Francesca Iaconisi
Abstract
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Moda, storia, revival, il caso dei paesi socialisti a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino. Questo il macro tema di una ricerca che mi ha portato nel 2009 a occuparmi della Germania, in particolar modo della Berlino degli ultimi quarant’anni.
Attraverso brevi cenni storici sulla riorganizzazione dell’industria dell’abbigliamento durante gli anni della Ddr1, questo articolo affronta il tema dell’ostalgie attraverso i casi di revival che animano ancora oggi alcuni ambienti della moda e della cultura berlinesi.
“Ostalgie” significa “nostalgia dell’Est”. È un neologismo, coniato in Germania, che deriva dalla crasi tra le parole ost (in tedesco = est) e nostalgie (nostalgia, rimpianto), e che ha dato il nome a un sentimento sviluppatosi nei primi anni Novanta: la nostalgia dei popoli dell’ex blocco sovietico nei confronti del proprio passato (Banchelli 2006, 9). Questo fenomeno ha generato dinamiche revivalistiche in diversi ambienti culturali (Paolo 2003).
Svetlana Boym (2003, 60 ss) ha dato una delle più complete e chiare interpretazioni di questo fenomeno definendo l’ostalgie come una forma di nostalgia “riflessiva”, in contrapposizione con quella “restauratrice”. La differenza tra questi due sentimenti sta nel fatto che mentre la seconda mira a ricostruire lo spazio e il tempo perduti, e prende tutto con estrema serietà, la nostalgia “riflessiva” si abbandona ai dettagli che affiorano coi ricordi, è commemorativa e talvolta ironica, può essere obiettiva e critica su certi aspetti, ma questo non entra in conflitto con il ricordo talvolta struggente che sembra restituire il passato in un’ottica completamente positiva.
Quindi l’ostalgie riguarda solo alcuni valori, alcune certezze, alcuni aspetti dello stile di vita di chi ha vissuto il Socialismo. In questo senso vanno letti tutti i ritorni di oggetti e immagini del passato che divengono oggi materiali d’archivio, oggetti di culto, fenomeni commerciali e turistici, tutto ciò torna nel presente “privato di connotazione politica” (Gislimberti 2007) e di voglia di tornare allo status quo.
A proposito di questo è molto interessante la testimonianza di Andreas Ludwig, il Direttore del Dokumentationszentrum Alltagskultur der Ddr, il Centro di documentazione della cultura (quotidiana) della Ddr di Eisenhüttenstadt che è stato fondato nel 1993 per decisione del Consiglio comunale della città. Questo interessante archivio della memoria comprende migliaia di oggetti d’uso quotidiano accompagnati tutti da racconti o commenti del significato che quegli oggetti rivestivano nella vita di tutti i giorni dei donatori (Ludwig 2006, 68-69). Questo è un perfetto esempio di ciò che significa “ostalgie”. È il ricordo e la voglia di preservare ciò che accadeva nelle mura domestiche, dove la gente trovava conforto dallo stress di vivere in una realtà rigida, difficile, estremamente politicizzata (Ten Dyke 2001).
Questa ricerca si concentra a Berlino perché è la città che più di ogni altra incarna la storia del Socialismo dall’ascesa al declino. Questa città si è risvegliata dopo un lungo periodo di torpore e costrizione, e lo ha fatto velocemente, cercando di recuperare tutto quello che non aveva vissuto della cultura occidentale – demonizzata per decenni dal regime socialista –, c’è fervore in tutti i campi artistici, il paesaggio urbano è in costante mutamento, ogni processo sociale e culturale è accelerato anche oggi, a vent’anni di distanza dal crollo del muro, perché si muove ancora su quei ritmi, quasi a voler dilatare il tempo per allontanarsi dal passato, per dimenticarlo.
