La fotografia post mortem

Mirko Orlando

Bene o male tutti conoscono il fenomeno della fotografia post mortem, tutti sanno di cosa si tratti (l’usanza di fotografare i defunti) e pressoché tutti ne conoscono l’origine vittoriana, se non altro perché prima del 1839 non era ancora nata la fotografia.

Nonostante ultimamente sembri essersi rinnovato l’interesse attorno alla pratica, ancora non sono stati chiariti gli snodi fondamentali della sua funzione e perciò resiste ancora, nella maggior parte dei casi, una certa infeconda confusione. Questo rinnovato interesse (percorribile principalmente attraverso i forum in rete) va inserito nel più vasto recupero del tema della morte e il morire riscontrato, negli ultimi anni, in vari settori di ricerca. Siamo lontani dal 1955, quando G. Gorer pubblicò il suo articolo The pornography of death in cui lamentava la moderna tabuizzazione del tema della morte, rimozione pari a quella della sfera sessuale in epoca vittoriana. Si legge nel suo articolo:

I processi naturali della corruzione e del decadimento del corpo sono diventati disgustosi, tanto quanto lo erano un secolo fa i processi naturali della nascita e della copulazione (Gorer, 1955).

Ma se sul piano della ricerca antropologica, quando non storica o sociale, e a partire dagli studi di Ariès, Vovelle, Gorer, Thomas, Remotti, Ross, Faeta e tanti altri, i toni del dibattito prendono forme precise e metodiche, per quel che concerne la fotografia post mortem sembrerebbe che non si riesca ad uscire dall’ordine dell’aneddotico o viceversa del grottesco, quando non dell’erroneo o dell’azzardo. Evidentemente, all’interno di questo recupero, a cui hanno aderito medici, antropologi, psicologi, sociologi e storici, ancora non si è dato il sostegno dei critici della fotografia realizzando, in qualche modo, l’esclusione di un importante punto di vista, quale appunto può essere il contributo che la fotografia offre ad ogni singola disciplina. La vastità del fenomeno, specialmente in epoca vittoriana e perciò al nascere della fotografia in generale, è fuori discussione, ma nonostante l’importanza economica e la vastità geografica rivestita, la critica è sembrata finora completamente sorda al suo richiamo. Importanti personaggi di spicco dell’èlite intellettuale sono stati fotografati sul letto di morte, e con loro una moltitudine di borghesi del tutto sconosciuti e ancora briganti, rivoluzionari e assassini, senza con questo attirare l’attenzione degli storici. Così, mentre tutti i manuali di fotografia che si rispettino la menzionano, contemporaneamente gli negano una più ampia attenzione storiografica che ad oggi appare invece necessaria. Se è vero che il pubblico dimostra il suo interesse invadendo la rete di domande e chiarimenti, è anche vero che privi di utili strumenti analitici, che dovrebbero esser loro forniti dagli specialisti, questi dibattiti rasentano il ridicolo contribuendo alla già disastrosa confusione che regna attorno a questo cerimoniale fotografico. Vero è che circuiti di più ampio respiro si sono talvolta dedicati al tema con maggior precisione, e in particolare nel caso degli studi portati a termine dall’antropologo J. Ruby, raccolti nel suo libro Secure the shadow, o dalla ricca iconografia presentata al pubblico dal medico S. Burns in un libro dal titolo Sleeping beauty, purtroppo entrambi inediti in Italia, ed il primo addirittura fuori commercio. Da questo grande vuoto storiografico dobbiamo far derivare affermazioni superficiali ed erronee di chi come M. Shinbununa (funeral director giapponese) crede la pratica sia di origine moderna, particolarmente in voga in Giappone, e che sia per di più irrispettosa dei defunti [cit. in Tg-com, 2006 ], o chi come S. Ferrari (1998) la ritiene inutile e fortunatamente scomparsa in epoca contemporanea.

Non soltanto la fotografia post mortem prese a diffondersi fin dall’alba dell’invenzione di Daguerre, diventando una delle fonti più redditizie di qualunque laboratorio fotografico, tanto da poter leggere in un’inserzione del 1854 apparsa in Humphrey journal:

Galleria di dagherrotipi in vendita – l’unica in una città di 20.000 abitanti e dove le fotografie di persone decedute pagano da sé tutte le spese (cit. in Ruby 1995, t.d.a.).

Ma pure non è affatto scomparsa, come dimostra lo stesso Ruby (1995) attraverso le sue ricerche:

Ho prove sufficienti per dire che la fotografia post mortem fa parte delle abitudini fotografiche degli americani contemporanei.

