Carlo Andrea Stazzi
Abstract
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Introduzione
Uno studio specifico sui repubblicani-federalisti lombardi appare ben calibrato e adatto alla comprensione storica della nascita del Partito Repubblicano Italiano (1895), non solo per la struttura territoriale su cui si innesta questa nuova “forma-partito”, ossia sulla base delle Consociazioni regionali e delle società artigiane ed operaie del Patto di Fratellanza (Di Porto, Cecchini 1981). La realtà locale lombarda, inoltre, influirà sulle caratteristiche del futuro Pri. Il concetto “Stato di Milano” è coniato proprio dai repubblicani di “seconda generazione” (vedi Dario Papa e Gustavo Chiesi) ed è la parola d’ordine dei repubblicani milanesi nelle elezioni amministrative del 1895.
Nel concentrarsi, in particolare, sul periodo 1890-1895, non ci si può esimere da frequenti flash-back (attraverso, principalmente, alcune fonti a stampa) nel ricostruire le vicende dei repubblicani-federalisti.
I “padri culturali” del federalismo repubblicano ripetono, spesso, come bisognasse “contrapporre la Federazione alla fusione e non all’unità” (Angelini 1998, 33); nel senso, cioè, di non proporre un’“Italia in pillole” ma evitare una fusione statale e accentratrice. Con il termine federazione, i repubblicani-federalisti intendono “unità nazionale e politica snodata in autonomie legislative regionali” (Gallo 1980, 13).
Dario Papa, uno degli esponenti principali di questa “scuola”, insiste su come ciò non comportasse affatto “mancanza di sentimento nazionale, di amor patrio” (Colombo 1987, 270), smentendo coloro i quali snatureranno il concetto “Stato di Milano” tramutandolo in strategia “antinazionale”.
Taluni storici contemporanei sottolineano, infatti, come la soluzione regionale e federale repubblicana non venne mai usata “come un’arma punitiva della Nazione storica” (Angelini 1998, 14). Invece, secondo altre interpretazioni, alla base del federalismo repubblicano lombardo di fine Ottocento vi sarebbe una sorta di avversione nei confronti dell’Italia meridionale.
Certo la polemica, soprattutto di Gustavo Chiesi, su una Roma di “buzzurri” e su una presunta attitudine della capitale “di corrompere uomini e idee” (Chiesi 1893), potrebbe portarci alla fin troppo facile semplificazione della tematica federalista, riducendola ad una logora e stantia disputa tra Milano, “capitale morale”, “capitale economica” e Roma “capitale politica”, “città ministeriale”. Semmai, andrebbe sottolineata l’arretratezza dell’Agro Romano e dell’economia laziale nel suo complesso (Barbalace 1999).
Le novità e le particolarità del federalismo “pragmatico” (Angelini 2001, 117) sono intimamente legate alle pratiche dell’autogoverno e della democrazia partecipativa: ben lontane, quindi, dal “discentramento” liberal-conservatore alla Minghetti.
Eugenio Chiesa, importante esponente dei repubblicani lombardi, spiega: “i monarchici vi gabellano” nel parlare di autonomia regionale, perché il loro “discentramento” è solo “una delegazione temporanea del potere centrale” (Chiesa 1893, 16). Pertanto, anche le istanze federaliste del repubblicano Gabriele Rosa non contengono un semplice “rilancio delle istanze moderate minghettiane” (Ganci 1973, 63). Uno dei tanti equivoci per delegittimare i repubblicani federalisti.
Il “federalismo come teorica della libertà” (Petraccone 1995, 11), espressione cattaneana fatta propria e rilanciata da Dario Papa (direttore de “L’Italia del Popolo”) consente di creare “la consapevolezza collettiva delle masse”, un “popolo padrone di sé” (Angelini 2001, 114).
La necessità di una riforma federale in cui “non si deve edificare dal vertice, ma salire dalla radice”, dove “non si ordinano Repubbliche Federali sicure sino a che la democrazia non si è ben ordinata nelle piccole agglomerazioni locali” (Rotelli 1977, 2). Il Comune diviene la “scuola migliore per apprendere a trattare l’interesse individuale nell’interesse pubblico” (Angelini 1998, 74). Tutto questo, ben presente anche nel socialista Andrea Costa, quando nella lettera Ai miei amici di Romagna (agosto ’79), addita l’obiettivo di una “federazione dei comuni autonomi, considerata come organamento politico” (Costa 1879).
Il federalismo, quindi, avrebbe favorito la nascita di un forte senso del paese e dello stato, come in America, dove “la patria si sente ovunque” (Angelini 1998, 75), con “costituzioni proprie e parlamento, leggi e potere esecutivo a sé” (Bagantin 1984, 105), insieme all’“autonomia nelle leggi d’interesse parziale, nelle imposte, nella sicurezza pubblica, nell’istruzione” (Cecchini 1974, 97). Parafrasando Arcangelo Ghisleri: “sovranità deliberativa dei soli veri competenti e interessati” (Ibidem, 138).
In tal modo, si sarebbero realizzati poteri istituzionali “impotenti a distruggersi” e, quindi, “costretti a compararsi” (Angelini 1998, 42). Un argine non solo ai despoti, ma capace di evitare un’eventuale “dittatura della maggioranza” (secondo l’espressione di Tocqueville).