Eppure, già dagli anni immediatamente successivi al 1989, oltre alla tensione verso il nuovo si è insinuata una sottocultura del recupero. Sempre Andreas Ludwig, in un’intervista2, ha raccontato della frenesia e l’eccitazione con cui la Germania dell’Est, nei giorni successivi all’abbattimento del muro, si riappropriava del tempo perduto abbandonando i vecchi oggetti e circondandosi di tutto quello che non aveva vissuto durante i lunghi anni di isolamento. È stata la velocità con cui si è manifestato questo processo di trasformazione che ha fatto nascere anche interessanti processi di recupero, come quello del museo di Eisenhüttenstadt.
Nella moda ad esempio è interessante la ricerca di S.wert, marchio della designer tedesca Sandra Siewert, che ha ideato una linea di fashion e interior design la cui costante sono i motivi tratti da simboli ed edifici della Berlino socialista.
L’8 giugno 2009 ho incontrato Sandra per un’intervista nel suo concept store al numero 191 della Brunnenstrasse, nel quartiere di Prenzlauer della zona orientale di Berlino.
Sandra è stata accogliente e ha risposto esaustiva a tutte le mie domande.
Appena entrata mi ha colpito la presenza predominante della grafica su tutti gli oggetti presenti nel punto vendita: abiti, borse, arredi e tessuti d’arredamento, oggettistica, tutto di S.wert ha un motivo grafico che ne ricopre la superficie.
Sandra mi ha spiegato che l’aspetto camouflage floreale della collezione Urban flower (progettata insieme alla fashion designer Claudine Brignot) è in realtà il risultato di un lavoro d’astrazione dei dettagli architettonici di Berlino e di altre capitali.
Quello che a un primo sguardo può sembrare un fiore sono in realtà i lampioni di Berlino e di Tokyo, i tetti parigini, l’Atomium di Bruxelles e i ponti di New York. I lampioni berlinesi sono i tipici lampioni che illuminavano le strade di Berlino Est prima della caduta del muro e di cui ne sono rimasti alcuni esemplari solo nei pressi di Alexander Platz.
A proposito di questo recupero, Sandra mi ha spiegato che è particolarmente interessata alle architetture berlinesi, queste sono per lei territori di sperimentazione grafica, ma il suo approccio non è solo formale, è soprattutto documentaristico, le interessa creare una mappa di ciò che è esistito e che è andato o andrà perduto, di quello che è sopravvissuto. La predilezione per la parte Est della città nasce dal fatto che è proprio questo il paesaggio che muta più velocemente, dove spesso i vecchi edifici vengono demoliti per far spazio ad architetture moderne.
Nel lavoro grafico di S.wert i grandi palazzoni berlinesi si fanno così texture, si appiattiscono, si fanno astratti, quasi scompaiono, diventano elementi decorativi di tessuti e carta, poi abbandonano la bidimensionalità per prendere forma attorno agli oggetti e ai corpi.
Berlino Est è dominata da un’architettura modulare, simmetrica, pulita, rigida, imponente eppure leggera, forse per tutte le finestre senza stipiti, senza cornici, senza coperture di alcun genere, che fanno apparire questi grandi palazzi come reticolati leggeri, quasi trasparenti.
I colori sono sempre neutri, varie tonalità di grigi a partire da quello del cemento e poi tutti i toni del beige e del sabbia. Altra caratteristica, questa, che rende queste gabbie asettiche, dis-umane, come disabitate, spersonalizzate, immacolate, senza traccia alcuna della quotidianità degli esseri che vivono al loro interno. Spesso trasmettono la sensazione di qualcosa ancora in costruzione, di vuoto, in attesa di essere vissuto. È un paesaggio alienante.
Berlino oggi è un grande cantiere in ogni suo angolo, in questo aspetto non c’è differenza tra Est ed Ovest perché molti edifici sono stati rasi al suolo e sono in via di ricostruzione. Capita di passare dal passato al futuro semplicemente girando l’angolo, come accade quando ci si imbatte nel Sony Center, l’edificio simbolo della Berlino moderna, a Potsdamer Platz.