Ciò che probabilmente è venuto a mancare, è la stessa familiarità con la morte e il morire che giustifica, agli occhi dell’opinione pubblica, l’espressione di questo cerimoniale. Non è affatto in disuso la fotografia post mortem (ma di certo in declino rispetto al passato) ma lo è l’intera disponibilità della morte ai circuiti collettivi. Per questa ragione i ricercatori ne hanno erroneamente dedotto l’abbandono, perché ad essere stata abbandonata, al suo posto, è la volontà di condividere queste immagini, la loro pubblica esistenza. Fronteggiare apertamente il problema della mortalità umana non è mai stato facile, giacché questa sembra cancellare in noi qualsiasi traccia di un’individualità percepita necessaria, eppure in un modo o nell’altro chiunque è chiamato a farne i conti. Siamo soliti non pensarci, eppure sappiamo con assoluta certezza che un giorno o l’altro dovremo incontrarla: è una certezza e allo stesso tempo un mistero, l’evidenza più salda e l’enigma più profondo della nostra esistenza. Per questa ragione la s’intende, comunemente, non tanto in quanto completo annichilimento dell’Io quanto piuttosto nelle vesti di un necessario passaggio, una sorta di rinascita ad altri orizzonti, ma come rappresentare questa rinascita, come rappresentare la morte?

Queste immagini suggeriscono un primo radicale diniego della sua venuta, dal momento che i corpi esanimi ci sono presentati come se ancora possedessero un barlume di vita, magari colti in un sonno profondo ma non eterno, accolti in un letto che ristora ma non abbandona l’individuo al suo termine. Simulare il sonno era forse suggerito, all’epoca, dal semplice fatto che il moribondo, anziché trasportato in ospedali asettici e impersonali, come avviene oggi, lontano dal suo ambiente e dell’affetto dei cari, era riposto nel suo letto in attesa di un accadere ormai inevitabile e dunque da dover accettare. Qui, egli attendeva la sua morte e su questo stesso letto, accanto al quale i parenti avevano tanto pregato e pianto, veniva raccolto dal dispositivo fotografico. Mai, come in questi scatti, è stata così evidente la fratellanza tra Hypnos e Thanatos, quelle che possiamo definire le due principali figure dell’assenza e, del resto, questo accostamento ha il vantaggio di produrre un’immagine della morte più rassicurante, in qualche misura persino accogliente, capace di suggerire una fine indolore, auspicata, estatica. Ma non sempre il defunto è riposto nel suo letto, e non sempre è il sonno a coprire l’intervento della morte; talvolta è necessario riprenderlo come se ancora potesse parlare, sentire, amare, esattamente nei modi e nei termini che gli erano propri quanto questi era in vita. Per le vittime più piccole, ma talvolta anche per gli adulti, intervenire sulla superficie dell’immagine, attraverso abili tocchi di pennello, è un modo per rimediare al fin troppo perfezionismo del dagherrotipo, a quel realismo esasperato dei suoi prodotti che rischierebbe di registrare con troppa evidenza i segni della morte e della malattia. Così le gote si colorano di un roseo intenso a simulare il sangue che ancora scorre e scorrendo vivifica i corpi, o gli occhi, chiusi dall’ultimo sonno, ridipinti aperti e freschi di vita, espressivi come forse non lo erano mai stati. Che ci sia voluto l’intervento del pittore, o che l’effetto sia stato raggiunto mediante la sola tecnica fotografica, i risultati sono alle volte stupefacenti. In un annuncio del 1858 apparso sul “The photographic and fine art journal” si legge:

Ci è stato mostrato un dagherrotipo di una bambina […] e non ha la minima espressione di sofferenza e niente di orribile o rigido nel profilo o nei tratti, che di solito rendono le sembianze ritratte in malattia o dopo la morte, così dolorosamente rivoltanti e che le rendono decisamente non desiderabili. Invece, ha tutta la freschezza e la vivacità di una fotografia di un originale vivente – una dolce compostezza – lo sguardo sereno e felice dell’infanzia – anche gli occhi, per quanto incredibile possa sembrare, non sono senza espressione, ma così naturali che nessuno potrebbe pensare ad un ritratto eseguito postmortem (cit. in Burns 2002, t.d.a.).

Risultati così stupefacenti non dipendono soltanto dall’abilità del fotografo nel riprendere un determinato ambiente, giostrando sapientemente la luce e dosando i chiaroscuri secondo equilibrati rapporti tonali, ma anche da un vero e proprio lavoro di manipolazione della salma antecedente lo scatto. Una testimonianza ci è data addirittura da Disdéri, inventore delle carte da visite e che fu certo il più famoso fotografo-imprenditore dell’epoca:

Ci raccomandammo che gli venissero lasciati gli occhi aperti, lo ponemmo seduto vicino ad un tavolo e per operare dovemmo attendere sette o otto ore. In questo modo potemmo cogliere il momento in cui le contrazioni dell’agonia scomparvero, dandoci la possibilità di riprodurre un’apparenza di vita. È il solo modo di ottenere un ritratto soddisfacente che non ricordi alla persona a cui è caro quel momento così doloroso che l’ha separata da chi amava (cit. in Bolloch 2002, t.d.a.).

