di Stefania Ficacci
Abstract
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Sigle
AcS: Archivio centrale dello Stato
Mi: Ministero dell’Interno
Dgac: Direzione generale dell’amministrazione civile
Dacp: Divisione per le amministrazioni comunali e provinciali
Ps: Pubblica sicurezza
La “fame di case” a Roma 1870-1918
Ogni ricerca che abbia avuto come oggetto di indagine le trasformazioni sociali, politiche ed economiche di Roma nel Novecento ha evidenziato un elemento critico ricorrente, quasi un fattore costituzionale della città: la fame di case. Sembra infatti che l’elezione di Roma a capitale del Regno d’Italia inneschi una crisi abitativa permanente e capace di autoalimentarsi. Dopotutto nella città sono presenti tutti gli elementi idonei a cronicizzare lo stato d’emergenza: una crescita demografica inarrestabile, la persistenza di pressioni lobbistiche da parte di proprietari fondiari e costruttori, la presenza di fenomeni consolidati di corruzione, un permanente squilibrio dei poteri fra amministrazione comunale e governo centrale, una costante difficoltà nella definizione degli indirizzi e dei compiti dell’edilizia pubblica (Benevolo 1992; Bonetta, Talamo 1987; Caracciolo 1993a; Clementi, Perego 1983; Insolera 20014; Seronde Babonaux 1983; Vidotto 2002). A soffrire di questa cronica emergenza abitativa sono nella maggioranza i lavoratori economicamente più deboli, ma numericamente più presenti nella società romana: operai, edili, artigiani, piccoli commercianti al minuto o ambulanti, addetti ai servizi, impiegati generici. Sono questi la base di un ceto medio-basso che accresce la popolazione della capitale e chiede abitazioni con locazioni adeguate al proprio potere d’acquisto, sempre più consapevole del crescente peso politico che rappresenta. A queste fasce sociali si rivolgono gli interventi di edilizia pubblica e sovvenzionata, inaugurati in Italia nel 1903 con il varo della Legge Luzzatti, nel tentativo da parte dello Stato di farsi carico della soluzione dell’emergenza di abitazioni con la costruzione di alloggi (in affitto o in cessione) a costi adeguati al potere d’acquisto dei ceti medio-bassi. Ma la persistenza di fattori critici nel mercato edilizio e abitativo romano non consente una rapida soluzione della crisi, rendendo quasi vano l’operato dell’Istituto autonomo per le case popolari e le politiche abitative adottate nella breve stagione popolare dell’amministrazione Nathan (1907-1913). Alla vigilia della prima guerra mondiale l’edilizia pubblica non ha raggiunto l’obiettivo di superare la crisi abitativa, mentre l’industria privata non sembra più guardare al mercato degli alloggi per i ceti medio-bassi (Barbalace 1994; Caracciolo 1993; Cocchioni, De Grassi, Venturi 1984; Toschi 1983).
Il primo conflitto mondiale finisce quindi per diventare un punto di svolta per la questione degli alloggi per la piccola borghesia ed il proletariato. Il veloce deterioramento del patrimonio immobiliare e l’emigrazione nelle grandi città industriali del Nord Italia di decine di migliaia di braccianti e di un consistente numero di impiegati, attirati da prospettive lavorative nell’industria bellica e nei servizi, riacutizzano la crisi abitativa e pongono al governo liberale la necessità di ripensare il programma di interventi di edilizia pubblica. La ricostruzione, che ne consegue, finisce così per diventare il momento fondante di un nuovo impegno dello Stato in favore delle abitazioni per i ceti medio-bassi, maggiormente frustrati dalle conseguenze economiche della guerra (Calabi 2005, 188; Hohenberg, Lees 1987, 319).
Anche Roma vede impennarsi il flusso di immigrati negli anni della guerra, sebbene a richiamare le masse contadine nella Capitale sia la moltiplicazione delle mansioni svolte dalla pubblica amministrazione piuttosto che il richiamo dell’industria degli armamenti.
Nel decennio 1911-1921 si assiste quindi alla registrazione anagrafica di 141.725 persone, con una media annua di 14.000 arrivi. L’immigrazione favorisce abbondanza di manodopera che, unita all’aumento dell’impiego nelle fabbriche di donne, con salari più bassi rispetto agli uomini, fanno scendere i salari del proletariato a 3,83 lire rispetto alle 4,58 lire della media nazionale (Staderini 1995). Anche la piccola borghesia subisce gli effetti negativi della guerra. Il cambiamento più evidente consiste in un rimodellamento dei confini interni al ceto medio, con una forte ascesa degli addetti ai servizi amministrativi e una discesa degli impiegati privati e dei commercianti al dettaglio (Bartolini 2001).
L’organizzazione dell’inquilinato romano nella stagione delle grandi proteste
Conclusa la parentesi bellica, i salari non riprendono a crescere, mentre si assiste ad un aumento dei prezzi di generi alimentari e dei canoni di affitto. Un esteso moto di rivendicazioni sociali investe la Capitale fin dal gennaio 1919, raggiungendo le punte massime di conflittualità nelle estati del 1919 e del 1920 (Caracciolo 1993a; Carocci 2012; Gentili 2010; Novelli, Salvatori 1993, Salvatori 2001). Nella stagione delle proteste contro il caro-vita, la questione abitativa conquista un ruolo centrale. Il censimento del 1921, il primo dopo il conflitto, documenta la presenza di 170.000 persone in condizioni di sovraffollamento, mentre 200.000 abitanti dichiarano di vivere in subaffitto. Cifre che testimoniano un peggioramento delle condizioni abitative nel decennio 1911-21 e che pone Roma al secondo posto dopo Napoli per l’alta densità abitativa1.