Gli italiani, seppur “fatti liberi politicamente”, conservano l’istinto della “talpa”, pronti “a cospirare nelle tenebre”, ma anche “avvezzi a transigere colla […] coscienza” (Ghisleri 1882, 19-29). Ghisleri trova origine di ciò nella persistente “diffidenza verso la libertà”. Diffidenza che scaturiva in ambito “essenzialmente cattolico” (Ibidem, 19-29), ove, talvolta, la teocrazia faceva agio nei confronti della libertà. Invece, il federalismo dei repubblicani lombardi (ipotesi diametralmente diversa dalle proposte di Gioberti e Rosmini) si erge in una prospettiva nazionale e sovranazionale (addirittura chiaramente europea in Cattaneo), sganciata da qualsiasi teocrazia come strumento di democratizzazione e responsabilizzazione della vita politica e sociale.
La decisione di analizzare il periodo 1890-1895 si deve alla presenza di due eventi decisivi.
Il 6-7 giugno 1890 nasce il quotidiano repubblicano-federalista “L’Italia del Popolo”, volano di rinnovamento dei repubblicani di “seconda generazione”: “Noi eravamo da tempo abituati ai giornali repubblicani della vecchia maniera”. Invece, “L’Italia del Popolo” è “un giornale repubblicano moderno, senza preconcetti, senza tesi prestabilite” (Ridolfi 1989, 326). Inoltre, verrà considerato come soluzione riordinatrice “delle forze repubblicane lombarde verso un vero e proprio partito repubblicano vigoroso, espansivo in ogni campo della vita” (Un ignoto s.d., 50).
L’altro termine temporale corrisponde alla nascita del Partito repubblicano italiano, nel 1895.
I repubblicani-federalisti alla “scuola cattaneana”
Il 6 giugno 1890 Dario Papa termina un percorso di maturazione politica e approda ai lidi del repubblicanesimo federalista, già fertile a Milano, dove dalla seconda metà degli anni ’70 dell’Ottocento si assiste ad una “riscoperta” di Cattaneo.
Dario Papa, vero “uomo nuovo” del repubblicanesimo lombardo, giungerà al termine del suo percorso con la nascita della “forma-partito” del 1895. Egli scrive una lettera ad Oreste Cipriani, redattore-capo del periodico “L’Italia”, affermando come abbia acquisito consapevolezza che “con la monarchia, lo sviluppo caro a noi della patria non è possibile”. Va evidenziato che Papa proveniva da un passato di ex monarchico.
Nel volume “New York” (Papa, Fontana 1884) Papa e il suo amico Ferdinando Fontana sottolineano la novità politica del federalismo nord-americano in rapporto all’istruzione pubblica, all’emancipazione della donna (Papa 1894), alla libertà di parola, pur non trascurando la situazione degli afroamericani, dei lustrascarpe italiani, degli “spazzaturai”. La scoperta politica del “Nuovo Mondo” ha notevoli similitudini con il “viaggio” di Tocqueville. Il “Nuovo Mondo” diviene punto di riferimento e vero fattore d’innovazione della cultura repubblicana lombarda di “seconda generazione”.
Lo studio del modello istituzionale e politico statunitense, insieme a quello svizzero, diventerà un fattore di “diversità” culturale e politica, sia rispetto all’associazione Scuola Mazzini, sia alla Fratellanza repubblicana milanese, sia nei confronti della democrazia radicale italiana (la quale assumerà “forma-partito” nel 1904 con il Partito Radicale). Già Carlo Cattaneo evidenzia come la civiltà procedesse da molteplici varietà e “la condizione suprema della libertà” venisse veramente intesa “solo dagli svizzeri e dagli americani” (Angelini 2001, 100). I repubblicani lombardi studiano J.S. Mill e Tocqueville. La Rivoluzione francese era, secondo Tocqueville, colpevole di aver tolto “il gusto dell’autogoverno” (Preda, Rognoni 2005, 18).
I repubblicani federalisti sostengono la necessità di respingere “il virtuale annientamento della minoranza”, poiché il “principio essenziale della democrazia” è “la rappresentanza proporzionale ai numeri” (Angelini 1998, 164), facendo propria la “cultura politica” dell’Associazione per l’introduzione della proporzionale nata, in Belgio, nel 1868. Contemporaneamente, respingere il rischio di “dispotismo sociale”, considerato “la più formidabile di qualunque altra forma di oppressione politica” (Gastaldi 1983, 137), capace di condurre alla “mediocrità universale” (Bigantin 1984, 188).
Al culto della rivoluzione, poiché “le rivoluzioni sono forte mezzo di accentramento” (Rotelli 1977, 48), i “nuovi” repubblicani lombardi preferiscono l’incisività delle riforme (Barbalace 1994) e il ripudio della “fede nei miracoli della violenza” (Balzani 1983, 175). Medesima fu la riflessione di Andrea Costa, nel 1879. Aggiunge Dario Papa: “il voto è l’arma, il voto è lo strumento col quale si devono combattere le battaglie della civiltà moderna” (Colombo 1987, 272). In effetti, il pensiero critico e antidogmatico di Mill (conosciuto, in primis, da Mario che gli dedica alcuni articoli) e il federalismo di Cattaneo sono le fonti (Urbinati 1990) dei federalisti lombardi.
In tale ottica si può concordare con la riflessione dello storico Lucio Cecchini, il quale vede nella “scuola cattaneana” il presagio della nascita del Pri. Molti studiosi contemporanei evidenziano come “la trascrizione dell’evoluzionismo sociologico in chiave politica” dei repubblicani lombardi conduca al “riformismo” (Cecchini 1974, 77-78). Traguardo non molto dissimile dalla Lega socialista milanese (Turati e Kuliscioff), ove, però, l’internazionalismo operaio ha la meglio sul federalismo. Per lo stesso motivo i socialisti tralasciano, in gran parte, il concetto di patria.
Non si può prescindere da una seppur sintetica comparazione storiografica tra queste due componenti politiche che modernizzano gli “spazi della politica” dapprima, in Lombardia, e, poi, in tutto il Paese.