Sono proprio le tracce di questi tentativi di rimozione a suscitare il nostro interesse, nonché ricalcare la nostra distanza da immagini che per un verso ci appaiono il più delle volte terribilmente morbose. Si comprende bene l’esigenza di voler ricordare l’estinto attraverso la debita registrazione fotografica dei suoi tratti, dal momento che l’immagine, durevole nel tempo, colma i vuoti che la memoria inevitabilmente genera ma non ci è facile capire perché sia necessario immortalare un cadavere, perché, com’è prescritto dagli usi contemporanei, non preferire a questo una passata fotografia dell’individuo che lo ritragga ancora in vita, magari persino felice e spensierato, raggiante come vorremmo continuasse ad essere in eterno. Probabilmente, sostiene la critica, un siffatto precedente non era disponibile in tutte le famiglie, anche perché bisogna ricordare che nonostante la fotografia si sia diffusa abbastanza velocemente, posare per un fotografo restava comunque un’occasione tutta particolare e cioè un evento, e non come oggi una normale attività quotidiana. Bisognava uscire di casa, recarsi in uno studio fotografico, attendere il proprio turno, e a monte di tutto ciò prepararsi, agghindarsi, abbellirsi, affinché il dispositivo colga una volta per tutte l’effimera – quando non fasulla – bellezza dei propri tratti.

Questa teoria, largamente diffusa, spiegherebbe sia l’esigenza di ritrarre un cadavere, sia l’abbondanza di fotografie post mortem che abbiano per soggetto i bambini, dal momento che la giovane età, e l’imprevedibilità della loro morte, contribuivano al decrescere delle possibilità che ne preesistessero precedenti documentazioni fotografiche. Ma ciò nonostante, se l’ipotesi non è scorretta è quantomeno incompleta e incapace a giustificare pienamente l’ufficio di questi scatti. Sono troppe le fotografie post mortem di personaggi famosi di cui si conoscono una moltitudine di documenti precedenti, e troppe quelle di piccoli o medi borghesi, del tutto sconosciuti, di cui comunque si conservano scatti precedenti il loro decesso. Alcuni esemplari, giunti fino ai giorni nostri, propongono persino una coppia di scatti, di cui il primo ritrae il defunto poco prima della sua morte, e il secondo restituisce allo spettatore il suo profilo esanime. Come se non bastasse, nell’iconografia comune, l’intera scenografia è ricca di riferimenti alla morte quali fiori, orologi, clessidre, libri, che immediatamente rendono fittizia qualsiasi simulazione di vita. Perché dunque negare la morte e poi affermarla in ogni piccola componente dell’immagine?

È possibile che si tratti semplicemente di un diniego o questa pratica ha ragioni ben più profonde?

Il limite delle argomentazioni ad oggi esposte sta proprio nell’aver sottovalutato, se non ignorato completamente, il ruolo giocato dal cadavere all’interno dell’immaginario collettivo, in relazione alla morte, e in relazione all’immagine fotografica. Se si desidera ritrarre un cadavere, anche quando siano presenti precedenti documentazioni visive della persona venuta a mancare, allora è dal cadavere stesso che dobbiamo dipartire per comprendere il senso generale della fotografia post mortem.

Nonostante la cultura occidentale, a partire da Platone, Cartesio, i padri della Chiesa cattolica, fino alla moderna scienza medica, abbia sempre inteso il corpo in quanto oggetto inanimato, il cadavere sembrerebbe al contrario beneficiare di ben altra attenzione. In parte è stata proprio la sua osservazione a suggerirne la reificazione, poiché privo di vita un corpo appare ai suoi simili nella forma di un involucro privo di attività proprie, ma è però curioso notare quanto questa svalutazione venga meno nel momento stesso in cui un corpo diviene davvero cadavere. Qualcosa sembra restare nei suoi tessuti, qualcosa che rimandi alla sua anima; come un residuo della sua presenza o un rapporto di reciprocità stabilitosi con l’avvento della morte. Un aspetto interessante di questa corrispondenza è evidente nell’aikìa greca, oltraggio consistente nella sfigurazione dell’avversario al fine di disonorarlo. Scrive L. V. Thomas:

Sporcare o malmenare un corpo morto, ricoprirlo di polvere come fa Achille per disonorare la spoglia di Ettore, equivale a negarlo in quanto persona, a farlo morire una seconda volta e anche, secondo certe credenze, a privarlo di sopravvivenza (Thomas 1986).