Di fronte al precipitare dell’emergenza e alla lentezza decisionale del governo per il varo di un nuovo testo di legge sull’edilizia economica e popolare2, l’inquilinato romano è attraversato da un crescente malumore, dovuto soprattutto al timore di un veloce e incondizionato ritorno alla libertà di contrattazione dei canoni di affitto, sospesa durante il periodo bellico. Un provvedimento restrittivo, che di fatto aveva imposto il blocco degli aumenti sui canoni di affitto per le abitazioni con locazioni non superiori alle 2.400 lire, resosi necessario prima per tutelare le famiglie dei richiamati al fronte e, a partire dal 1917, per fronteggiare il drastico calo del potere d’acquisto degli impiegati e degli operai, falcidiato dalla crisi economica3. Il provvedimento, la cui durata non si sarebbe dovuta protrarre oltre i due mesi dalla dichiarazione della pace, aveva sancito di fatto l’abolizione del regime libero nei rapporti di locazione per le abitazioni delle classi medio-basse, introducendo l’istituzione di una speciale procedura per la soluzione delle controversie fra locatori e locatari4.
Con la conclusione della guerra i proprietari di case chiedono insistentemente l’abolizione del regime vincolistico, nella speranza di potersi liberare dell’inquilinato moroso e avviare un rapido ricalcolo dei prezzi di locazione, ammortizzando così le perdite causate dal blocco. Ma il governo appare restio ad un ritorno rapido al mercato libero degli affitti, convinto che esso sia da un lato l’unico strumento di mantenimento della pace sociale fra l’inquilinato e dall’altro ritenendo indispensabile procedere ad un ritorno graduale e condizionato, nella speranza di avviare una nuova stagione di edilizia pubblica. Di conseguenza, fra le pressioni dei proprietari, il malcontento degli inquilini e un’economia di guerra che fatica a riconvertirsi, il processo di ritorno al mercato libero delle locazioni si rivelerà un lungo e travagliato percorso amministrativo e favorirà l’inasprimento del conflitto sociale fra le diverse associazioni dell’inquilinato, che si frazionano progressivamente in base a differenze di classe e, quindi, di appartenenza politica, e la rappresentanza dei proprietari di immobili e dei costruttori, destinata invece a divenire sempre più compatta e oligarchica. Un processo inoltre che si rivelerà un formidabile strumento politico di frammentazione interna ai ceti medio-bassi.
I timori del governo non sono immaginari. Quando, nel marzo del 1919, si autorizza un lieve aumento dei canoni di affitto (del 10% per piccoli e medi appartamenti, e del 20% per locali che hanno subìto notevoli miglioramenti, demandando al giudizio delle Commissioni arbitrali le richieste di aumento maggiore) e annunciando che il blocco degli affitti si sarebbe esteso fino a tutto il 19215, si scatena una serie di agitazioni soprattutto fra i reduci: “Non è giusto” scrive la Lega proletaria in un manifesto dell’estate del 1919 “che dopo di aver dato il marito od il figlio e non avendo potuto pagare per intero l’affitto vi siano disposizioni che danno facoltà ai proprietari di casa a reclamare tutti gli arretrati” (Gentili 2010, 43). Gli inquilini sospettano infatti che l’autorizzazione agli aumenti di affitto diventi un pretesto per sfrattare le famiglie morose o impossibilitate a far fronte al rialzo di prezzo, mentre denunciano la necessità di una più equa distribuzione degli alloggi esistenti, per ammortizzare la penuria di abitazioni.
Per rispondere al crescente malumore degli affittuari meno abbienti e inserendosi nel generale movimento di scioperi e di proteste che caratterizza i primi anni del dopoguerra, si costituisce nel 1919 una Lega degli inquilini che, nata a Milano, ben presto ha seguito in molte altre città italiane, Roma compresa (Bortolotti 1971, 729). L’obiettivo principale della nuova organizzazione è quello di fronteggiare gli aumenti di affitto innescati dal passaggio al regime libero di contrattazione, assumendo la rappresentanza sindacale dei locatari degli appartamenti soggetti al vincolismo. L’aspirazione dell’inquilinato ad organizzarsi in associazioni di categoria appare legittimo e in linea con quanto sta accadendo nei primi mesi del dopoguerra fra i lavoratori: non va infatti trascurato l’orientamento politico impresso a queste leghe, che nascono generalmente in seno alle forze socialiste ed anarchiche.
Se nelle altre città (in prevalenza nel centro-nord) le organizzazioni dell’inquilinato sono riconosciute e, in molti casi, persino sollecitate dalle forze socialiste e dal sindacato, a Roma la formazione della Lega è accolta con diffidenza dall’Unione socialista romana e dalla Camera del lavoro, che preferiscono monitorare gli sviluppi di un’organizzazione nata spontaneamente nel rione Testaccio, con forti componenti anarchiche. In pratica nel processo di riconoscimento della Lega degli inquilini romani si riflettono le tensioni fra anarchici e socialisti che caratterizzano, negli anni di tramonto del regime liberale, le vicende politiche e di gestione dell’Unione socialista romana e della Camera del lavoro. Le rivendicazioni dell’inquilinato (non solo romano) acquistano, infatti, rapidamente una dimensione rivoluzionaria, che mira alla confisca della proprietà immobiliare, assumendo le caratteristiche di una feroce lotta di classe, che vede contrapposti padroni di casa e affittuari. Di fronte a questa rapida politicizzazione del malcontento dell’inquilinato è evidente come le forze socialiste italiane non tardino ad assumere la direzione della protesta, inglobando il problema abitativo nella più complessa questione operaia. Dopotutto gli inquilini che chiedono abitazioni meno care sono gli stessi operai impegnati nelle manifestazioni e nelle occupazioni delle fabbriche del nord. Ma a Roma la situazione è ben differente. In una città che è cresciuta senza grandi complessi industriali, dove la classe operaia è impiegata nei servizi pubblici (ferrovie, tram, acqua e luce), dove gli edili e gli addetti ai servizi non sono considerati dalle forze socialiste al pari degli operai delle fabbriche e dove la tradizione anarchica è forte e aspira a dirigere le manifestazioni e gli scioperi, la correlazione fra inquilino e operaio non sembra essere così immediata6.
