Tito Menzani
Nella maggioranza dei libri di storia, la fase compresa tra la conclusione del primo conflitto mondiale e la marcia su Roma è divisa in due parti, rispettivamente chiamate “biennio rosso” (1919-1920) e “biennio nero” (1921-1922). Si tratta di una dicotomia che deriva dall’individuazione, in sede storiografica, di due momenti, uno egemonizzato dalla lotta politica di matrice socialista – culminata con l’occupazione delle fabbriche –, e l’altro legato alla reazione squadrista e all’ascesa al potere del fascismo italiano.
Il volume di Fabio Fabbri – ordinario di storia contemporanea all’Università di Roma Tre – rivede ampiamente questo approccio e compatta i due bienni in un unico momento di forte conflittualità, definito dall’autore “di guerra civile”. Il ricorso a questa locuzione, che già aveva suscitato un forte dibattito quando era stata impiegata da Claudio Pavone per la fase 1943-1945, non è certo improvvisato, e anzi è discusso ampiamente dall’autore nella lunga introduzione.
L’idea che il periodo in questione sia stato per il nostro paese un momento di guerra civile – termine sempre scritto in corsivo nel volume – è il filo conduttore del libro, volto a raccontare e dimostrare la complessità delle forze in campo, rifiutando nel contempo la semplificazione di una lettura che vede fino al 1920 un netto protagonismo socialista e successivamente un riflusso del movimento operaio sotto i colpi della reazione squadrista per restaurare l’ordine. O meglio, questa vicenda politica viene descritta all’insegna di una continuità più spiccata ed evidente, senza la cesura tra i due bienni di cui si diceva prima, e nella quale viene meno il rapporto di causa-effetto fra occupazione delle fabbriche e reazione squadrista. Il collante è dato da un’azione repressiva dello Stato contro il socialismo, prima con il ricorso alla legislazione eccezionale, prorogata oltre la fine della guerra, e poi con il fiancheggiamento delle violenze fasciste.
Inoltre, come spiega Fabbri, la categoria della guerra civile appartiene allo stesso dibattito politico del primo dopoguerra, evocata sia dai socialisti che dai fascisti, pur se in ottiche opposte e con intenti differenti. E del resto, come minuziosamente calcola l’autore, tra la fine della Grande guerra e la marcia su Roma i morti imputabili alla conflittualità politica furono all’incirca 3.000, un numero enorme, se considerato con i parametri di oggi.
Se il terminus a quo della periodizzazione di Fabbri è facilmente individuato nel 6 ottobre 1918, quando giunse in Italia la notizia della richiesta di armistizio da parte degli Imperi centrali, più problematica è la scelta del terminus ad quem. L’autore sceglie di arrestare la propria analisi al 13 giugno 1921, quando 35 deputati fascisti furono eletti in Parlamento. In questa maniera, Fabbri non include nella propria ricerca i sedici mesi successivi, ossia la seconda parte del cosiddetto “biennio nero”, che idealmente può dirsi concluso con la marcia su Roma, del 28 ottobre 1922, e la conseguente nomina di Mussolini a Capo del governo, avvenuta pochi giorni dopo, e cioè il 31 ottobre.
Si tratta di una scelta che, nella propria introduzione, l’autore motiva con il cambio di prospettiva che interessò il fascismo dopo l’ingresso a Montecitorio, per cui il movimentismo venne gradualmente affiancato e soppiantato da una istituzionalizzazione del fascismo italiano – divenuto partito nel novembre del 1921 –, che si ritagliò un proprio spazio politico e che venne guardato come un interlocutore degno di interesse da crescenti compagini della società civile, aumentando considerevolmente il proprio prestigio e sminuendo le tonalità forti della propria immagine arrembante e radicale.