S.wert riprende ciò che non c’è più e lo ridisegna, lo stampa, ne ricrea la traccia dell’esistenza. Talvolta fa dialogare gli edifici dell’Est con quelli dell’Ovest della città. Una stampa ad esempio dal titolo East meets West riproduce in prospettiva una torretta dell’elettricità con dietro la famosa Television Tower, simbolo di Berlino Est.
In realtà alcuni temi spaziano anche alle architetture di altre grandi città (come nella collezione Urban Flower), ma la proporzione tra quello che è fuori da Berlino e dalla Germania e quello che invece si riferisce alla realtà tedesca è tutta in favore di quest’ultima. Il concept store è una celebrazione della città e delle sue architetture, anche se non sempre è facile riconoscerle, ad esempio non compare quasi mai la Television Tower, proprio per evitare quell’effetto souvenir che si trova nei mercatini e nei negozi come Ampelmann3.
Quella a Sandra Siwert è stata la prima di una serie di interviste che ho fatto ad alcuni giovani tedeschi figli della generazione vissuta a Berlino Ovest durante gli anni della cortina di ferro. Oggi sono loro che mantengono vivo il revival del Socialismo. Per la maggior parte di loro Berlino Est faceva parte di un’altra nazione, quindi la rottura dei confini gli ha permesso di andare liberamente a “visitare”, a scoprire a tutti gli effetti uno degli altri paesi europei e non parte della loro stessa città. In questo caso non si può parlare di ostalgie perché il revival caso è mosso dalla curiosità e non dalla nostalgia.
Questo interesse delle nuove generazioni dell’ex Ovest si spiega per due motivi.
Innanzitutto il recupero a cui si fa riferimento è legato a fenomeni di consumo. Gli oggetti che per decenni hanno accomunato case, strade e città, incarnando così la memoria condivisa più tangibile e immediata della vita nella Ddr, si trovano oggi in molti negozi vintage dell’Est di Berlino e nei mercatini delle pulci. Gli stessi oggetti che dapprima hanno riempito i musei e che hanno fatto parlare di ostalgie, oggi sono a disposizione di tutti.
Il secondo motivo scaturisce inevitabilmente dal primo: essendo cambiato il fine del recupero, sono diversi anche gli attori e sentimenti che li animano. Questa seconda ondata di revival non la guidano più i tedeschi dell’ex Est per preservare dall’oblio il loro passato, ma una generazione di occidentali che in maniera più ludica si appropria del passato di qualcun altro. Questo revival, probabilmente legato a una tendenza momentanea, è generato da chi – per moda o per passione – colleziona una serie di cimeli di un passato in parte dimenticato, in parte mai conosciuto.
E questo non vuol dire che chi ha vissuto il Socialismo non sia più interessato a preservare certi oggetti dall’oblio (basti pensare che il Ddr Museum di Berlino è nato solo cinque anni fa), ma non è altresì interessato a farli rivivere nella propria quotidianità, soprattutto l’abbigliamento.
Anche gli abiti S.wert seguono un percorso di ricerca e recupero con chiari riferimenti al Socialismo, eppure Sandra Siewert non prende ispirazione dagli stili che hanno caratterizzato la moda di quel periodo. Tuttavia è un aspetto che le interesserebbe approfondire e più volte ha cercato invano quei vecchi abiti: non vi è traccia di quegli abiti standardizzati prodotti dalle industrie di moda della Ddr.
Anche la mia ricerca è stata vana. Dopo l’intervista a Sandra Siwert ho passato in rassegna molti dei luoghi in cui speravo di trovare l’oggetto della mia ricerca: l’abito della donna socialista.
Nel quartiere Prenzlauer ad esempio ero a conoscenza del fatto che c’è la concentrazione maggiore di negozi vintage, senza dubbio un buon punto d’inizio per una ricerca che ha come oggetto l’abbigliamento.
