Annarita Gori
Lo scorso luglio, dopo soli tre anni, è stato ripubblicato da Donzelli, Garibaldi fu ferito con il nuovo sottotitolo Il mito, le favole di Mario Isnenghi. È l’autore, docente all’Università di Venezia e punto di riferimento per la storiografia sulle mitologie patriottiche, a spiegare il perché della riedizione del volume. Nella nuova e suggestiva introduzione egli scrive che a distanza di tre anni dal bicentenario garibaldino e a solo pochi mesi dalle Celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia la figura del Generale è quella che più ha tenuto nel panorama delle celebrazioni e delle pubblicazioni che si sono avute in occasione degli anniversari dei grandi personaggi e degli eventi del nostro risorgimento. A differenza di Mazzini e di Cavour i cui centenari sono rimasti confinati nelle cerchie di storici e appassionati, Garibaldi continua, nel bene e nel male, a far parlare di sé e a trascinare una serie di re-inneschi problematici che non di rado sfociano nella polemica. Per questi motivi, la ripubblicazione del libro è per Isnenghi un’opportunità per “riassumere e complicare il quadro delle implicazioni critiche della figura di Garibaldi e della eredità della sua figura nella successiva storia d’Italia […], per contribuire a venire a capo dei depositi di malevolenza e di rancore che si stanno disvelando contro di essa. Implicazioni che appaiono non di rado, ambivalenti”(p. XVIII).
Il volume ricostruisce le tante forme del mito di Garibaldi, le loro persistenze, i loro “itinerari e inneschi” lungo un arco cronologico che copre oltre un secolo. L’autore si propone di presentare il mito dell’eroe dei due mondi attraverso le diverse angolazioni di chi, durante gli anni, ha provato ad appropriarsene, e lo fa con una passione che in parte viene dal suo “mestiere di storico” e dall’altra da un particolare nesso tra pubblico e privato dovuto alla scoperta di avere una avo tra i Mille.
Il mito di Garibaldi trova il suo sostentamento in un misto tra memoria e affabulazione che l’autore chiama rammemorazione, un processo che implica “rinegoziare di continuo – anche con se stessi – i contenuti e il senso della memoria, e il quanto e il come delle reticenze e dell’oblio”(p. 5).
Questo meccanismo nel caso di Garibaldi ha due spinte, una proveniente dalla letteratura alta, l’altra dal basso, dai volontari che hanno deciso di seguire il Generale nelle sue campagne e che hanno contribuito a formare quella “letteratura garibaldina” che si presentava come la nuova forma del romanzo d’appendice ottocentesco. Tramite il ricorso a questi esempi Isnenghi sottolinea l’importanza che ha avuto Garibaldi nel suscitare passione politica e nel promuovere forme di aggregazione e di partecipazione politica in una popolazione che si sentiva fortemente esclusa dal nuovo Regno. Nei ricordi dei reduci, ma anche delle persone che hanno potuto assistere al suo passaggio, la figura del condottiero si staglia al di sopra della coralità dei combattenti e così ogni singolo racconto, ogni lapide, ogni targa contribuiscono ad alimentare la narrazione che si sta formando nella penisola e nella sempre più presente “segnatura del territorio”.
Ad incrementare questo mito nel corso dei decenni hanno contribuito anche i poeti vati dell’Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento, dalla “litania funebre insistita” di Carducci, alle rappresentazioni edulcorate e di mediazione del Pascoli, fino ai discorsi infiammanti di D’Annunzio, il quale sceglie per le sue campagne interventiste uno dei luoghi simbolo della mitologia garibaldina – lo scoglio di Quarto – nel quale mette in scena “qualcosa che va più in là di un discorso: un rito politico religioso-iniziatico che dà l’inizio ad un secondo Risorgimento della Patria e una nuova, simbolica, partenza per il mare aperto” (p. 124).
L’intento di Isnenghi, tuttavia, non è solo quello di narrare la rammemorazione positiva dell’eroe, ma è soprattutto quello di ricostruire le tante forme del mito garibaldino e le sue dinamiche conflittuali. Seguendo questa linea egli tesse una trama composta dalle voci del canto e dalle altrettanto numerose e contrapposte voci di un controcanto critico, in un continuo intreccio tra chi celebra il condottiero e chi dileggia “il mozzaorecchi”. È così ricostruito un coro a più voci dove trovano spazio le lodi degli stimatori e le parole aspre e di denigrazione dei suoi avversari politici del tempo come Cavour e La Farina. Un canto e un controcanto che l’autore segue nel lungo periodo fino ad arrivare al secondo dopoguerra. La figura di Garibaldi, nelle pagine del libro e nel processo di nazionalizzazione degli italiani, diventa sempre più importante e ingombrante ed è al centro di una battaglia politica e storiografica per la ridefinizione del mito che vede coinvolti i maggiori esponenti della politica post risorgimentale. Tra di essi spiccano gli ex garibaldini Depretis e Crispi che, rinnegando in parte il loro passato, si impegnano a costruire la mitologia del “rivoluzionario disciplinato” che obbedisce a Teano, e i radical democratici intenti a difendere la figura dell’eroe popolare che incarna valori e sentimenti di un’Italia che il risorgimento sabaudo non sa rappresentare.
Il gioco di specchi e di rimandi prosegue fino a raggiungere il XX secolo, e il mito garibaldino si veste di altri panni, quelli degli interventisti del maggio radioso, quelli dei socialisti – che contendono il generale ai repubblicani –, fino a divenire contemporaneamente fonte di ispirazione per le camice nere fasciste e per i volontari della Brigata Garibaldi nella guerra di Spagna. Infine, Isnenghi sottolinea il potere evocativo che Garibaldi riuscì a mantenere dopo il Ventennio sui giovani delle formazioni partigiane che adottarono il nome e il fazzoletto rosso durante la lotta di liberazione collegandola simbolicamente al risorgimento della patria, e l’utilizzo del suo volto da parte del Fronte Popolare nelle decisive elezioni del 1948.
Il Garibaldi di Isnenghi è però esso stesso un personaggio ricco di contraddizioni sospeso tra una dimensione pubblica e una privata che sono spesso in conflitto tra loro. Questo dualismo tra il rivoluzionario domato e il capopopolo delle barricate è affidato nel testo all’analisi delle opere letterarie di Garibaldi, dei suoi quattro romanzi scritti tra il 1848 e il 1872 e del Poema autobiografico che si nutre appunto “di un agonistico iato, di un energica prosopopea di vinto che non si piega e si arroga anche il diritto di giudicare e condannare i vincitori” (p. 71). In queste pagine scritte a Caprera, spazio-simbolo della “libertà della memoria”, emerge un Garibaldi rancoroso che mal si concilia con l’immagine del condottiero obbediente presente nella oleografia risorgimentale cucitagli addosso dalla nuova classe dirigente.
Ciò che emerge dal libro è dunque una ricostruzione di un mito dalle molte sfaccettature legato ad una figura che ha diviso e appassionato per oltre un secolo i protagonisti della politica italiana, e che si è dimostrata essa stessa ricca di contraddizioni e paradossi, sempre protesa tra osservanza e ribellione.