Non va poi dimenticato come nella Capitale la consistente presenza della piccola borghesia impiegatizia e degli addetti al commercio rappresenti un’ampia fascia di inquilinato né socialista né anarchico, alla quale però le politiche abitative liberali non hanno ancora saputo dare una risposta definitiva al problema delle abitazioni. Ancora ben lontana dal diventare proprietaria di una casa, la piccola borghesia fa largamente uso della locazione. Dopotutto il sistema delle cooperative edilizie introdotto dalla legge Luzzatti esclude numerose categorie di inquilinato appartenente al ceto medio: commercianti, negozianti, artigiani, impiegati di piccole e medie imprese private. Fra questi esclusi ed il proletariato romano “non operaio” persiste in questi anni la condivisione di problemi comuni legati alla questione abitativa, che impedisce di individuare i segni di distinzione fra le due classi. Ma nel movimento dell’inquilinato la rappresentanza sindacale del ceto medio non è compatta, né accenna a definirsi secondo un proprio profilo. La costituzione di piccole associazioni autonome, spesso di veri e propri comitati interni agli stabili, oppure il tentativo (assai poco documentato) di un sindacato del ceto medio in seno all’Associazione nazionale degli inquilini7, non consente alla piccola borghesia di riconoscersi, né di essere riconosciuta, come alleata del proletariato, nella lotta contro il caro-affitti, mostrandosi debole e isolata nel travagliato passaggio dal regime restrittivo a quello libero e subendo passivamente gli effetti degli aumenti dei canoni di affitto e degli sfratti.
La casa come questione di ordine pubblico. L’istituzione del Commissariato per gli alloggi
La rapida politicizzazione delle associazioni di categoria dell’inquilinato e le violente manifestazioni per il caro-vita, che esplodono nell’estate del 1919, spingono il governo a ritenere indispensabile un intervento diretto nella gestione degli alloggi nelle grandi città. Il timore maggiore è quello che si concretizzi il progetto di collettivizzazione delle case paventato dalle leghe degli inquilini. La questione abitativa va quindi acquisendo forme di insofferenza troppo violente, che rischierebbero di alimentare un focolaio rivoluzionario già in parte acceso. Meglio sarebbe assumere direttamente la gestione del mercato locativo e le controversie sugli aumenti di affitto, facendo quindi rientrare l’emergenza degli alloggi in un problema di ordine pubblico. Per questa ragione il governo, nei primi giorni di gennaio del 1920, istituisce i Commissariati per gli alloggi, uffici dipendenti direttamente dall’esecutivo e gestiti dal ministero dell’interno, con il compito di amministrare la distribuzione delle abitazioni esistenti e regolare le cause di aumento e di sfratto8.
Dallo spoglio dei quotidiani dell’epoca i sentimenti dell’opinione pubblica sull’istituzione dei commissariati per gli alloggi sono piuttosto vari, ma il malumore sembra riguardare entrambe le parti in causa. Per l’”Avanti!” il provvedimento da un lato pone un freno alla “bramosia dei padroni di casa”, dall’altro aumenta il pericolo dell’influenza dei proprietari sul funzionario governativo, “dietro il quale il pescecanismo della casa può impunemente affilare i denti ed accingersi ad affondarli nella gola degli inquilini”9. Anche la Camera del lavoro romana è fortemente critica nei confronti del commissariato per gli alloggi, poiché teme che limitando la soluzione delle controversie a rapporti individuali fra proprietario e locatario si finirebbe con emarginare il ruolo delle associazioni (Fraticelli 1983, 161). Il quotidiano filo-giolittiano “La Tribuna” denuncia l’eccessivo potere affidato al commissario del governo, che altera l’equilibrio fra poteri esecutivo e giuridico, affidando la soluzione del problema abitativo alla forza pubblica, piuttosto che al diritto. Maggiore allarme è destato nei più conservatori: se da un lato i proprietari di case avevano intravisto la possibilità di sbarazzarsi dell’ostacolo rappresentato dal blocco degli affitti, dall’altro ora sono sempre più delusi da un governo liberale che ostacola la piena libertà di possesso e fruizione della proprietà privata e sembra preparare persino un programma di confisca della proprietà (Bortolotti 1971, 726,732-3)10. In particolare la facoltà del commissario di governo di procedere al censimento degli alloggi sfitti è giudicata dai proprietari un provvedimento “bolscevico”, utile solo a “fomentare maggiormente l’odio fra le classi sociali, di cui alcune circonda di privilegi, ed altre opprime con provvedimenti fiscali illiberali”(Bortolotti 1971, 726,732-3). L’attività di censimento e requisizione delle abitazioni viene quindi ostacolata in tutti i modi possibili, fino al “sabotaggio” del censimento del 1921, quando i risultati definitivi sulle abitazioni vuote restituiscono una verità alterata dal rifiuto dei proprietari di denunciare lo stato dei propri immobili e dal timore degli inquilini nel fornire dati relativi alle proprie condizioni abitative11.