Minore spazio viene lasciato dai repubblicani federalisti alla richiesta di una futura costituente repubblicana perché inglobata nel concetto di repubblica federale (qui ricompare il totale dissenso rispetto alle proposte di Gioberti e Rosmini). In tale prospettiva s’inquadra l’irredentismo. Già Cattaneo prevedeva, infatti, un’autonoma federazione delle nazionalità compresse dall’Impero Asburgico.
Ghisleri, ad esempio, intende la Repubblica come “governo a buon mercato”, “produzione della terra e delle officine non mortificato da tasse spogliatrici”, mezzo per “tagliare i viveri ai fannulloni”. Anzi, “col sistema federale, triplicare la produzione” (Colucci 1975, 227).
Alberto Mario è il primo a riscoprire i testi di Cattaneo e a preoccuparsi – insieme alla moglie Jessie White, importante “divulgatrice della cultura politica inglese” (Urbinati 1990, 81) – della loro ristampa e sistemazione. Alberto Mario decide di intraprendere, insieme alla consorte, il viaggio di nozze negli Stati Uniti (1858-1859), riferimento importante e modello di confronto nella maturazione del suo percorso politico.
Allo stesso modo si muove Gabriele Rosa (superstite dello Spielberg), ammiratore degli Stati Uniti, di Tocqueville, Mill (dal quale erediterà il significato della “funzione educativa della partecipazione”) e Bluntschli. Quest’ultimo interpretato, sempre da Rosa, “in chiave liberal-democratica”, ponendo attenzione alla definizione di democrazia rappresentativa, ovvero “regime dei cittadini liberi e governo dei migliori eletti” (Angelini 2003, 32 e Pombeni 1984). Rosa raccontava come nei comuni del Massachussets tutti fossero “elettori ed eleggibili” e si raccogliessero “in assemblee generali ad amministrare direttamente” (Rotelli 1977, 40). Tale riferimento conduce al “caucus” nordamericano.
Anche Arcangelo Ghisleri si reca negli Stati Uniti, nel 1893, per assistere all’Esposizione Universale di Chicago. Dalle pagine de “L’Italia del Popolo” evidenzia “la vita nuova” americana, soffermandosi sul “meraviglioso esperimento politico” (Ghisleri 1893) che essa offriva alla storia. Dario Papa (sposato con una donna americana, Fidelia Dinsmore) si muove sulla scia di Ghisleri.
I repubblicani-federalisti hanno come punto di riferimento gli Stati Uniti.
L’attenzione verso la “questione sociale” (anche attraverso il movimento letterario della Scapigliatura) e l’influenza dell’ambiente culturale cremonese, ove troviamo Ghisleri, Turati, Bissolati (futuro direttore del quotidiano “Avanti!”), rafforzano i rapporti Ghisleri-Turati. Quest’ultimo già collaboratore della “Rivista repubblicana” e di “Cuore e Critica” (trasformata, nel 1891, in “Critica Sociale” da Turati e Anna Kuliscioff).
A partire da Gabriele Rosa (già collaboratore della “Plebe”, organo del Partito Operaio, prima espressione di partito regionale) e dal suo libro Socialismo naturale (pubblicato, a puntate, su “Cuore e Critica” nel 1890), i repubblicani lombardi convivono, senza conflittualità, con un socialismo letto in chiave evoluzionista, allontanandosi ancor di più dai “vecchi” repubblicani, come dallo stesso repubblicano Alberto Mario (critico, spesso impietoso, della Seconda Internazionale Socialista nelle pagine della “Rivista Repubblicana”).
All’interno degli stessi repubblicani-federalisti, Ghisleri si diversifica da Mario affermando “logicamente” di trovarsi “d’accordo coi socialisti” (Benini 1978a, 346) e meditando la creazione di un “grande partito repubblicano-socialista” (Ibidem, 189). Prospettiva portata avanti anche dalle Consociazioni repubblicane-collettiviste di Romagna e Marche, che recepiscono la “svolta” di Andrea Costa in rapporto alla conquista democratica dei municipi. Nella medesima direzione avanza Dario Papa (ex monarchico e, poi, “cavallottiano deluso”), principale sostenitore della necessità di un partito di “democrazia sociale” (Granata e Scalpelli 1998, 130). In ogni caso Papa e Ghisleri giungono ad un medesimo risultato: la nascita dell’Unione Democratica Sociale (Uds), a Milano, dicembre 1890.
La Uds sta a testimoniare proprio la vicinanza dei percorsi culturali della Lega Socialista di Milano e dei repubblicani-federalisti (rimarranno fuori dall’Uds i repubblicani dell’associazione Nuova Italia e gli operaisti milanesi). La necessità di una comune lotta politica si esprimerà, così, con il comitato unitario in occasione delle elezioni amministrative del giugno 1891 a Milano.
“L’Italia del Popolo” scrive essere ormai necessario il principio per i repubblicani di non “disinteressarsi della grande questione economica e sociale” e per i socialisti di non “disinteressarsi della questione politica” (Granata e Scalpelli 1998, 106-107).
L’Unione democratica sociale, inoltre, esprime la volontà di non “agitarsi” soltanto “in tempo di elezioni, bensì di organizzarsi prima”, differenziandosi dalla democrazia radicale, considerata dai repubblicani-federalisti un “fossile del passato” (Ibidem, p. 108).
Ghisleri, infatti, convinto dell’importanza di “invadere le amministrazioni locali” e di una “agitazione pratica” (Benini 1978a, 193), sostiene non essere “questione oziosa stabilire se il popolo sovrano debba limitarsi ad abdicare, come in Francia, la propria funzione sovrana nelle mani di un’unica assemblea e di un lontano potere esecutivo […], o non piuttosto esercitarsi […] mediante il meccanismo del governo vicino e diretto” (Tesoro 1996, 14). D’altro canto Alberto Mario invita ad una “assidua e convinta partecipazione alla vita amministrativa” (Gastaldi 1976, 23).