Prima tappa: Stiefel Kombinat, uno dei più grandi punti vendita vintage di Berlino Est, sulla Oderberger Strasse. Qui ci sono abiti e accessori per una datazione che va dagli anni Sessanta ai primi anni Novanta, ma quello che sorprende è la quantità impressionante di calzature, soprattutto stivali neri, centinaia di stivali, minuziosamente collocati a formare pareti divisorie di un corridoio che sembra non finire mai.
Mi ha accolto Franziska G. che mi ha dato volentieri molte informazioni. Ha 27 anni ed è originaria di Berlino Ovest, ma ha deciso di trasferirsi a Est per aprire questa attività.
Osservando gli abiti esposti si capisce che il negozio non differisce poi così tanto da quelli che si possono trovare in qualunque altra città europea. Franziska ha confermato infatti che molto del materiale presente non è di provenienza tedesca, ma non ha escluso la presenza fortuita di abiti del periodo socialista.
Ansiosa di scoprire qualche nostalgico che va alla scoperta dei vecchi cimeli della sua infanzia ho cominciato a fare domande sui clienti di Stiefel Kombinat.
Come molti altri, questo negozio è frequentato soprattutto da giovani di età compresa tra i venti e i trentacinque anni, che trattano il vintage come una delle tendenze della moda contemporanea, senza alcun sentimento politico o storico. Franziska mi ha raccontato che i berlinesi orientali che in giovinezza hanno vissuto il Socialismo non sono per nulla interessati ad acquistare abiti o accessori il cui prezzo è più che decuplicato. Ha puntualizzato con molta sicurezza che la gente conosce bene il proprio passato, che non è stato certo un periodo felice, e che non ricorda con piacere, tanto meno ne va a ripescare i ricordi. La moda soprattutto non potrebbe essere recuperata considerando la qualità scadente dei materiali, della manifattura e dello stile. Questo è anche il motivo per cui in Stiefel Kombinat non ci sono tracce della produzione della Ddr.
Sempre nel quartiere di Prenzlauer mi sono imbattuta il giorno successivo nell’affollato flohmärkt – mercatino delle pulci – del Mauerpark. Ho vagato per tutto il mercato in una infruttuosa ricerca di abiti del periodo socialista. Ho fatto molte interviste e tra queste quella a Zissÿ, una ragazza di 28 anni, mi ha molto colpita per la franchezza delle risposte. Esponeva le sue creazioni su un banchetto: tanti piccoli orecchini con le miniature della Trabant, la celeberrima e unica utilitaria che ha circolato per anni nelle strade di Berlino Est. Anche Zissÿ è dell’Ovest, come Sandra, come Franziska. E anche lei mi ha spiegato che per lei l’Est è un territorio da scoprire, un’altra nazione. E alla domanda: “Cosa rappresenta per te la Trabant?” mi ha risposto, quasi giustificandosi, che negli ultimi cinque o sei anni va di moda usare i simboli della ex Ddr, non solo la Trabant, ma anche la Television Tower, le sagome degli ometti del semaforo, l’orologio di Alexander Platz, ecc.; come lei, tutti usano questi oggetti per farne suppellettili, t-shirt, bigiotteria, “it’s cool!” ha concluso. Infatti nel flohmärkt del Mauerpark ci sono molti stand e bancarelle che propongono t-shirt e accessori con questi temi.
Sulla Oderberger Strasse mi sono imbattuta poi in Veb Orange, un altro punto vendita vintage che ha catturato la mia attenzione per via di un manichino all’ingresso abbigliato con la divisa della Fdj4. Il punto vendita è dichiaratamente tematico e raccoglie tutti i cimeli del periodo della Ddr.
Purtroppo però il negozio, sebbene fornitissimo di qualunque oggetto, manca di un apparato soddisfacente di abbigliamento, quindi è svanita in me ogni speranza di trovare del materiale da analizzare. In compenso il negozio ha moltissime riviste di moda, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta: “Pramo”, “Sommermode”, “Neuemode”, “Uroda”, “Burda”, “FürSie”, “HandArbeit”, “Boutique”, “Stricken”.