Entro queste vicende, quindi, il libro di Fabbri vuole fornire una lettura nuova e sostanzialmente originale, mutuata in prima istanza dall’impiego della categoria di guerra civile, ma anche da un lavoro di scavo sulle fonti particolarmente robusto. Oltre al sapiente utilizzo dell’ampia letteratura in merito, italiana ed internazionale – ricapitolata in oltre cinquanta pagine di bibliografia finale, per un totale di circa 1.500 titoli –, l’autore utilizza quattro principali tipi di fonti primarie. Innanzi tutto la stampa, fra cui spiccano le tre diverse edizioni dell’“Avanti!”, nazionale (ma di fatto milanese), piemontese e romana; poi, gli scritti e i discorsi dei protagonisti di quegli anni, come Gramsci, Mussolini, Salvemini, ecc., spesso raccolti e pubblicati postumi; ma anche gli atti parlamentari, che costituiscono un vero e proprio mare magnum di informazioni; e infine le vaste documentazioni custodite presso l’Archivio centrale dello Stato – in primis i fondi Affari generali e riservati, Direzione generale pubblica sicurezza, ministero Grazia e Giustizia, ministero Interno, presidenza del Consiglio dei ministri – e gli Archivi di Stato delle principali città, e cioè Roma, Milano, Bologna e Genova.
Tutta questa imponente mole documentaria è utilizzata in circa seicento pagine di descrizione e spiegazione dei fatti di quegli anni, organizzate in sette capitoli con una impronta fortemente cronologica. Il primo (La paura della pace) descrive gli eventi fino al 23 giugno 1919, quando Francesco Saverio Nitti assunse l’incarico di Presidente del Consiglio; il secondo (Paese e parlamento: un terremoto politico) si spinge fino alla fine dell’anno, ossia agli albori della grande ondata di sciopero del gennaio del 1920, trattata nel terzo capitolo (La primavera di sangue) assieme alle vicende immediatamente successive. Il quarto capitolo (L’ora del fascio) inizia con l’insediamento del governo Giolitti, avvenuta il 24 giugno 1920 e si conclude alla vigilia dei fatti bolognesi del novembre dello stesso anno, descritti in quello successivo (La trama delle complicità). Il sesto capitolo (La guerra civile) dà conto della fase forse più cruciale, che dal gennaio del 1921, in concomitanza con la nascita del Partito comunista, si dipana fino allo scioglimento delle Camere, decretato da Giolitti il 7 aprile; infine, il settimo ed ultimo capitolo (Il “colpo di Stato”) tratta della campagna elettorale che preluse alle elezioni di giugno e di altri eventi coevi.
L’architettura fortemente cronologica è riprodotta anche nella paragrafazione interna ai capitoli, con solo qualche concessione ad approcci maggiormente tematici, ed è essenzialmente in linea con l’intento di offrire una lettura continuativa di una fase storica finora trattata in maniera diversa. In questo modo, anche grazie al netto taglio analitico di storia politica che ha il volume, si comprende bene come il cosiddetto “biennio rosso” avesse dopotutto una giustificazione abbastanza debole, che addirittura rischiava di far percepire lo squadrismo come un movimento d’ordine, messo in campo per fronteggiare certi eccessi dei socialisti. In realtà, la violenza fascista maturò in una fase in cui l’occupazione delle fabbriche e le grandi agitazioni operaie erano già autonomamente rifluite e si indirizzò, invece, contro tutte le istituzioni socialiste che avevano un carattere legale e che, potremmo dire oggi, “funzionavano”, come le case del popolo, le cooperative, le leghe sindacali. Più che una reazione alla veste insurrezionale del socialismo, che si era già in buona parte esaurita, lo squadrismo fu una reazione al radicamento socialista nella società civile e nelle amministrazioni locali, per andare a colpire quella dignità istituzionale che la sinistra marxista italiana stava iniziando a maturare. Anche per queste ragioni, il volume di Fabio Fabbri è stato accolto con grande favore dalla comunità accademica ed è probabile che decreti la morte storiografica e linguistica delle espressioni “biennio rosso” e “biennio nero”.