All’ostruzionismo dei proprietari fa eco la diffidenza delle Leghe degli inquilini verso un provvedimento, che, introdotto come garante del diritto sociale alla casa, può facilmente cadere nelle mani dei padroni. L’inquilinato si dimostra restio a ricorrere all’arbitrio di un commissario che non solo ha grandi difficoltà a garantire un qualunque intervento positivo, ma potrebbe anche intimare l’allontanamento della famiglia richiedente, non reputando la permanenza in città indispensabile12. Le assegnazioni inoltre non considerano le distanze dal posto di lavoro, costringendo i futuri inquilini a respingere gli alloggi assegnati e perdendo così definitivamente la possibilità di ottenere un’ulteriore collocazione.
A Roma viene designato commissario per gli alloggi Alfredo Lusignoli, un funzionario statale che ha già ricoperto ruoli importanti nella pubblica amministrazione13. Sul finire di maggio Lusignoli emana alcune disposizioni necessarie per dare struttura agli interventi del commissariato: si vieta di tenere vuoti gli appartamenti; si rende obbligatoria la denuncia degli alloggi vuoti, in costruzione o inagibili all’albo pretorio dell’ufficio del commissario entro dieci giorni dall’avvenuto sgombero; si obbliga alla denuncia coloro che hanno in affitto più di un alloggio per provvedere alla verifica dell’effettivo bisogno; si vieta la trasformazione dei locali per uso abitazione in altre tipologie. Le disposizioni di Lusignoli dettano anche norme relative ai sub affitti, con la fissazione del limite massimo di canone da richiedere al subaffittuario. Sono disposizioni di non facile applicazione e ne è consapevole lo stesso commissario. La situazione descritta da Lusignoli, in una sua intervista rilasciata al quotidiano romano “La Tribuna”, è catastrofica: il commissario denuncia la scarsità di mezzi, sia giuridici che economici, concessi alla struttura per procedere all’applicazione delle disposizioni emanate14. Ma nei giudizi negativi del commissario pesa sicuramente la sua frustrazione per una carica non certo desiderata: già nell’agosto del 1920, Alfredo Lusignoli presenta le sue dimissioni, giustificandole, in una lettera al ministro dell’interno, con problemi di gestione del commissariato. Dietro a queste vaghe motivazioni riportate sul quotidiano romano “Il Giornale del popolo” il 24 agosto15, c’è in realtà la nomina di Lusignoli a prefetto di Milano, firmata tre giorni prima.
Il suo successore dipinge invece una situazione opposta, quasi irreale se si pensa ai dati poco confortanti relativi alla costruzione di alloggi, al rincaro delle pigioni ed al vertiginoso aumento della popolazione romana: “Per quanto la crisi sia grave, io devo, però, dire innanzitutto che essa non è gravissima come si è voluto ad arte fare apparire per ragioni che non spetta a me di indagare. La crisi esiste ed ha bisogno di pronti provvedimenti, ma io credo che essa ha limiti tali da poter essere superata, se i provvedimenti in vigore attuati con energia maggiore di quella finora usata, e se estendendo un poco i poteri del commissario del governo si arrivi a frenare quella speculazione che va dilagando anche nella industria delle abitazioni”16.
Secondo il nuovo commissario le richieste di alloggio registrate dall’apertura dell’ufficio sono appena 1.670, con una media di 50 richieste al giorno, “ed ho potuto constatare che di tutte le persone che vengono da me, meno della metà ha bisogno veramente di alloggio, perché gli altri chiedono, invece, di mutare soltanto abitazione per avere ambienti più vasti”17.
Il nuovo commissario torna sulla necessità di un’indagine sulla crisi abitativa, censimento che potrebbe essere compiuto obbligando tutti coloro in cerca di un’abitazione a farne denuncia al commissariato, che, provvedendo all’accertamento della giustificata necessità di risiedere a Roma, rilascerebbe una speciale tessera, indispensabile per accedere ad un alloggio.
A pesare sui problemi organizzativi del commissariato per gli alloggi è anche l’ingerenza dell’amministrazione municipale, la quale vorrebbe assumere la piena gestione dell’ufficio di competenza ministeriale, sottraendola così di fatto al controllo statale18. Il disegno che si cela dietro l’ingerenza del Campidoglio è chiaramente l’alleanza, che va prendendo corpo, fra partiti conservatori e nazionalisti e l’Associazione fra i proprietari dei fabbricati e terreni romana, il cui unico obiettivo è quello di costringere il governo a ripristinare nell’immediato la libertà di contrattazione sui canoni di affitto.