Su tutte le copertine è indicata la stessa case editrice: “Verlag für die Frau Ddr-Leipzig-Berlin”, ossia “Casa editrice per la donna” con sede a Berlino e Lipsia. Sono tutte riviste di moda fai da te e di maglieria, con i servizi fotografici degli abiti realizzati, un tracciato dal quale ricavare i cartamodelli con il manuale di istruzioni, e poi ampie sezioni che riguardano cosmetica, hobby e cucina.
Nessuna traccia purtroppo di “Sybille”, la rivista di moda ufficiale della Ddr5.
“Sybille” è la pubblicazione di moda più importante dell’epoca socialista perché questa rivista era portavoce del progetto del Modeinstitut Berlin – tra le più importanti scuole di moda della Ddr assieme alla sezione di moda della Kunsthochschule Berlin. In questa sede gli studenti, futuri operatori di moda, erano educati alla missione nazionalista di far diventare l’abbigliamento delle donne tedesche il migliore in Europa. Per raggiungere questo obiettivo bisognava oltrepassare l’egemonia della moda francese, promuovere e sostenere la creatività puramente tedesca (orientale), produrre utilizzando esclusivamente materiali orientali. La moda era vista dal partito come pratica delle economie capitaliste, quindi bisognava pensare a un abbigliamento epurato dal lusso inutile e dai cicli stagionali. In accordo con l’ideale di “buon gusto” staliniano l’abbigliamento socialista doveva essere anonimo, neutro, appropriato, funzionale, conformista, semplice, senza distinzioni di classe, soprattutto avverso al cambiamento (Bartlett 2004). Mission dell’istituto era soddisfare le esigenze della donna lavoratrice, motivo per cui il vestito doveva essere funzionale e resistente (Giese, in Barth 2008).
Nel Modeinstitut Berlinsi producevano le Musterkollektionen, una sorta di campionario a cui si doveva ispirare l’industria della moda tedesca (Ibidem) e che venivano pubblicati anche da “Sibylle”.
L’universo di “Sibylle” non attraeva il pubblico tedesco per due motivi.
La moda di Berlino Est, infatti, era sempre un passo indietro rispetto alla moda occidentale: nonostante gli sforzi per progettare una moda socialista indipendente e innovativa rispetto a quella occidentale, le collezioni prodotte finivano spesso per essere la copia scadente di quello che in occidente era già sul mercato.
Questo accadeva non solo perché il modello di riferimento restava più o meno coscientemente quello occidentale, ma anche perché la lenta macchina dell’economia pianificata (i cosiddetti piani quinquennali) rendeva la produzione stagnante. Così avveniva che anche quando i designer orientali erano progettualmente e creativamente al passo col resto d’Europa, la produzione era comunque in ritardo.
Anche la produzione tessile fu determinante in questo senso. Dopo la Conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) la divisione della Germania in zone di competenza (affidate a Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia) causò un forte sbilanciamento delle risorse. Quando ciò avvenne, infatti, qualunque industria fosse fisicamente presente in una determinata zona era di proprietà dello Stato cui era stato affidato il territorio. La produzione serica restò a Ovest insieme alla maggior parte delle industrie di produzione di macchine da cucire. L’Est ereditò un grosso apparato di industrie per la costruzione di macchine da maglieria e per la produzione del filato rayon. Questo non poteva che segnare drammaticamente la sproporzione nella qualità dei tessuti che sarebbero stati prodotti a Ovest rispetto a quelli dell’Est per diversi motivi.
Sebbene la fibra sintetica rappresentasse il futuro dei filati, la Germania dell’Est non aveva il personale che garantisse una produzione di qualità – la pulizia etnica del regime nazista giocò un ruolo fondamentale in questo aspetto dato che la maggior parte degli operai delle aziende di moda tedesche erano stati ebrei (Guenther 2004).
Il governo investì comunque sulla produzione di fibre sintetiche perché questo avrebbe aiutato l’industria chimica orientale e la classe lavoratrice. In ogni caso la Ddr non aveva le risorse da investire nelle importazioni, quando il governo decise di farlo si rivolse esclusivamente ai paesi del blocco sovietico, ma anche questa decisione non portò comunque a un miglioramento significativo della qualità dei tessuti (Stitziel 2005, 28-29).
