza, che diventa un momento di condivisione, di scambio del patrimonio acquisito nell’ambito della scienza e della tecnica. Gli scienziati sono maggiormente stimolati a prendere parte alla VII Riunione perché Napoli, che in quel momento è accreditata come una delle città più importanti d’Europa, offre anche l’opportunità di godere dell’amenità del luogo e delle testimonianze storico-artistiche. Quotidianamente, dopo aver partecipato ai lavori delle diverse sezioni in cui è articolata l’Adunanza, i congressisti approfittano delle tante attività di distrazione che vengono messe a loro disposizione. Numerosi, ad esempio, sono coloro che si recano in visita a Capri, agli scavi archeologici.
Molti scienziati presero parte alla visita guidata agli scavi di Pompei. Oltre ad ammirare le meraviglie che ricordavano una delle più importanti città romane, si soffermarono su “di un osso femorale e d’una parte del sacro: indizio della sventura che si fè una vittima della persona che attingeva a una fonte o che stava per dipartirsene” (Giornale delle Due Sicilie 1845, 120). Una parte degli archeologi decise di aderire anche alla “gita” agli scavi di Paestum. Alle due del pomeriggio del 4 ottobre un battello a vapore in partenza da Salerno giunse a Paestum. Di lì il gruppo si recò agli antichi templi.
Il 29 settembre i chimici Gioacchino Taddei, Raffaele Piria e Luigi Calamai furono alcuni dei protagonisti dell’escursione a Capri.
Nei racconti della maggior parte degli intellettuali che avevano preso parte all’Adunanza, il Congresso del 1845 fu scadente sotto il profilo scientifico. Poco tempo era stato dedicato infatti al dibattito sulla ricerca e sui risultati scientifici raggiunti in Europa. Grande spazio invece fu concesso alle attività mondane e ai momenti di svago.
Tuttavia alcuni scienziati, ricordando il Congresso e il “giro” per la città, espressero toni entusiastici e di elogio per il governo borbonico e per il Regno.
Il medico pistoiese Odoardo Turchetti si spinse addirittura ad affermare che Napoli, grazie all’organizzazione della Settima Adunanza, poteva essere ascritta al novero dei paesi e delle città “della civiltà contemporanea” (Turchetti 1846).
Camminando per le strade della città, entrando a stretto contatto con la popolazione, descrivendo le istitutizioni civili e scientifiche del regno e tessendo le lodi del governo di Ferdinando II, Turchetti intendeva rispondere ai giudizi negativi su Napoli e sul Congresso apparsi soprattutto sui giornali europei. Un racconto, quello di Turchetti, tuttavia non scevro da toni eccessivamente encomiastici.
L’imponente organizzazione, lo sfarzo dell’accoglienza e le notevoli risorse economiche impegnate da Ferdinando II e alcuni giudizi positivi sul Congresso, non riuscirono evidentemente a coprire lo stato reale della città e del regno, in particolare le condizioni fatiscenti e malsane di carceri e ospedali.
Nella seconda metà degli anni quaranta e soprattutto nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento si rafforzarono gli elementi di debolezza della politica borbonica che contribuirono all’implosione del Regno delle Due Sicilie e al suo definitivo crollo nel 1861 (Macry 2012; De Lorenzo 2013). E Napoli, che perse tra l’altro il rango di capitale, conobbe rispetto ai secoli precedenti un lento e inesorabile declino.
Tuttavia alcuni viaggiatori nei mesi e negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia non ebbero ancora, visitando la città, la percezione che qualcosa fosse realmente cambiato rispetto al passato.
Nel 1861 Léon Verhaeghe de Naeyer, ministro plenipotenziario belga, aveva organizzato un viaggio in Italia il cui itinerario prevedeva una lunga sosta a Napoli. “Le Royaume de Naples venait, comme par un coup de théâtre, de se voir réuni à l’Italie. […] une sorte de guerre civile […] envahissait peu à peu toutes les provinces” (de Naeyer 1888).