Alla “scuola” federalista lombarda non sfugge l’importanza che Tocqueville, Constant, ma anche i socialisti Proudhon e Malon, affidano all’esercizio del “potere municipale” (Ibidem, 30). In questa cornice occorre inquadrare, con le dovute differenze (politiche e cronologiche), anche le riflessioni del liberale inglese Joseph Chamberlain in riferimento al “modello Birmingham”. L’importanza del “potere municipale” si trova nei due saggi a stampa del 1886-1887 del repubblicano Gabriele Rosa: Lo Stato e il Comune e La legge comunale e provinciale dell’Italia.
Proprio Tocqueville, strenuo difensore delle libertà civili e politiche, insegna come le democrazie accentrate fossero “più dei re e meno degli uomini”, appellandosi al Municipio, luogo dove risiede “la forza dei popoli liberi”. Scrive Tocqueville: “Senza istituzioni comunali una nazione può darsi bensì un governo libero, ma non ha ancora lo spirito della libertà” (Gastaldi 1976, 136).
Mill stesso, attento lettore e appassionato ammiratore del liberale francese, vede nei poteri locali “un sostegno sociale, un punto d’appoggio per le resistenze individuali contro le tendenze del potere governativo; un presidio, un punto di riannodamento per le opinioni e gli interessi” (Ibidem, 136). Il termine-concetto di “resistenza” rientra, scrive Paolo Pombeni (1984, 38-39), nell’ambito di relazioni fondamentali di una moderna “comunità politica”.
Si può sostenere, anzi, che proprio il federalismo e il pensiero positivista conducono i repubblicani-federalisti al rifiuto della lotta esclusivamente “extraparlamentare” (ossia, fuori dal Parlamento) e ad un impegno politico più incisivo (almeno nelle elezioni municipali soprattutto dopo le modifiche elettorali amministrative del 1889 quando, a Milano, voteranno 180.000 nuovi elettori). Federalismo inteso, quindi, come “principio generatore di riforme militari e amministrative” (Angelini 2001, 117).
All’origine dei repubblicani-federalisti
La “Rivista Repubblicana” (dal 1879 organo della Consociazione repubblicana della Lombardia) svolge un ruolo importante nella diffusione di queste idee. Sarebbe opportuno verificare, con ulteriori documenti, il possibile contatto politico – in quel 1879, “anno di svolta” – tra Costa, Ghisleri e i socialisti francesi vicini a Malon.
Inizia, attraverso la “Rivista repubblicana”, una sorta di polemica “antimazziniana” (apparentemente paradossale trattandosi pur sempre di repubblicani), in cui non si lesinano critiche a Mazzini, responsabile di “errori di metodo”, di “misticismo malaticcio” e di “anacronismo” (Conti 2000, 44). Lo stesso Costa parla di “idealismo stantio” a proposito del mazzinianesimo, aggiungendo: “Quando non si va avanti, si va necessariamente indietro: io credo che noi vogliamo tutti andare avanti” (Costa 1879).
Tra gli stessi repubblicani l’ala più “intransigente” rinfaccia al direttore della “Rivista Repubblicana”, Alberto Mario, di essere fin troppo “moderato”, rischiando di annacquare la pregiudiziale antimonarchica e spostandosi su un terreno costituzionale garantito dallo Statuto Albertino. Critiche destinate a crescere, soprattutto dopo il fallimento del governo Bertani, da taluni settori radicali e repubblicani sostenuto con fiducia eccessiva. In proposito Ghisleri parla di vera e propria “scrofola del parlamentarismo” (Benini 1978b, 192). Obiezioni rivolte alle tentazioni parlamentaridella democrazia radicale (ma, anche qui, ci sono posizioni transigenti ed intransigenti) ed anche ai tentativi (per alcuni troppo “audaci”) di svecchiamento del “dogmatico” astensionismo repubblicano. Tuttavia, è merito di Mazzini (vedi l’Istruzione generale per gli affratellati della “Giovane Italia” del 1831) la volontà di superare, definitivamente, la fase cospirativa, fornendo ai repubblicani un programma pubblico, la necessità di un’organizzazione territoriale ed un’adeguata rete finanziaria.
Lo storico Lotti, a proposito dell’evoluzionismo dei “nuovi” repubblicani, nota come ciò non significhi, soltanto, “progressivo inserimento nelle lotte parlamentari in nome delle riforme attuabili, ma sviluppo di partecipazione democratica attraverso l’esperienza associativa, l’autogoverno, la pratica della democrazia” (Balzani 1983, 188). La necessità e la volontà di ribadire le differenze culturali e politiche rispetto ai repubblicani “vecchio” stile ed alla democrazia radicale viene propugnata fin dal 1878 (congresso delle associazioni repubblicane, a Padova, in vista della creazione della Consociazione repubblicana lombarda).
Proprio nel 1878 Chiesi critica la “democrazia fossile”: “è un partito cotesto? Io per partito intendo un’organizzazione formata, solida, potente, ottima, vitale”. Secondo Chiesi il così detto “partito repubblicano-mazziniano” rivendica una sorta di monopolio: “rappresentare l’idea repubblicana in Italia, anzi d’averne la privativa”. Ma, ormai, esso appare “sfatato, impotente, eunuco”. Anzi “un ostacolo alla trasformazione politica e sociale” della democrazia repubblicana, un impedimento “al trionfo dell’idea italiana che èrepubblicana-federale-socialista”.