Questa situazione alimentava nella popolazione la mitizzazione della moda occidentale.
Chi aveva parenti e amici nella Repubblica Federale Tedesca riceveva di tanto in tanto via posta i vestiti occidentali, mentre la maggior parte della popolazione poteva permettersi di acquistare nei grandi magazzini come i Billige Läden (Biwa), negozi specializzati nella vendita di abbigliamento e accessori di scarsa qualità a basso costo (Stitziel 2005, 105). Poi c’era chi sapeva cucire, che con l’aiuto delle riviste fai da te, come quelle in vendita da Veb Orange, faceva da sé quello di cui aveva bisogno.
Accanto alle Musterkollektionen del Modeinstitut (progetti delle collezioni in vendita presso i Billige Läden), “Sibylle” dedicava anche molto spazio ai marchi più costosi in vendita in boutique esclusive, quindi inaccessibili alle masse.Questo è un altro motivo per cui la rivista non era interessante: esisteva troppa discrepanza tra l’universo veicolato e quello che realmente la gente poteva permettersi.
Oggi questa rivista è introvabile nei negozi o nei mercatini dell’antiquariato perché di fatto non è mai entrata nelle case dei tedeschi dell’Est (Die verheibung der Sibylle, in Rückel 2008).
Il Ddr Museum6 ospita una sezione dedicata alla moda intitolata Die Verheibung der Sibylle, i sogni di moda di “Sibylle”. Un grande armadio ospita gli abiti socialisti, quelli che la gente comune indossava quotidianamente.
Qui ho potuto confrontare gli shooting di “Sibylle” – rigorosamente ambientati a Berlino Est – con i capi indossati nella Ddr. C’è una notevole discrepanza tra la preziosità dell’universo veicolato dalla rivista e quello reale degli abiti conservati nel museo, questi ultimi molto più disarmonici nelle forme e nelle vestibilità e di pessima qualità nei tessuti.
A proposito di questo è esemplare una scena del film Good bye Lenin! in cui la protagonista, attivista del partito socialista, aiuta una sua amica a scrivere una lettera di protesta indirizzata al partito:
il maglione da voi contrassegnato taglia 48 ha la larghezza di una (taglia) 54 e la lunghezza di una (taglia) 38. Riesce difficile capire i criteri da voi utilizzati per misurare le taglie. A noi non risulta che a Berlino vivano esseri umani di forma rettangolare. Forse è proprio questa la ragione per cui sinora non siamo mai riusciti a portare a termine l’attuazione del piano quinquennale. Pertanto vi chiediamo di scusarci. Vorrà dire che, in futuro, cercheremo di essere rettangolari come richiesto7.
Nello stesso film, in un altro frame, Ariane commenta così i vecchi vestiti che il fratello Alex ha riesumato dal sacco degli indumenti smessi: “lo vedi che stracci ci mettevamo?”8.
Nell’armadio del Ddr Museum occupano un posto importante i jeans, la cui storia è ancora più emblematica della politica di demonizzazione della moda e dei prodotti occidentali da parte del governo. Nella sezione ci sono un paio di Levi’s, il jeans occidentale per eccellenza, e accanto a questi i Boxer, il surrogato orientale.
Il Levi’s era un oggetto di culto per i giovani tedeschi orientali, come d’altronde succedeva in tutto il resto d’Europa. Ma per il partito coloro che indossavano i jeans occidentali erano considerati ribelli. Questi jeans arrivavano a Berlino Est sottobanco e venivano venduti nel mercato nero, oppure venivano semplicemente spediti via posta da Ovest a Est da qualche parente che viveva al di là del muro. Ma dall’inizio degli anni Settanta i Levi’s si trovano anche nelle boutique Exquisit, solo che il prezzo – 275 marchi, un terzo dello stipendio mensile di un operaio – rendeva questo un bene di lusso accessibile a pochi facoltosi.