Malgrado i recenti avvenimenti politici, la guerra civile tra sostenitori borbonici e fautori dell’Unità nazionale, Napoli agli occhi del ministro belga non aveva perso niente del suo “joyeux éclat. Une grande révolution s’est fait ici: aucuns en profitent; d’autres laissent échapper une sourde plainte” (Ivi, 110). E nonostante Napoli fosse diventata sotto il profilo amministrativo capoluogo di una prefettura e non più capitale di un Regno, la città continuava a ospitare e ad aprirsi – ricorda de Naeyer – agli stranieri. Essi riempivano ancora gli alberghi, percorrevano in lungo e largo le principali strade, affollavano i più rinomati caffè proprio come negli anni precedenti al 1861.
E anche l’itinerario che condusse de Naeyer a visitare Napoli sembrava essere immutato rispetto a quello pensato dai viaggiatori di inizio Ottocento.
Dai ristoranti di via Toledo, dopo aver sorseggiato una tazza di tè al celebre Caffé d’Europa, egli si diresse verso Chiaia e la collina di Posillipo, da cui poté ammirare l’isola di Capri “[…] glacé d’un bleu métallique” (Ivi, 112). Non mancò anche la visita agli scavi archeologici di Baia, Pozzuoli, Bacoli e naturalmente di Pompei ed Ercolano.
Grazie al racconto di viaggio di de Naeyer è possibile inoltre conoscere gli umori del popolo napoletano all’indomani dell’unificazione. Una notte il ministro belga fu ad esempio svegliato improvvisamente da alcuni colpi di pistola esplosi proprio in corrispondenza della finestra del suo albergo. Si trattava di un gruppo di dimostranti che inneggiava a Garibaldi di cui portavano in trionfo il busto coperto da una bandiera tricolore.
Il 20 febbraio 1861 davanti alla vetrina di un noto pasticciere napoletano fu lanciata una bomba da un gruppo di persone che gridava “Viva Garibaldi! Viva l’Italia! Abbasso gli assassini” (Ivi, 117).
Nonostante la situazione politica in città fosse precaria de Naeyer non rinunciò alla “gita” al Vesuvio, facilitata anche dalla costruzione della funicolare che aveva sostituito l’antica strada che inizialmente portava all’eremo.
Il 20 marzo si concluse il soggiorno napoletano del funzionario belga ed ebbe inizio il tour del golfo salernitano. De Naeyer fu a Nocera, Cava de’ Tirreni, Vietri e poi ad Amalfi, Atrani, Minori prima di fermarsi a Salerno.
Il 12 aprile, dopo circa due mesi, De Naeyer salpava dal porto di Napoli per rientrare in Belgio. “Mon compagnon, debout sur le môle, fait des signes d’adieu, et le navire s’ebranle, tandis que je jette douloureusement un dernier coup d’œil sur ce rivage heureux. Il m’a vu couler de si beaux jours!” (Ivi, 141).
Alla scoperta della Sicilia
Nella maggior parte degli itinerari di viaggio Napoli costituiva il limite geografico oltre il quale [erant] leones. Grandi difficoltà nei mezzi di trasporto, che impedivano un facile collegamento con la restante parte del regno, continentale o insulare, spingevano i viaggiatori a considerare Napoli come ultima meta del loro tour.
Tuttavia nel corso dell’Ottocento la Sicilia riesce ad imporsi come polo di grande attrazione non solo per artisti, poeti e letterati, ma anche per gli scienziati desiderosi di condurre studi e ricerche sulla flora e sulla fauna isolana, sull’Etna, includendo anche le visite guidate ai resti delle civiltà antiche e alle bellezze naturali e paesaggistiche.
Nella primavera del 1808 il medico inglese William Irvine giunse in Sicilia al seguito dell’armata britannica. Il soggiorno siciliano consentì allo scienziato inglese di raccogliere utili informazioni su un morbo epidemico che in quegli anni si era sviluppato nell’isola (Irvine 1813).
Il 10 aprile dopo un viaggio estenuante Irvine approdò a Messina. Vista dal mare la città offriva al medico inglese un paesaggio affascinante. A visitarla invece tutto appariva diversamente: “The street are narrow, dirty and inconvenient; and the houses so ill fitted up, as to appear to us extremely shabby” (Ivi, 6).