Il progetto di collettivizzazione degli alloggi: l’occupazione delle case a Roma
Il malcontento dell’inquilinato cresce durante tutto il 1920, alimentato dai difetti strutturali del commissariato degli alloggi, l’aumento degli affitti e degli sfratti e la crescita dell’inflazione dei generi alimentari. In tutto il Paese, ma soprattutto nelle città del centro-nord, si moltiplicano così le organizzazioni degli inquilini, che escono rafforzate e particolarmente combattive dal convegno nazionale, tenutosi il 25 ed il 26 luglio a Reggio Emilia e che sembra svolgersi in un clima di positiva promozione da parte delle forze socialiste e delle Camere del lavoro. L’incontro evidenzia la necessità di dare maggiore struttura alle organizzazioni, mediante la formazione di leghe a livello comunale, la costituzione di comitati a livello rionale nelle grandi città e infine l’istituzione di consigli degli inquilini in ogni stabile, così da costituire un’organizzazione capillare, che possa premere sulle amministrazioni comunali e raccogliere l’adesione di più locatari possibili (Bortolotti 1971, 730). Ma va soprattutto ricordato il progetto che scaturisce dalla riunione emiliana, con l’obiettivo, condiviso, di giungere alla collettivizzazione delle case. Un progetto che prende forma nei successivi incontri milanesi del 22 agosto e del 16 settembre, nei quali la direzione nazionale proclama l’espropriazione delle case qualora i proprietari impongano, con atti coercitivi, la riscossione del canone19.
Da questi incontri anche gli inquilini romani sembrano uscire più coesi, ma soprattutto fiduciosi di incassare ormai il riconoscimento politico dell’Unione socialista romana e della Camera del lavoro. Le aspettative maturate sono confermate dal fermento che attraversa l’inquilinato romano nei primi giorni di settembre. Il 7 settembre appare un comunicato sul quotidiano socialista “Il Giornale del Popolo”, firmato dall’Unione dei senza casa (un’organizzazione che non fa alcun riferimento alla Lega degli inquilini, sebbene sembri ad essa riconducibile) e che chiede alla cittadinanza ed alla stampa di denunciare i locali vuoti, tenuti ad uso magazzino o per scopi illeciti, e abitazioni affittate senza motivazioni di urgenza e di necessità. La tensione aumenta pochi giorni dopo, quando sono occupati alcuni fabbricati a San Giovanni, a Trastevere, a Porta Metronia, a Ponte Milvio, forse per semplice spirito di emulazione degli operai in sciopero (Caracciolo 1993a, 269-70)20. L’11 settembre al comunicato de “Il Giornale del Popolo” fa eco quello pubblicato dalla Federazione nazionale degli inquilini sulle pagine de l’“Avanti!”, nel quale si invitano le famiglie degli operai metallurgici, impegnati nelle occupazioni delle fabbriche romane, a non pagare gli affitti. Intanto dagli stabili occupati gli inquilini diffondono un volantino nel quale si annuncia l’avvio di un progetto di espropriazione delle case e quindi una loro collettivizzazione. “Le case siano di tutta la comunità, di tutti i cittadini insieme” si legge nel proclama “in ogni casa o stabile si radunino i relativi inquilini e costituiscano il “Consiglio degli inquilini”. Da tale momento non riconoscano più alcun diritto all’attuale proprietario dello stabile. Il Consiglio degli inquilini deve avere l’incarico di provvedere alla manutenzione dello stabile, cioè: pulizia, custodia, riparazioni. Qualora il portinaio non sia garantito dal proprio sindacato, circa la sua solidarietà con gli inquilini, venga sostituito nelle sue mansione da altra persona scelta dal Consiglio suddetto. Così dicasi per gli operai di manutenzione dello stabile. In ogni quartiere o contrada o rione i rappresentanti di tutti i consigli di inquilini si radunino e formino il consiglio delle abitazioni. Tale Consiglio delle abitazioni ha il compito di coordinare gli scambi delle abitazioni ed il loro razionamento o giusta distribuzione. Tutti gli inquilini che intendono fare cambi di abitazioni debbono rivolgersi al suddetto Consiglio. Le abitazioni che rimanessero vacanti verranno comunicate al Consiglio in parola dai Consiglio degli inquilini”21.
Secondo questo progetto le pigioni devono essere ridotte del 50% e raccolte in un fondo da utilizzare per il finanziamento della costruzione di nuove abitazioni. I vecchi appartamenti devono essere liberati dagli inquilini in eccesso, riassegnando le case alle famiglie senza alloggio secondo un criterio di proporzionalità fra vani e componenti della famiglia locataria e, infine, abolendo ogni forma di subaffitto.
Colpisce il silenzio dell’Unione socialista romana di fronte al dilagare della protesta: l’organizzazione socialista, impegnata nella direzione dei soviet costituitisi nelle fabbriche occupate, non sembra voler abbracciare la causa degli inquilini romani. Il 20 settembre la Lega degli inquilini organizza un comizio nella sua sede al Testaccio, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su quanto sta accadendo fra le file dell’inquilinato romano, ma nessun rappresentante socialista partecipa all’incontro. Tra il 20 e il 22 settembre, altri stabili sono occupati al Flaminio, al Pigneto, a Tor Pignattara, al Corso d’Italia, in via Salaria e in via Castrense22. Ma è soprattutto la repressione della polizia a spaventare gli occupanti, che chiedono con sempre maggiore insistenza un riconoscimento ufficiale della protesta da parte del partito socialista e del sindacato romano. Lo domandano anche attraverso gesti simbolici, issando, ad esempio, una bandiera rossa (e non nera, come quella anarchica, comunque presente su alcuni edifici) su tutti i tetti degli stabili occupati ad indicare la chiara connotazione politica impressa alla manifestazione, ma che sottolinea anche l’ormai consolidata definizione del movimento in termini di lotta di classe.
Alle occupazioni delle case la polizia risponde con l’arresto degli inquilini, applicando l’articolo 9 del decreto legge di istituzione dei Commissariati per gli alloggi, secondo cui gli occupanti sono perseguibili in base alle norme del codice penale su associazione a delinquere, istigazione e apologia di reato23. Un provvedimento di polizia fortemente voluto dai proprietari di case, che avevano pressato il governo affinché venisse introdotto uno strumento legislativo forte, che evitasse qualunque tentativo di collettivizzazione delle case, come accaduto in altre nazioni.