I jeans orientali escono sul mercato nel 1968. Accanto al marchio Boxer, c’erano anche Winsent, Shanty, Goldfuchs. Questi pantaloni furono venduti in grandi quantità sebbene stilisticamente meno attraenti dei Levi’s perché erano gli unici in commercio. A partire dalla fine degli anni Sessanta – da quando cioè anche nei paesi del blocco sovietico cominciarono a essere prodotti i jeans – non era più un atto di ribellione indossare un jeans (a patto che fosse di produzione socialista), ma erano bocciate tutte le dinamiche di customizzazione dell’indumento, come strappare, sporcare, tingere.
Tuttavia queste copie orientali non hanno mai soddisfatto i consumatori: la qualità scadente data dalle fibre sintetiche, dalle cuciture e colori poco resistenti a usura e lavaggi non hanno certo dato i presupposti per il successo di un prodotto che già esteticamente si presentava come la brutta copia dell’agognato status symbol occidentale.
Dopo il crollo del muro dunque grandi roghi di interi guardaroba e acquisto spropositato di capi di jeans: pantaloni, camicie, giacche.
Ecco dimostrato il motivo per cui non c’è più traccia della moda socialista. Non è mai stata apprezzata e i tedeschi orientali se ne sono liberati appena è stato possibile. E se nelle soffitte e negli scantinati c’era il posto per ammucchiare mobili e suppellettili per rimpiazzarli con il nuovo, non c’era invece posto per conservare i vestiti.
Il vintage è un fenomeno attivato dalla voglia di recuperare qualcosa di prezioso andato perduto nel tempo. Assodato (non per esperienza personale) che non vi è nulla di prezioso da recuperare, che la produzione del periodo socialista non era qualitativamente apprezzabile sotto tutti i punti di vista, ecco un motivo per cui i vecchi vestiti di produzione socialista non sono presi in considerazione, non vengono cercati, non sono di moda. Questo è il primo e principale motivo di non recupero.
L’ostalgie esiste ancora a Berlino, ma non riguarda la moda quindi: questo vale per nuove e vecchie generazioni dell’ex Est e Ovest di Berlino, vale per quelli che non hanno vissuto il socialismo, e per quelli che non sanno cosa sia se non per qualche sbiadito ricordo d’infanzia o per qualche ovattato racconto. Della moda della ex Ddr sembra non ci sia niente da recuperare stilisticamente, oltre che materialmente.
Alla luce di questo anche l’esperienza di S.wert acquisisce una nuova dimensione. Non a caso il suo percorso di ricerca e recupero prende vita attraverso passaggi che escludono la moda della Ddr: icone e architetture diventano tessuti che nelle collezioni di abiti assumono forme attuali, del tutto svincolate dal contesto da cui Sandra attinge.
Cosa è dunque oggetto di revival nella moda?
Sono stati riesumati la Trabant, i cetrioli di Stato, la Television Tower, i vecchi casermoni popolari, tutto quello che ha caratterizzato la vita quotidiana dei cittadini di Berlino Est (Rauhe 2003), ma non la moda, che in questo caso non è riuscita a tornare dal passato. L’abito è sì un veicolo comunicativo, ne sono un esempio le t-shirt che permettono di portare con sé, con una certa ironia, le stampe degli oggetti che hanno accomunato tutte le vite di queste persone. Ma la moda socialista, il progetto di un’estetica basica che doveva caratterizzare il guardaroba delle donne lavoratrici socialiste, quello no, non è ancora riuscito a tornare in auge, perché in fondo quella moda non è mai stata realizzata così come il governo l’aveva immaginata, e perché non è mai stata accettata da un popolo con lo sguardo sempre rivolto al luccicante Ovest.