Della Sicilia Irvine volle conoscere ogni aspetto: si interessò agli ordinamenti amministrativi e all’organizzazione civile e religiosa; si occupò del sistema fiscale – definito iniquo e oneroso – e dei poteri dell’aristocrazia. Numerosi spunti di riflessioni gli offrì anche il popolo messinese di cui sottolineò con giudizi severi l’immoralità. Ne apprezzò tuttavia i costumi, le tradizioni e l’alimentazione.
Alla metà di agosto da Messina il medico inglese raggiunse Catania, “built of the lava, and stands upon lava” (Ivi, 88). La città gli piacque subito: “the houses look[ed] well and the streets [were] of a refreshing breadth” (Ibidem). Anche i catanesi gli suscitarono osservazioni positive così come gli alloggi che la città offriva ai forestieri.
A Catania Irvine era arrivato il giorno della festa di S. Agata e il medico inglese ne approfittò per assistere alle celebrazioni. L’indomani si recò all’Università e ne analizzò l’assetto finanziario. Si stupì molto della modestia dei fondi che le venivano assegnati e delle scarne paghe attribuite ai professori. Dopo aver visitato l’Università Irvine organizzò la salita all’Etna.
Da Catania Irvine rientrò a Messina, attraversando i Monti Peloritani, Francavilla, Barcellona e Milazzo. Nell’autunno del 1810 egli si recò a Siracusa che era stata una delle più importanti centri della Sicilia greca, ma che ormai – ricordava Irvine – aveva ben poco da offrire a eccezione delle vestigia dei templi antichi. Siracusa fu l’ultima tappa prevista dall’itinerario siciliano di Irvine. Nell’autunno del 1810 si imbarcò per Malta.
Messina e il tour scientifico della Sicilia furono, così come per William Irvine, gli obiettivi prinicipali del viaggio di Karel Borivog Presl, naturalista nato a Praga nel 1794.
All’inizio del 1817 dopo un lungo peregrinare per l’Italia, in nave o in diligenza, Presl giunse a Messina. Aveva deciso di partire il 22 febbraio da Trieste anche se molti, per le scoraggianti informazioni sul viaggio nell’isola e sullo stato delle strade, gli consigliassero di cambiare meta. In Sicilia Presl approdò il 7 marzo, ma fu inizialmente costretto alla quarantena come spesso accadeva ai viaggiatori stranieri.
Le due settimane di sosta forzata consentirono al naturalista ceco di iniziare la stesura del suo diario di viaggio (Raimondo 2008) in cui raccolse informazioni, frutto di attente letture condotte durante la lunga navigazione, sullo stato della Sicilia, sulla sua posizione geografica, sull’economia, sul commercio.
Conclusa la quarantena Presl si recò a Milazzo che subito gli destò una cattiva impressione per la mancanza di edifici d’arte, per la povertà delle case, per l’irregolarità nonché per la sporcizia delle strade (Ivi, 32). Dopo qualche giorno lo scienziato fu a Palermo che certamente si presentava come una delle più belle città della Sicilia e del Mezzogiorno, ma che non aveva – soprattutto nel carattere della popolazione – gli elementi che connotavano i grandi centri urbani europei. Gli ambulanti, l’illuminazione carente delle strade, ma anche l’incuria dei musei ispirarono in Presl sensazioni negative (Ivi, 46). In condizioni migliori sembrava che fossero – ricorda Presl – le chiese, in particolare la cattedrale, e l’Orto botanico.
La visita ai monumenti, ai quartieri e alle strade cittadine della Sicilia furono propedeutiche alle escursioni naturalistiche che costituivano l’oggetto principale del viaggio di Presl. Esse iniziarono con gli studi sul monte Pellegrino e proseguirono poi a Monreale e presso il monte Cuccio. A piedi egli si spinse poi in direzione di Termini e Cefalù; raggiunse infine Alcamo, l’antica Segesta, Trapani ed Erice.
Intento all’osservazione della natura, del paesaggio, ma non disinteressato alle bellezze archeologiche siciliane, Presl annotò nel suo diario tutto quanto ammirava e i frutti delle sue ricerche scientifiche. Esse confluirono poi nella sua tesi di laurea sulle graminacee siciliane discussa nel 1818 e pubblicata poi a Praga nel 1820.