Di fronte all’intervento duro della polizia si desta la timida attenzione dell’Unione socialista romana, che organizza, per il 24 settembre, un comizio “per protestare contro gli avvenuti arresti dei “senza tetto proletari” in seguito alle invasioni delle case disabitate”, chiedendo l’intervento dei deputati socialisti Monici e D’Amato, del sindacalista Monelli per la Camera del lavoro confederale e un oratore designato dalla Federazione anarchica del Lazio. La riunione non porta tuttavia a nulla di fatto. Secondo il partito socialista le occupazioni delle case non rientrano fra gli obiettivi politici proposti, ma anzi rischierebbero di assorbire energie al ben più esteso e compatto movimento di protesta degli operai, lasciando così di fatto la direzione della protesta agli anarchici24. Della poca attenzione, se non addirittura della diffidenza, del partito socialista nei confronti delle occupazioni delle case ne è esempio l’atteggiamento della redazione romana del quotidiano l’”Avanti!”, che riserva alle proteste dell’inquilinato una piccola rubrica della cronaca di Roma dal titolo “Lotta dei senza tetto”, attraverso la quale informare i lettori dell’andamento delle occupazioni, ma che spesso scompare sotto le molte colonne dedicate alle invasioni delle fabbriche e dei terreni agricoli nel Suburbio e nella provincia.
Il comportamento della Camera del lavoro appare invece del tutto paradossale. Di fronte agli arresti l’organizzazione sindacale risponde di “non aver preso alcuna iniziativa al riguardo, ad ogni modo consiglia di sgombrare qualora intervenga un ordine dell’Autorità di P.S. di lasciare la casa occupata. Aggiunge che se non si ottemperasse ad un ordine simile si sarebbe arrestati, perciò si raccomanda di non fare alcuna resistenza”,
invitando gli occupanti a “recarsi al commissariato degli alloggi per interessarlo a risolvere la questione requisendo gli alloggi occupati in favore degli attuali possessori che sono senza case” e concludendo con la necessità di “far capire che la Camera del lavoro si disinteressa della cosa”25, per poi, come ricorda Caracciolo (1993a, 270), organizzare raccolte di fondi nei quartieri popolari per finanziare le occupazioni delle fabbriche.
Gli inquilini non sono una classe
La breve stagione delle occupazioni delle case a Roma, che sembra avere seguito anche in provincia26 e che termina sul finire del mese di ottobre ripresentandosi qua e là con azioni individuali, evidenzia le difficoltà e gli smarrimenti delle forze sindacali e socialiste romane di fronte all’emergenza abitativa dei ceti bassi. Sebbene sia il movimento dell’inquilinato a subire le conseguenze peggiori del mancato riconoscimento della questione abitativa come elemento di lotta di classe e quindi di azione politica, sono le forze socialiste e sindacali a manifestare una posizione reazionaria e quasi anacronistica di fronte ai cambiamenti sociali del diritto alla casa del quale è ormai consapevole il proletariato urbano: un diritto a tal punto interiorizzato dall’inquilinato che si manifesta con la minaccia degli occupanti di difenderlo “serrando i portoni e preparandosi adeguatamente”27. Questa presa di coscienza è dopotutto il prodotto (estremo e certamente non preventivato) di una politica abitativa inaugurata dalla legge Luzzatti, che vede lo Stato direttamente impegnato nel ruolo di garante del diritto all’abitazione per i ceti popolari. Ma a questa presa di coscienza non corrisponde un’adeguata risposta delle forze socialiste romane, che non riconoscono ancora nel problema abitativo uno strumento di lotta politica. Fra le forze socialiste e sindacali permane un concetto di proletariato urbano che elabora la propria coscienza di classe nelle fabbriche e nella contrapposizione fra operaio e padrone.
Certamente non tutti i socialisti la pensano allo stesso modo, ma coloro che sembrano comprendere quali indirizzi stia prendendo la questione abitativa non rappresentano la maggioranza all’interno delle forze politiche e sindacali socialiste. L’editoriale che compare sulla prima pagina de “Il Giornale del Popolo” il 23 settembre riassume, con una lucida analisi, quanto sta accadendo all’interno delle forze socialiste romane:
Siamo in periodo di invasioni. Metallurgici, operai, chimici, calzolai hanno occupato stabilimenti e officine riuscendo anche, con tal metodo, a strappare la vittoria. Gli inquilini romani ingalluzziti dall’esempio han voluto fare altrettanto invadendo gli appartamenti. Tutti però han gridato allo scandalo, all’anarchia, specialmente, s’intende, i proprietari di case che han reclamato ad alta voce il “ristabilimento delle leggi”. Infatti il cav. Rivalta con i suoi agenti ha preso per il “collarino” gli improvvisati inquilini cacciandoli fuori dalle case un po’ con le buone e molto con le cattive. Donne, uomini, ragazzi si affannavano a gridare che essi erano stanchi di alloggiare dieci in una stanza mentre ci sono case vuote. […] Tutto inutile. Il prestigio della Legge doveva essere ristabilito ad ogni costo.
