Gaetano Brussi Entusiasmi ed inquietudini dei volontari alla Cattolica

1281_1 1281_2Il vecchio edificio tarlato cadrà presto da sé. Veduto adunque che nulla poteva compiersi localmente, pregai l’amico carissimo Fabio Bellenghi a condurmi in Toscana col suo cavallo, perché intendevo arrolarmi fra i volontari. Io avea già fatto con mia moglie e coi miei figli e la famiglia de’ miei parenti le mie dichiarazioni e dato l’addio. Mia moglie che da tre giorni avea dato alla luce il secondo figlio, cui ponemmo il nome d’Italo, mi venne ad accompagnare fino altre un chilometro e non volli che venisse più oltre, fresca com’era di parto. La poverina! Mi abbracciò e mi disse: “Abbiti riguardo: e scrivi, quando puoi”.

Mio suocero venne ad accompagnarmi fino a Genova, ove mi presentai in Questura esibendo, secondo le discipline Sarde, la dichiarazione di mia moglie pel mio passaggio all’estero, perché la Toscana allora era ancora estero.

Il Questore mi chiese se andavo ad arrolarmi. Risposi affermativamente. Allora mi replicò che gli facessi analoga dichiarazione perché mi avrebbe dato i mezzi d’imbarco per Livorno. Lo ringraziai e non volli fare dichiarazione quasi che io mi obbligassi per poche lire a fare il soldato. Mi imbarcai, per economia stando sopra coperta, perché a quattrini ero corto, avendo dovuto lasciare il mantenimento alla mia famiglia, e il denaro occorrente per la balia del bambino, poiché la madre non poteva allattarlo. E con lire 65 mensili sole1 che ricevevo pel mio assegno non c’era da scialare.

C’era qualcuno che in emigrazione ottenea sussidi dal Comitato, ma io aveva la mia aristocrazia, quella di non fare la figura da pezzente accontentandomi piuttosto di mangiare per vivere, come si poteva. Mi pareva d’essere un principe quando la mia mente mi diceva “nulla devi a nessuno”. Mio padre, che avea alto sentire, ci aveva ben inculcato questi principi “Non fate debiti – Non mentite mai – Siate mantenitori della parola a qualunque costo”.

Arrivato a Firenze coll’amico Fabio trovai la famiglia de’ miei cugini, e il Generale Roselli, che mi offerse un posto di Uditore Militare nella Divisione, che era incaricato di organizzare. Lo ringraziai, ma non accettai: mi piaceva di fare il soldato senza noje, e per me il soldato semplice è più generale del Generale. Avendo saputo che il mio compagno di casa e di cuore, il Conte Angelo Pichi organizzava un Reggimento a Pontassieve corsi a lui e m’arrolai nel Reggimento III°, Divisione Mezzacapo – Reggimento che poi prese il N° 23 e da ultimo il N° 43, Brigata Forlì* [* A pag. 180 dei miei Ricordi (In questo testo stessa pagina. N.d.c.) ho accennato al mio caro Reggimento ed alla Brigata Forlì, di cui quello faceva parte. Ora qui mi è caro di applicare la Cartolina che mi fu favorita dall’Egregio Colonnello Cav. E. Gambino; e per grata memoria di detto Corpo, e cui ebbi l’onore di appartenere. (Come già detto la copia delle “Memorie” conservata da Piero Zama non contiene allegati. N.d.c.)].

Lo ricordo sempre il mio Reggimento, ove tanti egregi giovani, specialmente Veneti, militavano. Che bella Divisione era la nostra! Quanto ardore in quella miscellanea di dialetti, di buon’umore; e in quella unanimità di propositi concordi nell’amore della patria indipendenza!!

Presto il Reggimento sotto l’abile direzione dell’amato Colonnello fu organizzato e così la Divisione. Avemmo l’ordine di marciare per Mantova. A Empoli, ove giungemmo sotto una pioggia torrenziale facemmo sosta per alcuni giorni, in uno dei quali vidi lo storico volo dell’asino, memoria d’antichi dissidi e lotte fraterne. E col povero asino volarono pure le balde nostre speranze.

Un telegramma di Cavour “Coprite Bologna” ci obbligò a passare gli Appennini a marcia forzata. Le truppe papali, o, per dir meglio, i residui delle truppe papali, perché molti di quei militi avevano disertato per dividere con noi le sorti della campagna minacciavano le Romagne e Bologna. Quindi la celerità della marcia pel caldo enorme ebbe le sue vittime; otto soldati morti asfissiati, perché arsi dalla sete si gittavano sulle pozzanghere a bere l’acqua limacciosa fino a morirne.

Truppe novelle non avevano ancora l’abitudini del soldato fatto, e spesso sfuggivano alla vigilanza dei capi, che pure davano l’esempio dell’abnegazione e della disciplina. Entrammo in Bologna verso le dieci del mattino, dopo due giorni di marcia e quantunque si marciasse senza tende e senza cappotto, in giubba di fatica, il sudore avea intrisi i vestiari, talché sembravamo d’avere traversato un fiume coll’acqua fino al collo. Quivi restammo pochi giorni: indi movemmo pei confini attraversando le Romagne, ove le accoglienze non furono meno cordiali che quelle di Bologna. Ognuno si credeva fortunato, se poteva sequestrare nelle fermate qualche soldato per condurlo a colazione, per dargli ristoro. Quando cominciai a vedere i campanili di Faenza io mi sentiva battere il cuore come al primo colloquio colla donna che si ama. Le strade erano gremite di popolazione per vari chilometri. Gli abbracci, i baci si alternavano. I magistrati civili e governativi veniano ad incontrarci e le musiche erano spesso soprafatte dagli Evviva all’Italia e al Re. Oh che splendidi giorni! Il nostro era un trionfo non meritato: non avevamo sparato una cartuccia, avevamo bestemmiato solo all’annunzio della sospensione d’armi ricevuto in marcia.

