Francesco Silvestri
Forse, quando William Goldman nel suo serratissimo Il maratoneta fa dire al protagonista (guarda caso un dottorando di Storia, guarda caso impegnato in una ricerca sui pittori rinascimentali italiani) che “sapere tutto non è impossibile; solo, non è facile”, forse – dicevamo – aveva in mente Carlo Ginzburg.
Il dubbio, già legittimo, esce rafforzato dall’incontro organizzato dagli allievi Collegio superiore dell’Alma mater studiorum, dove tra citazioni e rimandi trasversali alle discipline storiche, all’antropologia, alla filosofia, alla letteratura, alla psicologia, Carlo Ginzburg ha risposto al fuoco di fila di domande che un pubblico appassionato, per lo più composto da studenti, gli ha rivolto sul significato e l’attualità della professione di storico.
Proveniente da una delle famiglie che più hanno dato alla cultura italiana del XX secolo, docente di Storia moderna all’Università di Bologna, ad Harvard, Yale e Princeton, nel corso degli anni Ottanta, al Warburg Institut di Londra e all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, prima di tenere tra il 1998 ed il 2006 il corso di Storia del Rinascimento italiano a Ucla, oggi titolare della cattedra di Storia delle Culture europee alla Normale di Pisa, accademico dell’Accademia delle Arti del disegno di Firenze e membro onorario dell’American Academy of Arts and Sciences, Carlo Ginzburg è senza dubbio una figura prominente della storiografia europea.
Proprio dai giganti della storiografia continentale – Bloch e Febvre in primis, ma anche il britannico Carr e Benedetto Croce – prende le mosse la riflessione di Ginzburg sul mestiere dello storico, visto non come chi si occupa del passato, bensì come qualcuno che pone al passato i quesiti utili a comprendere il presente.
È la riscoperta della tesi crociana secondo cui tutta la Storia è Storia contemporanea, ma arricchita di un ulteriore livello: il fatto che il passato diventa presente nel momento in cui ci si rivela. Nell’interrogare il passato per capire il presente, tuttavia, va considerato che i documenti non sono stati scritti per noi. C’è uno scarto tra il punto di vista dell’osservatore e quello dell’osservato di cui si deve essere consapevoli, uno iato che Pike, antropologo e missionario in Africa, ha illustrato attraverso la distinzione tra (phon)etic, il suono come raccolto dall’ascoltatore, e (phon)emic, il suono pronunciato dall’intervistato: lo storico parte sempre da domande etic, che mettono in campo il proprio punto di vista, ma raccoglie risposte emic. Si viene così a creare un flusso bidirezionale dall’uno all’altro, che lo storico deve saper padroneggiare; viceversa, scade nel “ventiloquismo”, in quella deprecabile tendenza, già denunciata da Tacito (“Fingunt simul creduntque”), a credere vero quanto lui stesso ha plasmato.
Lo storico non riesce sempre a sfuggire a questa tentazione. Ne è un esempio Michel Foucault (“pas historien”, come ebbe il vezzo di autodefinirsi in uno dei tanti episodi citati da Ginzburg nelle due ore dell’incontro), sempre pronto ad abusare della propria brillantezza per imporre il punto di vista dell’osservatore. Ma ne è un esempio opposto Karl Polanyi, che introduce allo scopo ne La Grande Trasformazione (“uno dei più bei libri di storia del XX secolo”, nelle parole dello stesso Ginzburg) la tecnica della “defamiliarizzazione”, del guardare alle cose come se fossero opache, con il distacco che aiuta a capire.
Ciò non significa avere la velleità di essere oggettivi, poiché nel momento stesso in cui pone le domande lo storico fa esercizio di soggettività. L’oggettività in sé non esiste, ma vi si può tendere lasciando alle proprie tesi lo spazio per essere confutate, provvisorie, “revocabili in linea di principio”. Scopo del ricercatore non è, in questo senso, scoprire la verità, ma spostare l’onere della prova su chi è contrario. Una prova che, prima o poi, sarà trovata, tanto che “il destino dello storico è forzatamente diventare obsoleti”.
Cercare nel passato le risposte al presente significa avere fiducia nella Storia come maestra di vita? Bisogna intendersi sui termini. Carr ricorda che i bolscevichi guardarono alla Rivoluzione francese come modello storico di ciò che stavano vivendo per comprendere cosa sarebbe accaduto, e seguendo la lezione della Storia identificarono il novello Napoleone in Trotskij, il leader carismatico alla guida dell’Armata rossa; ma la realtà ha deviato su un esito che nessuno poteva prevedere, l’ascesa del grigio quanto sanguinario burocrate come uomo del destino. Questo a significare che la Storia probabilmente è maestra nell’insegnare le domande da porre, piuttosto che nell’indicare le risposte che stiamo cercando.
Un altro problema fondamentale del mestiere dello storico è il rapporto con i documenti. Lo storico svolge a miglior titolo il proprio ruolo cercando tanti documenti o trattandone pochi? La storiografia dell’antichità è stata un laboratorio straordinario di idee, metodi e modelli, perché ha sempre dovuto confrontarsi con testimonianze limitate; oggi, si è soffocati dalle fonti e il ruolo dello storico si è per certi versi rovesciato: non la ricerca di nuovi documenti, ma la loro selezione ad una massa padroneggiabile.
Lo storico ha bisogno di un pubblico, chiunque vuole parlare agli altri e non a se stesso. Ci si può rivolgere all’Accademia o a un pubblico ampio, l’importante è non scadere nella banalizzazione, nella scorciatoia. A ben vedere, ciò che appassiona della Storia è la stessa cosa che appassiona dell’Archeologia, cioè lo scavare! I non specialisti si appassionano facendo vedere loro attraverso quali strade si è giunti ai risultati, perché come dice Griaule “Il metodo è la strada dopo che la si è percorsa”. (E qui, non può che tornare alla mente una delle più affascinanti opere di Carlo Ginzburg, quella Indagini su Piero in cui la ricostruzione delle vicende storiche rappresentate da Piero della Francesca in una serie di dipinti, in particolare nella Flagellazione di Urbino, tiene incollato il lettore, lo specialista come il profano, fino al disvelamento dell’ultimo particolare). Va sfatato il luogo comune secondo cui la Storia, campo del ricercatore scientifico, è fredda, mentre la memoria, campo del narratore, è calda; si tratta in realtà di due prospettive diverse, legate ma distinte, che si autoalimentano.
Il mondo sarebbe migliore se gli storici si facessero classe dirigente? Certamente no. Viviamo nel mondo della specializzazione, è bene che ognuno faccia al meglio ciò che sa fare, evitando di credersi al centro del mondo come individuo o come categoria. Il limite che si avverte oggi è che il personale politico emerge da un bacino caratterizzato da mediocrità ed incompetenza, un aspetto che si riflette forzatamente sulla qualità delle politiche.
E le domande sarebbero ancora molte, se qualcuno non facesse notare che è stato superato il limite di tempo previsto dell’incontro. Un incontro che probabilmente lascia molti dei presenti con una convinzione: alla fine ciò che non può e non deve mancare nel mestiere dello storico sono la passione ed il calore umano.