Ed allora una domanda sorge spontanea. Perché non si è fatto lo stesso con le altre invasioni?[…]. I metallurgici hanno infatti aggiunto qualcos’altro. Hanno appostato sulle finestre e alle porte dei locali invasi cannoni e mitragliatrici. Dinanzi a questo argomento la legge, rappresentata dai plotoni di guardie regie, è stata un po’ a guardare, e poi si è ritirata in buon ordine. Si vuole che gli inquilini facciano lo stesso? Perché se è uno scandalo invadere palazzi signorili, appartamenti di proprietà altrui è altrettanto scandaloso che mentre a Roma non si trova un buco, una topaia qualsiasi per riparasi dalle intemperie, vi siano poi case vuote e stabili di 20 o 30 stanze occupate da uffici inutili con impiegati più inutili che mai. […] C’è un commissario degli alloggi ma purtroppo egli… non è abitabile; e se gli inquilini di piazza Cinquecento e dei portici di piazza dell’Esedra non hanno altri moccoli possono andare a letto…per terra. E il moccolo delle invasioni pacifiche a quanto pare non è sufficiente.
Ma gli inquilini senza casa non sono una classe, non sono iscritti, come tali, a nessuna Camera del Lavoro e non possono chiedere il Soviet dell’appartamento. Per conseguenza sembrano destinati ad essere eternamente bistrattati e scorticati dai proprietari. Questo (s’intende) se non si decideranno ad imitare in tutto e per tutto i metallurgici28.
Questa analisi politica lucidissima focalizza la sua attenzione sul mancato riconoscimento del movimento dell’inquilinato come classe contrapposta a quella dei proprietari. Ciò accade perché la questione abitativa investe orizzontalmente la società romana, andando a pesare sul proletariato e sulla piccola borghesia. La contrapposizione fra queste due classi è più evidente nelle fabbriche e quindi nei centri industriali, ma in una città senza impianti industriali come Roma, l’ipertrofico sviluppo dell’amministrazione pubblica e privata ingrossa le file della piccola borghesia, mentre l’edilizia si trasforma nel principale motore dell’economia cittadina, rendendo sempre più difficile l’identificazione del proletariato con l’operaio di fabbrica. Nel 1920 l’occupazione delle fabbriche fa emergere le contraddizioni interne alle forze socialiste romane, proprio nel momento in cui sembra ormai prossima la rivoluzione del proletariato. Contemporaneamente le invasioni degli stabili gettano luce su altri problemi sociali e nuove richieste di rappresentanza politica, che non rientrano nei vecchi schemi della rivoluzione socialista. Di fronte a questo scenario il socialismo romano entra in crisi, finendo per rifiutare la direzione e persino il riconoscimento del movimento di occupazione delle case, con gravi conseguenze anche per la sorte della rappresentanza dell’inquilinato, aprendo insanabili fratture.
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- I dati riportati sono il risultato del confronto fra due fonti statistiche, entrambe elaborate dal Comune di Roma sui dati rilevati attraverso il censimento del 1911 e del 1921: AcS, presidenza del Consiglio dei ministri, 1924, f. 3.24.55, Il problema delle abitazioni a Roma; e Martinelli 1960. [↩]
- Il nuovo Testo Unico per l’edilizia economica e popolare è approvato nel novembre del 1919. Decreto Legge n. 2319, del 30 novembre 1919. [↩]
- Decreto Luogotenenziale n. 788, del 3 giugno 1915, che concede proroghe sulla risoluzione del contratto di affitto e la possibilità di rateizzazione del canone mensile per le famiglie dei richiamati al fronte; Decreto Luogotenenziale n. 2046, del 30 dicembre 1917, che vieta l’aumento e lo scioglimento di tutti i contratti di locazione fino a due mesi dopo la pace e istituisce una procedura ed una magistratura speciale per le controversie relative alla locazione. [↩]
- Il blocco della contrattazione dei canoni di affitto non fu una prerogativa italiana. Il regime restrittivo venne adottato, fra il 1915 ed il 1923, in Inghilterra, Francia, Belgio, Germania, Austria, Ungheria, Olanda, Danimarca, Norvegia, Svezia, Romania e persino nella neutrale Svizzera. Per un excursus sulla legislazione vincolatrice dei canoni di affitto si veda Testa 1928, 20-38. [↩]
- Le Commissioni arbitrali sono istituite con Decreto Luogotenenziale n. 403 dell’8 agosto 1917. [↩]
- Sulle originali caratteristiche del proletariato romano cfr. Agostino 1976; Caracciolo 1993a; Salvatori 2001, 240-69; Salvatori, Novelli 1993. [↩]
- L’associazione nazionale inquilini, in “La Tribuna”, 29 settembre 1921. [↩]
- Decreto Regio n. 1, del 4 gennaio 1920. I commissariati per gli alloggi sono istituiti nelle città che, al 31 dicembre 1919, abbiano superato i 100.000 abitanti. Compiti principali dei commissariati sono: censimento abitazioni sfitte e delle famiglie richiedenti un appartamento, assegnazione degli alloggi in affitto, regolamento degli aumenti di locazione e degli sfratti. Un successivo decreto, varato il 15 febbraio, stabilisce che “le attribuzioni dei Commissari si estendano ai Comuni vicini alle città dove essi sono stati istituiti”. [↩]
- Il decreto della reazione, in “Avanti!”, 8 gennaio 1920. [↩]
- La protesta dei proprietari sfocia nello sciopero fiscale del 1922, che vede coinvolte soprattutto le città del nord, con il 90% delle adesioni a Bologna, Lodi e Cremona. [↩]