Chiesi aggiunge: “si sono fabbricate chiese e chiesuole d’ogni specie” allontanando, come appestati, chi – nel partito repubblicano – “ha osato parlare di questione sociale in modo diverso da quello stabilito dai dommi della Scuola Mazzini [la già citata associazione che a Milano riuniva i “vecchi” repubblicani, N.d.A.]; s’è bandito, quasi colla taglia sulla testa, chi essendo repubblicano, ha tentato di far largo alle dottrine economiche e politiche di Carlo Cattaneo e di Giuseppe Ferrari” (Chiesi 1878, 7-39).
Gustavo Chiesi è l’autore del volume La tradizione federale in Italia (Chiesi 1881) fondamentale tappa per la maturazione federalista repubblicana. In questo saggio afferma come per “secessione regionale” intendesse non la distruzione dell’unità d’Italia, ma la “ federazione repubblicana delle regioni d’Italia” (Ibidem, p. 513). Ciò farà da battistrada al concetto “Stato di Milano”. Inoltre, estimatore della Seconda Internazionale Socialista, aveva incontrato, in un viaggio in Spagna, Dario Papa instaurando, con questo, un rapporto professionale e di amicizia. I due collaboreranno, poi, al giornale “L’Italia” e a “L’Italia del Popolo”, dove Chiesi assumerà il ruolo di redattore-capo.
Gustavo Chiesi ribadisce come “la democrazia non voleva dei preti” (in riferimento a Brusco Onnis e Albani, “vecchi” repubblicani). Invece, bisogna “insinuarsi, immedesimarsi, vivere della vita pubblica” (Chiesi 1878, 7-39). Evidente l’influenza della Lettera di Costa del 1879. D’altra parte, c’è chi descrive Gustavo Chiesi come, anagraficamente, “uomo della vecchia generazione repubblicana” seppur, a tutti gli effetti, collocabile nella nuova generazione repubblicana lombarda perché espressione di “spiriti laici e cattaneani assai più che mazziniani” (Di Porto 1978). Sembra di assistere ad una sorta di “parricidio” politico nei confronti di Mazzini; i “vecchi” mazziniani sono fin troppo ancorati alla vulgata tradizionale del Maestro, mentre i “giovani” sembrano non storicizzare le condizioni proprie del tempo in cui Mazzini visse.
Già all’interno della “prima” generazione repubblicana, malgrado venga definita superficialmente come “vecchia”, sussistono diversità politiche e culturali sostanziali. Tutto ciò ritorna nella discussione che precede la nascita della Consociazione repubblicana lombarda (1879).
Arcangelo Ghisleri (fondatore dell’“Associazione del Libero Pensiero” e, nel 1879, Chiesi e Ghisleri del circolo “Carlo Cattaneo” a Cremona, in compagnia di Bissolati ed Ettore Sacchi) aderisce al metodo evolutivo positivista proprio “per tirar fuori dall’inerzia contemplativa” i vecchi mazziniani, “monaci aspettanti la vita futura”. Atteggiamento tipico di quei “repubblicani di cui, aggiunge Ghisleri, mi vidi circondato nella mia giovinezza, che nulla facevano” (Cecchini 1974, 78). Ghisleri, non esita a definirli “una sterile conventicola di sopravvissuti” (Angelini 2001, 122). Ad esempio, Brusco Onnis, per il quale era “indispensabile la cospirazione” e “funesto il metodo dell’opposizione Parlamentare” (Consociazione repubblicana della regione lombarda 1879, 3).
L’antica tradizione repubblicana lombarda si muove tra la “Scuola Mazzini” e la “Società della Fratellanza Repubblicana di Milano” (due associazioni che, infatti, esitano ad aderire alla nuova Consociazione repubblicana lombarda del 1879). Nel dibattito congressuale del 1879 la mozione Onnis viene battuta e nel comitato direttivo entrano, infatti, esponenti repubblicani assai vicini alle tesi di Cattaneo, come Ghisleri. Egli, nell’intervento finale del suddetto congresso, ribadisce la necessità di un partito capace di sviluppare “la sua azione all’aperto, lealmente e francamente”, “in senso pratico”, abbandonando “il fantastico sistema dell’allarmare per attenersi al metodo pratico e positivo del dimostrare e persuadere” (Tramarollo 1976, 444). In parte, affermazioni già alla base della “Giovine Italia” di Mazzini che, però, appaiono distorte nelle posizioni politiche portate avanti da Brusco Onnis ed Albani.
Non è un problema anagrafico di generazione, ma di linea politica. Negli interventi di individuare le linee di frattura tra i “nuovi” e “vecchi” repubblicani lombardi all’interno della stessa “prima generazione” repubblicana.
Alcuni tra i “nuovi” repubblicani si mostrano sempre più attenti alle novità del pensiero socialista e sempre più sensibili alle emergenze poste dalla “questione sociale” (risale agli anni ’80 dell’Ottocento la crisi agricola che travolge la Lombardia con “la Boje”). Soprattutto interessa ai “nuovi” repubblicani sottolineare come l’“astrattezza dei puri” (Cecchini 1974, 77) impedisce ai “vecchi” repubblicani di accorgersi del Partito operaio italiano degli anni ’80 e della lenta, ma irreversibile, erosione delle tradizionali organizzazioni repubblicane e della stessa democrazia radicale. D’altra parte, va sottolineata già la fuoriuscita di una parte dei repubblicani-collettivisti fin dal sorgere del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, fondato da Andrea Costa.