La condizione necessaria affinché un viaggiatore possa essere considerato tale è che la sua permanenza nel paese ospitante sia temporanea (Berrino 2011, 7). L’esempio della studiosa francese Jeannette Villepreux rappresenta in questo senso un elemento di distinzione rispetto ai casi precedentemente analizzati. Il suo soggiorno in Sicilia infatti fu particolarmente lungo.
La naturalista francese, sbarcata nelle terre “al di là del Faro” per sposare a Messina il commerciante inglese James Power (La Mantia – Massa 2012, 339-349), vi risiedette per oltre venticinque anni, dedicandosi a ricerche nel campo della biologia marina. Gli studi che condussero la scienziata francese lungo le coste e le zone impervie della Sicilia disegnarono inoltre un itinerario scientifico-culturale che successivamente Jeannette Villepreux-Power decise di pubblicare a vantaggio di altri viaggiatori europei (Power 1839; 1842).
Cominciando da Messina l’itinerario seguiva prevalentemente un percorso costiero. Jeannette Power fu a Siracusa, a Pantalica, Palazzolo e Noto e per ciascuna delle città redigeva accurate note sul disastroso stato delle strade e sulla mancanza di locande, condizioni deficitarie queste già ampiamente sottolineate da altri visitatori stranieri.
La complessità e la varietà dell’itinerario della studiosa francese si spiega da una parte con la necessità di completare le ricerche scientifiche, dall’altra con la volontà di redigere un’accurata guida in cui raccogliere ogni notizia su città e paesi, descrivere monumenti e opere d’arte, annotare dati demografici e fornire informazioni sulle istituzioni culturali siciliane. Anche dei centri abitati che non rientravano direttamente nel suo itinerario diede alcune notizie. Non mancarono in questa guida riferimenti alla storia naturale e alla flora e fauna della Sicilia, ai mezzi di comunicazione navale e terrestre, ai servizi di posta, alle migliori locande e ristoranti. Nel 1842 conclusasi l’esperienza siciliana Jeannette Power rientrò in Francia.
A qualche anno di distanza dall’arrivo di Jeannette Villepreux in Sicilia, un altro scienziato francese scelse l’isola come meta principale del suo viaggio al Sud d’Italia. Nel 1841 Alfred de Malherbe soggiornò per qualche tempo in Sicilia per compiere alcune osservazioni sulla fauna ornitologica. Anche per Malherbe, come spesso era accaduto ad altri stranieri, agli interessi scientifici si associarono la volontà di scoprire le bellezze paesaggistiche locali e il desiderio di conoscere cultura e tradizioni popolari.
Giunto a Messina il 15 agosto Malherbe (Malherbe 1841; 1843) prese parte alla festa dell’Assunta e l’indomani partì per Catania. Prima però visitò l’antico teatro romano di Taormina.
Seguendo la via Etnea raggiunsero Nicolosi, “entouré de beaux jardins” (Malherbe 1841, 8), ma servita da un pessimo albergo in cui trascorse la notte. Dopo “une nuit détestable” alla Casa degli Inglesi (Ibidem) l’ornitologo francese guadagnò la cima del monte Etna.
Accanto agli europei in Italia comincia ad affermarsi nel corso dell’Ottocento anche la presenza di viaggiatori provenienti d’Oltreoceano. Tra il 1843 e il 1844 lo storico e naturalista americano Francis Parkman compì un primo viaggio in Europa per curare una malattia che lo affliggeva da tempo, e per diversi mesi soggiornò in Italia (Parkman 1947). In Sicilia giunse il 2 gennaio 1844. Sbarcato a Messina in compagnia di un tale Matteo Lopez, Parkman percorse la costa siciliana lungo il versante jonico e giunse a Catania. I due viaggiatori furono al museo Biscari, al monastero dei Benedettini e al teatro per assistere a un’opera del Bellini. Non furono invece all’Etna probabilmente perché in quel tempo il vulcano era interamente coperto di neve. Da Catania si spostarono a Giarre, poi a Giardini e a dorso di mulo salirono verso Taormina. Ripresero quindi la strada per Messina. Via mare Parkman, sempre in compagnia di Matteo Lopez, raggiunse Palermo in cui soggiornò per una settimana. Il primo giorno fu alla grotta di S. Rosalia sul monte Pellegrino e da questa posizione privilegiata Parkman notò lo splendore della città (Ivi, 35). Il giorno seguente si recò a vedere le catacombe dei Cappuccini, un deposito di lunghe schiere di scheletri esposti alle pareti, ricorda Parkaman. Egli lasciò Palermo il 18 gennaio e si mise in marcia per Girgenti, consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato in quanto “travelling in Sicily is no joke, expecially at that season” (Ivi, 57). Da Girgenti egli si diresse verso il litorale occidentale, passando per Mazara e poi per Marsala e infine per Trapani dove poté alloggiare presso un “admirable albergo” e gustare “un excellent dinner” (Ivi, 76).