- Nel censimento del 1921 risultarono non affittate 120 abitazioni, per un totale di 500 vani, a fronte delle cifre del precedente censimento che avevano registrato 1.372 case sfitte. Eppure proprio con il censimento del 1921 venne introdotta una speciale rilevazione per il calcolo delle abitazioni nelle grandi città, riservando loro un apposito questionario separato. Come ricorda Lanfranco Maroi (1930, 12) “Solo in parte poterono essere elaborati i dati raccolti perché la rilevazione compiuta in periodo di grave crisi edilizia, e quindi per diffidenza da parte di chi doveva fornire i dati, non ebbe l’esito che si attendeva”. Sui timori per il censimento delle abitazioni del 1921 si veda anche: Al Censimento. Le indagini sulle abitazioni, in “Avanti!”, 1 dicembre 1921. [↩]
- Secondo le disposizioni di leggi il commissariato degli alloggi provvede all’accertamento dell’idoneità di permanenza dei cittadini immigrati nelle città, i quali, se risultano privi di giustificate motivazioni che costringono alla residenza (generalmente un contratto di lavoro o lo stato civile di coniugato con un residente) sono espulsi verso i loro paesi di origine. Per questo molti immigrati in cerca di un appartamento non si rivolgono al commissariato per gli alloggi, vivendo di fatto in clandestinità. [↩]
- Alfredo Lusignoli (Ancona 1869 – Roma 1931) nella Capitale, è stato presidente degli Ospedali riuniti, commissario per la liquidazione delle gestioni per le feste commemorative e le esposizioni e rappresentante delle organizzazioni romane degli impiegati fra i componenti del Comitato per la riforma della pubblica amministrazione. [↩]
- Il problema degli alloggi, in “La Tribuna”, 17 giugno 1920. [↩]
- Commissariato degli alloggi, in “Il Giornale del Popolo”, 24 agosto 1920. [↩]
- AcS, Mi, Dgac, Dacp, b. 1638. [↩]
- Ibidem. [↩]
- AcS, Mi, Dgac, Dacp, b. 1649. [↩]
- Come si organizzano e cosa vogliono gli inquilini, in “La proprietà edilizia”, 1920. [↩]
- Tra l’agosto e l’ottobre del 1920 la protesta degli operai metalmeccanici sfocia, nelle città del triangolo industriale del nord Italia, nell’occupazione delle fabbriche. Il 1° settembre le occupazioni esplodono anche a Roma. Sono occupate l’officina Auer, le fabbriche Focis, Sacher, Isca, Fatme, Lori, Rocco Bonadi, Manzolini, Dall’Oglio, Tabanelli, Società anonima industrie meccaniche romane, Certaro, Salmoiraghi, Società Capi d’Arti, oltre alle officine dei trasporti pubblici elettrici. [↩]
- AcS, Mi, Ps, Roma, 1920, b. 79. [↩]
- Dalle informazioni della prefettura i distretti dove si registra il maggior numero di occupazioni sono i quartieri Appio, Porta Maggiore e Porta Pia. [↩]
- L’Art. 9, del Decreto Regio n. 1, del 20 gennaio 1920, introduce la perseguibilità del reato di occupazione di abitazioni secondo le norme del codice penale su associazione a delinquere, istigazione e apologia di reato. Durante le successive occupazioni il prefetto di Roma Zoccoletti dimostra, in un suo rapporto al ministro dell’interno, le numerose difficoltà che la procura incontra nell’interpretazione dell’art. 9. “Dal punto di vista giuridico il Signor Procuratore del Re, che ho voluto interpellare al riguardo, in una conferenza oggi tenuta insieme anche al Signor Questore, mi ha fatto le considerazioni che vado ad esporre: Per l’art. 9 del Decreto Luogotenenziale 4 gennaio 1920 n.1 occorre che gli atti di violenza siano commessi nelle forme dell’associazione a delinquere, la quale (secondo la giurisprudenza) suppone la unione di più persone per commettere una serie di atti costituenti reato. L’art. 9 predetto fu necessario perché si tratterebbe, nell’ipotesi di violazione di domicilio o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, reati che non cadono di per sé sotto l’art.248 del Codice Penale. Mancando gli estremi per l’associazione a delinquere restano le tre figure e di violazione di domicilio e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni o la turbativa di possesso, quando concorrano gli elementi previsti rispettivamente degli art.157, 235, 423, dal Codice Penale”. AcS, Mi, Ps, Roma, 1920, b.79. [↩]
- AcS, Mi, Ps, Roma, 1920, b. 79. Il comizio, riferisce il prefetto Zoccoletti, non produce alcun chiarimento relativo alla direzione da seguire, “essendo sorto anche diverbio fra socialisti ed anarchici sul significato da dare all’agitazione, giacché gli anarchici vorrebbero il sopravvento e nelle case occupate vorrebbero innalzare vessillo nero”. [↩]
- AcS, Mi, Ps, Roma, 1920, b. 79. Dalle relazioni del prefetto Zoccoletti si percepisce una certa difficoltà delle forze dell’ordine nel contrastare le occupazioni degli alloggi, non solo per la cronica mancanza di personale aggravata dall’impiego di agenti sul fronte delle occupazioni delle fabbriche, ma anche dall’assenza di direttive da parte del Ministero dell’interno e del governo stesso. [↩]
- AcS, Mi, Ps, Roma, 1920, b. 79. Occupazioni di alloggi si registrano anche a Tivoli, Castel Madama, Albano, Marino, Santa Marinella, Acquapendente, Canneto, Tarquinia, Viterbo. [↩]
- AcS, Mi, Dgac, Dacp, b. 1638. [↩]
- Invasioni, in “Il Giornale del Popolo”, 23 settembre 1920. [↩]