Ritornando agli anni ’90 dell’Ottocento, nel tentativo di rinnovare la geografia politica italiana, in un periodo di fluidità elettorale ed organizzativa, “L’Italia del Popolo”, anche attraverso la penna di Dario Papa, si scaglia contro il Patto di Roma (maggio 1890) sostenuto dalla democrazia radicale. Considerato troppo poco innovativo, nonostante prevedesse il semplice decentramento amministrativo, confermando, in tal modo, la diversa proposta del federalismo repubblicano.
Nei confronti della sostanziale vicinanza verso Crispi di alcuni settori della democrazia radicale (anche attraverso i comuni vincoli massonici), Dario Papa precisa: “la democrazia italiana ha avuto insieme con tanti meriti reali, un grande torto: era pesante, noiosa. I giovani se ne sono stancati, l’hanno abbandonata”. Si augura “che ne succedesse un’altra, capace di accordare la ragione scientifica coi più umani e generosi slanci del cuore” (Biblioteca del Circolo “Alberto Mario” 1892, 15-16). Secondo “L’Italia del Popolo”, i radicali del quotidiano “Il Secolo” si lasciano andare ad “inni” nei confronti della compagine ministeriale crispina e di Giuseppe Colombo, leader degli industriali lombardi.
“L’Italia del Popolo” esalta, invece, un “conservatore, aristocratico fino alla punta dei capelli, ma di altissima intelligenza, il marchese di Tocqueville”, il quale era andato “a vedere quel Paese, [ovvero gli Stati Uniti, N.d.A.]”, di cui aveva subito apprezzato le reali novità. I moderati milanesi, purtroppo, “non erano certo il marchese di Tocqueville o il conte di Cavour e neanche Marco Minghetti” (“L’Italia del Popolo” 1891).
Le riflessioni sulla “forma-partito”
Con sempre maggiore intensità, negli anni ’80 dell’Ottocento, i “nuovi” repubblicani iniziano ad usare il termine “partito”, intendendolo come un corpo intermedio ed organizzativo ben definito. Addirittura, guardano l’organizzazione della Spd in Germania. Gli anni ottanta dell’Ottocento vedono una maggiore riflessione sulla moderna “forma-partito” (Gherardi, Gozzi 1992) in quasi tutte le “famiglie” politiche. Ed anche successivamente, i “nuovi” repubblicani sentono l’esigenza di “definire un programma politico, chiaro, facile, accessibile […], lontano da dottrinalismi vari e dalle esclusioni intemperanti”. È necessario diventare “un partito moderno” (Ridolfi 1989, 330-331) e non personalistico. Aggiunge “L’Italia del Popolo” del marzo 1891: “vorremmo essere un partito che prendesse nome dalle idee” (“L’Italia del Popolo” 1891). Si torna alla concezione di Ghisleri: il partito “palestra di cultura e addestramento all’azione” (Ingusci 1968, 25). Similmente si esprime Gustavo Chiesi (Chiesi 1893). Tuttavia occorre ricordare che rispetto alla Giovane Italia di Mazzini erano trascorsi ben cinquant’anni e, tuttavia, il pensiero mazziniano era giunto a concepire una struttura come il Partito d’azione.
La strada verso la creazione della “forma-partito” acquista maggiore velocità soprattutto dopo la fine del “Patto di Fratellanza”, nel 1893.
Più facile capire, per chi aveva studiato sui testi di Cattaneo e Tocqueville, che “le parti politiche sono utili, anzi necessarie” (ritornano le espressioni di Bluntschli). Infatti, virtù dei governi liberi, secondo “L’Italia del Popolo” nel febbraio 1891, è “far sì che le frazioni diventino parti”. Non solo: virtù dei governi rappresentativi “portar le parti dalla piazza alle aule parlamentari”. Un partito moderno, secondo i repubblicani-federalisti, è “una riunione di uomini collegati insieme per favorire in comune, coi loro sforzi, il bene della nazione inteso da essi secondo certi principi”, necessariamente condivisi dagli appartenenti ad una medesima organizzazione. Aggiunge “L’Italia del Popolo”: “Si può pensare liberamente, ma nei grandi principi non può appartenere al partito chi non si accorda coi suoi amici”. Solo così, infatti, il partito “dà stabilità alle opinioni varie, sottili, fuggevoli degli uomini politici, riannodandole in modo duraturo a principi saldi e costanti” (“L’Italia del Popolo” 1891).
Anche a livello di “scienza della politica” balza fuori la cultura europea ed internazionale della “seconda generazione” dei repubblicani lombardi.
Secondo Dario Papa “i partiti sono necessari allo Stato, sono connaturali al regime rappresentativo: ma non lo sono le fazioni” (Papa 1880, 303). L’esempio viene dai socialisti tedeschi, che respingono, secondo i federalisti lombardi, “il culto delle persone e la fede nei dogmi”, con uno “spirito veramente pratico, preciso”. Posizione ben diversa dai “cosiddetti partiti avanzati” italiani (compreso quello socialista), i quali si perdono, invece, “in infelici accademie” (“L’Italia del Popolo” 1891). È evidente come ancora non siano macroscopici i vizi del party-machine successivamente denunciati da Robert Michels. D’altra parte la rigidità ideologica della Spd sembra non essere colta dai “giovani” repubblicani, travolti dal “mito” della grande performance elettorale della socialdemocrazia tedesca nel 1890.
Secondo Papa, pur “disfattasi” la democrazia radicale, “tanto impastata di parate e vaniloqui”, anche il partito socialista italiano diviene “suo erede” (in senso negativo), avendo “vizi ereditari nel sangue” (“L’Italia del Popolo” 1891). A differenza del modello socialista tedesco, dove le decisioni prese vincolavano tutti, i “socialisti e radicali di casa nostra” hanno “dieci modi diversi di vedere”. Ciascuno “pretendeva che gli altri” seguissero il proprio percorso, pur se opposto ad altri interni alla stessa forza politica (“L’Italia del Popolo” 1891). Critiche che, tranquillamente, potevano essere rivolte anche agli stessi repubblicani.