Il tour della Sicilia si concluse con il ritorno a Palermo da dove Parkman partì per Napoli prima di rientrare in America.
Mentre a Napoli fervevano i preparativi del VII Congresso degli Scienziati italiani, il naturalista francese Jean-Louis Quatrefages de Bréau arrivava a Napoli insieme a due suoi colleghi, Henri Milne Edwards e Émile Blanchard. In realtà la capitale del Regno delle Due Sicilie rappresentava soltanto uno scalo prima di approdare in Sicilia in cui i tre scienziati effettuarono una missione scientifica per conto del Ministero dell’istruzione, del Jardin des plants e de l’Académie des sciences (Quatrefages de Bréau 1854; 1857). La prima escursione fu alla grotta di San Ciro i cui rinvenimenti paleontologici generarono un aspro dibattito tra i tre naturalisti circa la loro importanza (Quatrafages de Bréau 1854, 23). Il soggiorno palermitano di Quatrafages fu breve. Successivamente, muovendo verso occidente, egli intraprese la navigazione della costa siciliana. Accanto allo studio della flora e della fauna isolana, i naturalisti francesi non disdegnarono lunghe visite ai monumenti.
Povere e poco interessanti le città siciliane apparivano ai tre francesi sotto il profilo scientifico. Per questo motivo Quatrefages decise di spostarsi verso le Egadi, poco frequentate dai viaggiatori stranieri e per questo motivo luogo ideale per compiere in tranquillità gli studi. Partirono poi alla volta di Messina che in quei mesi era molto frequentata da scienziati provenienti da ogni parte d’Europa. Quatrefages ad esempio incontrò il tedesco Eduard Rüppel, zoologo ed esploratore, e l’agronomo pisano Pietro Cuppari.
Catania fu l’ultima tappa dell’itinerario siciliano. Numerose osservazioni sull’Etna e il calcolo approssimativo delle forze vulcaniche conclusero le ricerche e il viaggio nelle terre “al di là del Faro”.
Conclusioni
I resoconti di viaggio analizzati, che hanno illustrato gli itinerari progettati e percorsi dai visitatori europei diretti verso il Sud della penisola nell’Ottocento, confermano quanto il Mezzogiorno fosse una destinazione ancora ambita nel XIX secolo. Al Sud si dirigono sia gli esponenti delle classi abbienti di gran parte della Europa colta, sia i savants che sono desiderosi di conoscere le istituzioni scientifiche meridionali e che hanno la consepevolezza che le città del Mezzogiorno possono offrire interessanti spunti di riflessione per le loro ricerche. Il viaggio in Sicilia di Karel Borivog Presl ad esempio ha dimostrato come lo studio della flora e della fauna isolana sia stato propedeutico alla pubblicazione di una sua opera e alla stesura della tesi di laurea.
Accanto alle celebri città d’arte come Roma, Venezia, Firenze e Napoli, mete principali del viaggio in Italia, nel corso dell’Ottocento la Sicilia e parte del Mezzogiorno continentale si impongono come nuovi centri di attrazione.
