Marco Roscetti
“Baghdad (vista dall’alto) è un infinito susseguirsi di tetti quadrati color fango, minareti affusolati, cupole e palme da datteri”. A trasportarci lungo l’asfalto e la polvere cittadina della capitale irachena del post-Saddam ci pensa, in questo libro, la giornalista olandese Minka Nijhuis, corrispondente di guerra per quasi due decenni (Afghanistan, Birmania, Cambogia e Iraq) per il quotidiano dei Paesi Bassi, Trouw.
Non si tratta del solito resoconto bellico-cronachistico, redatto dai noti giornalisti “embedded”, riparati tra giubbotti antiproiettile e distese di muri cementati al seguito delle truppe della coalizione, ma in questo diario, la Nijhuis preferisce concentrarsi sul “giornalismo lento”, seguendo le vicende anche dopo che i riflettori dell’attualità mediatica si sono spenti, mischiandosi nel background umano e indagando i mutamenti sociali e politici del popolo iracheno all’indomani della deposizione del regime autocratico di Saddam Hussein, a partire da quel 9 aprile 2003, annunciato al mondo con le sequenze di un M1 Abrams americano che abbatte la statua del Rais, nel centro di Baghdad.
Abbandonate le immagini di violenza e distruzione dei saccheggi operati dai curdi appoggiati dalla truppe statunitensi nel Kurdistan iracheno, la Nijhuis ci descrive la perdita d’identità di un intero popolo e della sua capitale, dove la realtà è stata completamente capovolta e l’assurdità regna sovrana. Baghdad è “un teatro dell’assurdo”.
Per raccontare questo opprimente senso di smarrimento che avvolge la quotidianità degli iracheni, la Nijhuis abbandona i suoi colleghi asserragliati tra le mura dell’hotel Palestine, e si ritrova ospite di circostanza, sospinta dagli eventi, della coppia Warm e Abbas, e della madre di lei, Khala.
Warm gestisce autonomamente una farmacia e lavora come traduttrice presso alla CPA, la Coalition Provisional Authority, ossia la coalizione guidata dagli Stati Uniti e diretta dal diplomatico Paul Bremer, che avrebbe dovuto traghettare il paese verso elezioni democratiche per la creazione di un nuovo governo e di una nuova costituzione. Sunnita, schiva ai retaggi dogmatici e dalle ampie boccate emancipatrici, ha ereditato dal padre, ex funzionario del ministero del Petrolio sotto la presidenza di Ahmad Hasan al-Bakr (deposto dallo stesso Saddam nel 1979, suo vicepresidente e collega all’interno del partito Baath), un risoluto spirito di responsabilità verso la propria terra che la porta a vivere a cavallo tra due mondi: conduce un’esistenza protetta all’interno delle mura di cemento che circondano il ministero della Sanità, e un’altra caotica e insicura all’esterno. Gli abitanti di questi due mondi non conoscono nulla gli uni degli altri. Basti pensare che molti dei consulenti che assume la CPA sono giovani, tra i venticinque e i trentacinque anni, che devono avere buoni rapporti con il Partito repubblicano statunitense, piuttosto che esperienza e conoscenza, ingaggiati con contratti che non vanno oltre i tre mesi. Ciò provoca acute diffidenze sia tra i funzionari esteri occidentali e gli operatori iracheni, sia tra la popolazione civile e gli stessi iracheni che lavorano con gli occupanti della coalizione, tacciati di collaborazionismo.
Abbas, suo marito, è un attore teatrale, costretto a dover sopravvivere con la sua arte in un mondo dello spettacolo fatto di macerie e continue promesse, mai mantenute. A differenza della compagna, è di fede Sciita e proviene da una famiglia profondamente conservatrice. Il costante e soffocante clima di tensione e violenze lo porterà a rinchiudersi nella rigidità religiosa, provocando insanabili fratture nel rapporto con Warm.
Khala, la madre di Warm, è una donna decisa, logorata da seri problemi di pressione che l’hanno costretta ad allontanarsi da Baghdad durante la seconda guerra del Golfo. Alla ricerca di una consolante tranquillità che possa accompagnarla nella vecchiaia, vive dei bei ricordi di vita passata, di viaggi in giro per il mondo al seguito del marito e del fratello diplomatico. Non gli rimangono che cumuli di foto e cimeli, che condivide con una quotidianità precaria, sconvolta continuamente dal sangue e dalla disperazione proveniente dall’esterno, da “una città di bombe, attentati e muri di cemento, una città che non è più la sua”.
Grazie a queste tre figure, Minka riesce a tracciare le linee di un paese che è passato dalla dittatura sanguinaria di un unico partito, nelle mani del “padre padrone” Hussein (quasi 240.000 vittime irachene nella guerra scoppiata nel 1980 con l’Iran, dove l’Iraq ottenne l’aiuto economico e militare di Usa e Nato, che si aggiungono alle oltre 200.000 vittime delle spietate pulizie etniche e repressioni, con utilizzo di gas velenosi, effettuate dal regime contro le comunità di sciiti del Sud e curdi della regione autonoma del Kurdistan iracheno, al Nord), alle dittature di molti Saddam diversi.
Un paese senza elettricità, dovuta alla mancanza di manutenzione delle centrali elettriche sopravvissute ai bombardamenti e ai frequenti furti dei cavi di rame degli impianti. Un paese senza acqua, che deve essere importata con cisterne aeree dal Kuwait. Un paese dove si accumulano code chilometriche alle pompe della benzina, nonostante si tratti di uno dei più grandi produttori di petrolio al mondo.
Quello che emerge dalle domande e dalle visite di Minka alla società civile irachena, è un sentimento di rabbia diffusa, che sfocia in violenza contro tutto e tutti. Nel vuoto di potere seguito all’arrivo delle truppe americane si era consumato tanto. Ai saccheggi sono seguiti regolamenti di conti personali, aggressioni, minacce. Lo scioglimento dell’esercito iracheno e di gran parte dell’apparato da parte dei vertici statunitensi, ha alimentato la criminalità organizzata e il fondamentalismo religioso, esasperando le divisioni religiose non solo tra sciiti e sunniti, ma anche tra le aree progressiste e conservatrici interne ai gruppi stessi. La lotta degli ex baathisti, dei rivoltosi nazionalisti, e dei fondamentalisti della jihad contro le nuove autorità e le truppe straniere ha assunto i caratteri di una guerra civile. Per questo la giornalista non risparmia sopralluoghi negli ospedali iracheni (fino agli anni ’80 del XX secolo l’Iraq era il paese con il servizio sanitario pubblico più efficiente dell’intera area), che gli stessi medici definiscono “i veri barometri della società”.
Dialogando con donne di diverse generazioni e radici, la Nijhuis offre anche un quadro dettagliato del variegato mondo femminile iracheno e della condizione di genere nello stato mesopotamico. Nonostante le limitazioni introdotte negli ultimi anni del regime di Saddam con la campagna religiosa dell’Hamla al imania, le figure di donne che emergono dagli incontri di Minka, non sono certo il tipo di immagine che i mezzi di comunicazione occidentali trasmettono delle donne irachene, e in diverse occasioni, le sue interlocutrici paventano il pericolo che l’Iraq si possa trasformare in un regime islamico integralista.
Il caos strisciante e il rischio di un’improvvisa e tragica escalation degli eventi, faranno desistere le stesse “guide antropologiche” di Minka, che cercheranno di costruirsi una nuova vita all’estero, prima ad Amman, in Giordania, e infine a Baltimora, negli Usa.