Come vediamo, dal 1891-1892 finisce la “luna di miele” tra socialisti e repubblicani-federalisti. La ricerca di un’identità più definita e strutturata, necessaria per trovare la propria strada, li incalza, in una fase di ridefinizione e reinvenzione degli “spazi” politici nazionali. Ognuno va in cerca di un’autonoma e concorrenziale alternativa politica. Socialisti riformisti e repubblicani federalisti si muovono alla costruzione della moderna “forma-partito”. All’appuntamento arriveranno, nel 1892, a Genova, i socialisti. A Bologna, nel 1895, i repubblicani. È la loro risposta programmatica ed organizzativa per trovare, entrambi, legittimità e forza politica, anche all’interno degli stretti “varchi” dello Statuto Albertino.
La nascita del Pri
A rallentare la creazione del Partito repubblicano, a disperdere momentaneamente le forze repubblicane, interviene, però, la repressione crispina del 1894, che tocca il suo culmine con lo scioglimento del Partito socialista dei lavoratori italiani. Si potrebbe intravedere nelle repressioni crispine la totale impreparazione dell’uomo politico siciliano rispetto alle prime moderne realizzazioni della “forma-partito” in Italia.
Dario Papa promuove la “Lega per la difesa delle libertà” (1894), con cui le forze popolari milanesi affrontano, unite, le elezioni amministrative del febbraio 1895 pur venendo sconfitte dall’accordo tra liberal-conservatori (in parte ex-crispini) e clerico-moderati (AcS). La Lega esprime la difesa delle garanzie statutarie. Otterranno i liberal-conservatori l’appoggio dei clerico-moderati per le successive elezioni politiche?
“L’Italia del Popolo” scrive in prima pagina il 23-24 febbraio 1895: “Quel signor commendator Carlo Pisani Dossi, impiegato al Ministero degli Esteri, […] è stato in questi giorni a Milano, mandato dal suo padrone [Crispi, ndr] a conferire con l’Arcivescovo Cardinale Ferrari per ottenere da lui il concorso dei clericali alle urne politiche a prò di quei candidati moderati che si troveranno in maggior conflitto coi candidati radicali, repubblicani, socialisti, che indubbiamente si presenteranno nei cinque collegi milanesi” (AcS).
Il risultato del colloquio tra l’emissario di Crispi e il Cardinale si evince da un biglietto olografo, rinvenibile all’interno delle carte dell’Archivio Pisani Dossi, in data 20 aprile 1895: “Ho parlato lungamente col cardinale, ma uscii dal colloquio sconfortato. Tutti i miei ragionamenti e le mie preghiere si infrangevano contro il solito non-possumus”. È necessaria “una parola da Roma”, dal papa, per convincere il cardinale a sostenere i candidati liberal-conservatori, soprattutto a Milano, “dove la condizione elettorale è assai diversa che altrove, assai pericolosa” (AcS).
Secondo “L’Italia del Popolo”, “l’ambasciatore di Crispi [cioè Pisani Dossi, N.d.A.] non sarà stato avaro di promesse e di allettamenti” (Ibidem) essenzialmente su questioni finanziarie. Infatti, un alto funzionario (firma non leggibile) del ministero di Grazia e Giustizia, in data Roma 8 aprile 1895, così scrive al commendator Giuseppe Pinelli, segretario capo della presidenza del Consiglio: “Come le ho promesso, ho subito riferito a S.E. il Ministro, circa le premure fatte dall’Esimio Cardinale Ferrari (Arcivescovo di Milano, ndr) per ottenere un aumento della somma concessagli a titolo di equo assegno sui frutti di vacanze della mensa arcivescovile di Milano” (AcS).
Crispi ipotizza, infatti, dopo le elezioni amministrative milanesi, un analogo appoggio dei cattolici nelle elezioni politiche. Ma si illude.
Perché i clerico-moderati milanesi non appoggiano Crispi alle politiche? Possiamo tentare alcune ipotesi:
a) probabilmente il “Dittatore” (così apostrofato dai repubblicani-federalisti) offre, nell’ipotizzato “voto di scambio” con i clerico-moderati, qualcosa di non completamente soddisfacente (forse l’elezione di un numero insufficiente di “cattolici deputati”);
b) contemporaneamente, fin dagli anni ’80 dell’Ottocento, almeno nelle amministrative del Centro-Nord, i clerico-moderati partecipano, da protagonisti, alle giunte municipali con i liberal-conservatori, occupando in particolar modo gli assessorati finanziari e, per il momento, i clerico-moderati sembrano accontentarsi dei soddisfacenti risultati amministrativi.
Crispi, apparentemente contraddittorio, rispetto alla missione di Carlo Pisani Dossi presso il Cardinale Ferrari, si reca, nel settembre 1895, al Gianicolo per l’inaugurazione del monumento a Giuseppe Garibaldi e, “di fronte ai sovrani e una grande folla, pronunciò un discorso dagli accesi toni antivaticani” (Vidotto 2006, 93-94). La “trasversalità” massonica oscilla tra il Cardinal Ferrari e Garibaldi.
Gustavo Chiesi scrive, in questo periodo, una serie di articoli su “L’Italia del Popolo” (con la firma “il Cisalpino”) in cui sostiene la necessità di un vero e proprio “Stato di Milano”.