La nostalgia per alcuni aspetti del proprio passato da vent’anni genera un recupero sia museografico, che ludico e turistico di immagini, oggetti e simboli d’ogni genere, purché questo recupero non abbia a che fare con quello che il corpo era costretto a indossare perché non c’era altra scelta. A dimostrazione del fatto che l’abbigliamento è molto più che un involucro.
Biografia
Biography
Bibliografia
Aa.Vv.
2003 Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, Milano, Mondadori.
Banchelli E. (cur.)
2006 Taste the East: Linguaggi e forme dell’Ostalgie, Sestante Edizioni, Bergamo.
Barth N. (cur.)
2008 Berlin Fashion. Metropole der mode, Dumont.
Bartlett D.
2004 Let Them Wear Beige: The Petit-bourgeois World of Official Socialist Dress, in “Fashion Theory: The Journal of Dress, Body & Culture”, VIII, 2.
Boym S.
2003 Ipocondria del cuore: nostalgia, storia e memoria, in Aa.Vv.
Gislimberti T.
2007 Ostalgie, ovvero nostalgia del passato perduto. A proposito dell’identità tedesca orientale, in “Metábasis” (rivista di filosofia on-line), novembre, a. II, n. 4.
Guenther I.
2004 Nazi chic? Fashioning women in the third reich, Oxford, New York, Berg.
Ludwig A.
2006 Preservare ciò che scompare, in Banchelli.
Paolo V.
2003 L’ Ovest conquistato dalla ex Germania Est, in “Corriere della sera”, 26 luglio.
Rauhe W.
2003 Com’è vintage Berlino, in “Velvet”, aprile.
Rückel R. (cur.)
2008 GDR-Guide. Everyday life in a long gone state in 22 chapters (catalogo della mostra permanente del DDR Museum), Berlin, Ddr Museum Verlag GmbH.
Stitziel J.
2005 Fashioning Socialism. Clothing, Politics, and Consumer Culture in East Germany, Oxford, New York, Berg.
Ten Dyke E.A.
2001 Tulips in December: Space, Time and Consumption before and after the End of German Socialism, in German History. The Journal of German History Society, 19, 2.
Sitografia
http://www.nosztalgia.net/cms/index.php?option=content&task=view&id=48
http://www.spomeniteni.org/content.php?handle=english
Contenuti correlati
- Deutesche Demokratische Republik, ovvero Repubblica Democratica Tedesca. [↩]
- Ludwig A., “Ostalghia, Nostalgie del’Est”, La storia siamo noi, Rai Educational, puntata 438. [↩]
- Il negozio è situato negli Hackesche Höfe, un complesso di cortili nel cuore di Berlino Est. Ampelmann è il nome dell’omino dei semafori dell’ex Ddr, oggi divenuta un’immagine di culto come altri oggetti tipicamente orientali e riprodotta su t-shirt, portachiavi, tazze, ecc. [↩]
- Abbreviazione di Freie Deutsche Jugend, ovvero Libera gioventù tedesca. La Fdj faceva parte del progetto educativo del governo. Tutti i bambini diventavano giovani pionieri all’età di 6 anni, a 9 anni diventavano pionieri Thälmann, a 14 anni entravano e far parte della Fdj con una cerimonia che segnava l’inizio dell’età adulta. Campi estivi e parate in divisa, canti patriottici e raccolta di oggetti da riciclare, faceva tutto parte del programma educativo del governo, che riponeva tutte le sue speranze nelle future generazioni. [↩]
- La Kostümbibliothek di Berlino ne conserva tutti i numeri a partire dal primo anno di pubblicazione (1956). Anche la Biblioteca del Polo scientifico-didattico di Rimini possiede alcuni numeri degli anni Settanta e degli anni Ottanta. [↩]
- È un museo dedicato interamente alla vita quotidiana durante la Ddr che nasce nel 2006 sulle rive dello Spree, di fronte all’Isola dei musei, nel cuore del Mitte. [↩]
- Becker W., Good Bye Lenin!, 2003, frame 01’,07”,50”. [↩]
- Becker W., Good Bye Lenin!, 2003, frame 00”,34”,22”. [↩]