Il corpo e la persona cui rimanda è disonorato in quanto indisponibile all’esecuzione di degni funerali, disonore di cui si fa carico il gruppo intero che non è stato capace di difenderlo o onorarlo attraverso riti funebri appropriati. Ma non basta, l’accento va posto su quella privazione di sopravvivenza che sembra suggerire un’originaria reciprocità tra smembramento del corpo e umiliazione dell’anima, come se gli interventi esercitati sulla salma si ripercuotessero sullo stato di salute dello spirito che un tempo l’animava. In questo senso il cadavere è sempre un doppio dell’anima, un suo residuo mondano, un vicario da custodire o distruggere per custodire o distruggere il suo stesso spirito. Questo è il motivo per cui ogni cultura si difende dai pericoli conseguenti uno spirito offeso, mediante riti funebri volti a garantire alla salma uno stato di soddisfazione, e cioè ad evitarne l’orrenda sfigurazione che naturalmente si da nella putrefazione.

Il cadavere fa paura perché i sintomi premonitori della distruzione della carne rimandano all’immagine terrificante dell’annientamento della persona e della disgregazione del gruppo (Thomas 1986).

Che il corpo venga cremato, inumato o imbalsamato, in ogni caso vien posto in una condizione di stabilità sorvegliabile dall’organismo sociale, che siano le ceneri, o la mummia, o le ossa, si è sempre in presenza di un corpo conosciuto, stabile, immutabile, e perciò capace di fronteggiare il potere annichilente della decomposizione (tanatomorfosi). In questo modo la cultura si riprende ciò che la natura, mediante la morte, tenta di sottrarre. Immortalare il cadavere, fissarne i tratti sulla superficie dell’immagine, è allora un modo per concedergli la sua necessaria stabilità, una sorta di mummificazione visiva da inserire in quel circuito simbolico che apre ogni pratica tanatometamorfica (trattamento delle spoglie). Se lo strumento fotografico permette una siffatta manipolazione, è perché fin da subito ha riportato in gioco i vecchi stilemi della rappresentazione arcaica, proponendosi come la prima immagine moderna che sia capace di esercitare un potere metonimico. Dice R. Castel:

Nei suoi usi più correnti, la fotografia sembra ritrovare e riattivare ciò che costituiva il nodo delle condotte magiche più arcaiche. L’immagine-talismano può avere la funzione di quei sostituti della persona (oggetti famigliari, effigi) che captano il timore e il desiderio, e sono i necessari supposti della coscienza di sé e della manipolazione degli altri. […] Si potrebbero moltiplicare gli esempi, attinti negli usi correnti della fotografia, di una sopravvalutazione dell’immagine, che culmina nei casi limite, come nel rapporto con l’amore e la morte. La fotografia sembra far funzionare ciò, che nel vocabolario della magia, si definisce una appartenenza. Sarebbe infatti la migliore appartenenza, perché fedele, completa, letterale. La natura dell’oggetto fotografico lo renderebbe allora immediatamente atto a connotare le aspirazioni misteriose dell’inconscio (Castel, 1965).

La fotografia post mortem va dunque intesa come una delle tante forme di manipolazione dei corpi, per questa ragione non possiamo circoscriverne l’ufficio all’interno della pur presente dimensione del ricordo a cui la critica ha sempre fatto riferimento. Non c’è alcun rapporto con la morte se non è posto in gioco il cadavere del defunto e perciò la sua esposizione ci richiama non già al recupero di una biografia individuale, al ricordo di una persona venuta a mancare, ma immediatamente alla sua attuale condizione di estinto, al suo nuovo statuto, alla presenza ingombrante e necessaria della morte all’interno di circuiti affettivi e socializzanti.

Bibliografia:

Bolloch J.

2002                Photographie après décès, in Héran.

Bourdieu P. (cur.)

1965                La fotografia: usi e funzioni sociali di un’arte media”, Rimini, Guaraldi.

Burns S.

2002                Sleeping beauty, Burns archive press, New York.

Castel. R.

1965                Immagini e fantasmi, in Bourdieu.

Ferrari S.

1998                La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura, Roma-Bari, Laterza.

Gorer G.

1955                The pornography of death, in “Encounter”, New York.

Héran E. (cur.)

2002                Le dernier portrait, Paris, Musée d’Orsay.

Orlando M.

2010                Ripartire dagli addii, Milano, MJM.

Ruby J.

1995                Secure the shadow, Massachusetts, MIT.

Thomas L.V.

1986                L’ambivalenza del rituale funebre, in “Zeta n.1” Bologna, Cappelli.