La parola “Stato”, tra l’altro, era già stata usata da Chiesi come sinonimo di regione, cantone, compartimento. Lo stesso esponente repubblicano afferma: “nessuna espressione era più precisa per caratterizzare il significato del programma federalista”. Ossia, “l’indipendenza, la snodatura delle iniziative proprie […], le forze e i quattrini del paese servivano soprattutto per il paese, per il proprio paese, e non per mantenere una geldra di ministri imbroglioni e di giornalisti dello sbuffo”.
Ma lo “Stato di Milano” è un’“aspirazione”, non “una costituzione” rigida ed immodificabile. Uno stato ove la Lombardia è governata dai lombardi con “amministrazione e finanza casalinga, fatta di gente che conosce il paese” (Granata e Scalpelli 1998, 155). È anche un modo per i repubblicani-federalisti di “rileggere” la questione sociale, rispondendo, con maggiore efficacia, alla nuova sfida politica del socialismo riformista. Da parte sua, il Comitato elettorale repubblicano in vista delle elezioni amministrative del febbraio 1895, così si esprime: “C’è tutto da rifare, adunque, incominciando dal Comune, che è primo a risentire i danni della situazione attuale e che perciò i repubblicani vogliono indipendente dallo Stato, trasformando così il sistema disastrosamente accentratore e chiamandolo ad assurgere le forze, le attività popolari; le quali coi municipi e i consorzi regionali, potrebbero dare amministrazione casalinga ed economica” (AcS).
La “formula” di Gustavo Chiesi è, sostanzialmente, troppo forte e difficilmente spendibile in termini politici (anche perché nasce in ambiente giornalistico), ma presenta punti di raccordo con tutto il federalismo repubblicano. Dario Papa è, comunque, sempre pronto ad affermare come l’orizzonte repubblicano-federalista non solo deve “assicurare la massima libertà degli individui, ma significare anche la garanzia dell’unità nazionale e l’ordine sociale” (Tesoro 1996, 18).
Le forti critiche alla terminologia e alle idee di Gustavo Chiesi, da parte della democrazia radicale e dello stesso repubblicano De Andreis, appaiono corrispondere al mal digerito concetto di “Stato di Milano”, anche tra alcuni degli stessi repubblicani.
De Andreis parla di “concetto federalistico eccessivo” e, rispetto allo “Stato di Milano”, di “formula giornalisticamente disgraziata” (Scalpelli e Granata 1998, 150), aggiungendo, senza andare lontano dal vero, che tale formula “spaventava” il “partito moderato”.
In realtà la scuola federalista lombarda non parlerà mai di secessione o di “Italia in pillole”. Anzi, per i repubblicani lombardi “l’indipendenza delle regioni” avrebbe fatto scomparire “l’antagonismo regionale”.
La “Lega per la difesa della libertà”, definita da alcuni storici preambolo di tutta la nuova fase repubblicana, rappresenta la definitiva soluzione dell’antinomia tra repubblicani astensionisti e partecipazionisti. La Lega esprime l’opzione verso un’azione legale e parlamentare.
La “Lega per la difesa della libertà” riesce, perfino, a superare le difficoltà ideologiche e le obiezioni politiche di Turati, il quale anche se sottoposto a critiche dal suo stesso partito per la scelta di apparentamento con le forze popolari, comprende che si sarebbe potuti uscire dal “regime” crispino solamente allargando i varchi di legittimità politica (come sarebbe avvenuto con la successiva “svolta” Zanardelli-Giolitti).
Nell’aprile del 1895 (mentre i socialisti si riuniscono, clandestinamente, a Parma), i repubblicani milanesi ed i romagnoli si incontrano, ancora clandestinamente, a Milano, ponendo le basi politiche e culturali del “nuovo” Partito repubblicano, definito da Gaetano Salvemini “neo-repubblicano” (Granata e Scalpelli 1998, 121). In questa occasione, i romagnoli esprimono un forte apprezzamento per il ruolo de “L’Italia del Popolo”, “organo fedele dei repubblicani nelle lotte politiche quotidiane”, capace di combattere “sì degnamente e sì strenuamente per la causa comune” (Pri 1903).
Nelle elezioni politiche del maggio 1895, Crispi va incontro ad una cocente sconfitta a Milano, non ricevendo l’appoggio dei clerico-moderati.
I repubblicani De Andreis e Zavattari vengono eletti nel ballottaggio del 2 giugno 1895, grazie soprattutto alla confluenza dei voti socialisti e radicali.
Il ruolo dei repubblicani milanesi sarà sottolineato dalla decisione di far risiedere il Comitato centrale del Partito repubblicano nel capoluogo lombardo, guidato da De Andreis, Federici e Zavattari. Inoltre, veniva riconosciuto il ruolo de “L’Italia del Popolo”, il quale avrebbe dovuto aiutare “in ogni miglior modo il lavoro della consociazione romagnola” (Cecchini 1974, 25) nel consolidare le basi del nuovo partito.
Il programma del Pri, nel secondo congresso di Firenze (1897), ribadirà il Comune autonomo, “anello di congiunzione intermedio della regione” e “base e centro primo della organizzazione amministrativa, politica e tributaria dello Stato” (Ibidem, 29). Come dice Eugenio Chiesa: “riplasmare dunque il Comune per riplasmarne il cittadino” (Chiesa 1893, 22). Il peso della cultura federalista lombarda si sente anche nell’organizzazione della “forma-partito” sulla base delle sempre forti consociazioni regionali.
Con la morte di Dario Papa nel 1897 (lo stesso Turati ne riconosce il fascino e la forza) e l’ascesa politica di altri leader politici, la tradizione milanese e la cultura federalista sembra offuscata, nuovamente, dall’antico “ribellismo” romagnolo che, superato venti anni prima dal socialista Andrea Costa, viene temporaneamente rinverdito nel trapasso dalla leadership milanese a quella romagnola.
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