Grande varietà i viaggiatori europei hanno mostrato nell’ideazione degli itinerari che li hanno condotti nelle diverse città del Sud. Variazioni che sono imputabili a ragioni contingenti e a precise scelte personali motivate da interessi scientifici o artistici. Si è trattato tuttavia di una flessibilità in molti casi molto modesta. L’elevato numero di viaggiatori avrebbe dovuto produrre una mappa complessa dei percorsi. Così invece non è stato. Scienziati e intellettuali infatti si sono mossi compatti lungo un tracciato quasi invariato e, al di là delle finalità che sottese il viaggio, essi seguivano un tragitto già ampiamente conosciuto e sperimentato. Anche se si considerano periodi e gruppi di nazionalità diversi, è stato notato come gli itinerari abbiano presentato molti tratti comuni e duraturi. I francesi ad esempio arrivavano a Napoli partendo da Marsiglia dal cui porto si imbarcavano per la capitale del Regno delle Due Sicilie. Da Napoli aveva inizio poi un tour classico per le più importanti province come Salerno, Vietri, Cava de Tirreni e Amalfi. Chi sceglieva invece di spostarsi a Sud seguendo il percorso stradale arrivava a Genova, attraversava la Toscana, con tappe a Livorno, Pisa, Firenze e Siena, giungeva a Roma e infine, dopo aver superato i centri abitati dell’attuale basso Lazio, approdava a Napoli.
L’affermazione degli stessi itinerari è dipesa in gran misura dalla guidistica e dalla letteratura di cui si servivano i viaggiatori. Seguire un percorso già consolidato e non sperimentarne altri alternativi era l’unico modo per evitare di imbattersi in situazioni pericolose.
Riguardo alle modalità attraverso le quali gli itinerari sono stati pensati, è stato possibile riscontrare elementi differenti. La preparazione e l’allestimento dei mezzi di trasporto, ad esempio, variano a seconda dell’appartenenza sociale e della “professione”. Gli scienziati, come nel caso di Quatrefages de Bréau, compiono un viaggio per conto di un’istituzione scientifica o di un’università e ottengono da queste strutture un sovvenzionamento per le spese affrontate. Essi rispetto ad altri viaggiatori godono quindi di un importante sostegno economico che gli consente di spostarsi in maniera più rapida e agevole e di ricorrere al miglior alloggio. Chi non ha questa possibilità deve accontentarsi di mezzi di fortuna per proseguire il suo viaggio.
Dai recits analizzati è emerso inoltre che sia lo scienziato sia l’artista o il funzionario governativo nell’elaborare gli intinerari includevano anche quanto non strettamente collegato alle finalità del viaggio e al proprio interesse. I percorsi scientifici ad esempio prevedevano tappe obbligatorie ai principali siti archeologici del Mezzogiorno o ai luoghi di cui era possibile apprezzarne il paesaggio e il panorama. Gli itinerari artistici non escludevano invece le soste agli Osservatori astronomici, agli ospedali, alle Accademie delle scienze.
Lo studio presentato ha riguardato il periodo che copre i primi sessant’anni dell’Ottocento. Un’altra prospettiva di ricerca potrebbe invece privilegiare, sempre nell’ambito delle modalità di elaborazione degli itinerari di viaggio scientifici, artistici e intellettuali, altri periodi storici precedenti o successivi. Si potrebbero considerare inoltre altre aree del Mezzogiorno, fornendo ad esempio ulteriori elementi di comprensione dello scarso coinvolgimento delle zone del versante adriatico negli itinerari ottocenteschi. Sarebbe interessante infine stabilire un confronto con i percorsi elaborati in occasione del viaggio nelle regioni centro-settentrionali per verificare se le modalità di ideazione sono le medesime o se si ricorre ad altre soluzioni.
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Contenuti correlati
- Nel suo racconto di viaggio Édouard Gauttier d’Arc erroneamente attribuisce a Gaetano Gioja – ballerino e coreografo napoletano del Settecento – l’invenzione della bussola. In realtà quest’ultima dovrebbe essere riconosciuta a Flavio Gioia, un presunto navigatore e inventore amalfitano. Gli studi di Chiara Frugoni e Alessandro Barbero hanno accertato tuttavia l’inesistenza del personaggio. [↩]
- Antoine Edmond Joinville, Emmanuel Auguste Massé, Théodore Deligny, Jean Baptiste Pigalle, Jean Louis Nicolas Jaley, Habberzettel. [↩]