E davvero ci volle tutta l’autorità dei nostri cari ufficiali perché non avvenisse il peggio.

Ero vicino alla porta Imolese e mi sentii tirare per la giubba e volgendomi vidi Giovanetto Camprini, il nostro vetturino, che colle lacrime agli occhi baciandomi mi disse: “Alfine l’ho riveduto!!” Fra i suoi spropositi che cuore avea quell’egregio popolano!

Dopo breve sosta movemmo per Rimini, ove venne a trovarmi mio fratello, mia cognata2 ed altri amici3.

È inutile che io dica se nella nostra fermata a Faenza io fossi lieto riabbracciare l’amata famiglia. Ricordai a mio padre che, poveretto! era stato colpito d’apoplesia, le parole che gli dissi fuggendo da Faenza: “Al ritorno mi vedrà col fucile in ispalla”. Ed egli rammentandosene mi replicò: “Non desidero altro che sia finito una buona volta il governo che ci ha fatto tanto penare!”

Egli era talmente stimato come uomo giusto e italiano che nel 1831 ospitò nostro cugino Annibale Metelli di Brisighella compromesso nella rivoluzione di quell’anno, cercato dovunque dalla polizia papalina4. Uno dei capi del movimento in Faenza che poi per mene clericali diventò nemico di mio padre, gli avea confidato tutto il piano dell’insurrezione e molti segreti assai compromettenti, ma nostro padre non solo mantenne fede a quel Signore, ma giammai, finché visse, neppure a noi disse verbo delle ricevute confidenze.

Come ho accennato, a Rimini fummo colmati di cortesie. Il mio compagno di Collegio Girolamo Leopardi e tutta la sua famiglia mi usò tanta cordialità che a stento talvolta potei sottrarmi alla loro amabilità.

Per far conoscere qual’era lo spirito patriotico dei soldati desidero raccontare un aneddoto avvenuto nella nostra guarnigione. Noi avevamo per confine territoriale un punto vicino a Cattolica, ove era una squadra di 25 gendarmi papalini. Una notte un sergente Piemontese che con quattro soldati e un trombettiere faceva la ronda sui nostri avamposti disse ai suoi uomini:

“Siete voi disposti a seguirmi fino a Cattolica e a mantenere il segreto sulla nostra escursione?” Naturalmente tutti aderirono e giurarono che ad anima viva non avrebbero rivelato né la gita, né altro.

Allora egli soggiunse: “Noi dobbiamo andare a cenare a Cattolica e spaventare i gendarmi del papa e farli chiudere nella loro Caserma”.

“Sta benissimo – risposero i soldati – l’idea è buona e l’appetito non manca”.

Mossero quindi per Cattolica e quando furono vicini alla Caserma il Sergente gridò: “bersaglieri avanti” e la tromba dava il relativo segnale. I gendarmi credendo d’essere sorpresi si chiusero in Caserma e vi si barricarono, e la squadra s’avviò alla prima Osteria, mangiò tranquillamente e, poi pagato lo scotto, disse all’oste che era amico e che si smascellava dalle risa per lo stratagemma del Sergente e per la vigliaccheria dei gendarmi:

“Quando saremo partiti, dopo mezz’ora, per non essere compromesso con questi cani anderai a dir loro quanti eravamo, che abbiamo voluto cenare nella tua osteria e che già eravamo partiti lasciando a loro il nome di vigliacchi. Bada però – disse il Sergente – se qualcuno dei nostri verrà qui a chiederti informazioni e i nostri connotati, dirai a rovescio di ciò che è: e un giorno, anzi presto ti compenseremo meglio”.

E lasciandogli uno scudo di mancia se ne tornarono al campo senza che la loro assenza fosse notata. La mattina però giunse rapporto dello sconfinamento dei nostri da parte della Gendarmeria e dell’Autorità pontificia di Cattolica. Il Colonnello Pichi, che era furibondo in apparenza pel fatto, a me che gli servia da Segretario dopo aver letto il Rapporto, lo passò dicendomi: “Leggi quel che san fare i tuoi compagni”.

Io lessi più seriamente che poteva il rapporto, poi non mostrandomi punto scandalizzato feci nascere in lui, mio malgrado, il sospetto che io ne sapessi qualche cosa. Naturalmente io non volea dir nulla ed egli maggiormente insisteva. E siccome io conoscevo molto bene il suo carattere e l’uomo d’onore che egli era, gli dissi: “Se tu mi prometti sulla tua parola d’onore di non prendere alcuna misura sui colpevoli bravi, e di non riferir nulla al Generale, io ti dirò tutto”.

Ne ero stato informato dallo stesso autore che mi conosceva bene e che sapendomi intimo del Colonnello, sapeva che potevo scongiurare la tempesta delle punizioni.

Gli raccontai tutto. Egli taceva e si animava: alfine, poiché era valoroso e dei valorosi ammiratore, mi disse: “Come Comandante disapprovo, come Pichi lodo. Terrò conto del Sergente e degli altri”.

E il conto lo tenne, perché lo propose poco dopo ufficiale e gli altri pure sotto-ufficiali e caporali. Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, soggiunse: “Oh se potessi condurre al fuoco questi miei figlioli: sono certo che sarebbero tanti leoni ed io crederei d’aver vissuto abbastanza”.

Era un cuore impareggiabile.

Alla delicatezza del sentimento, all’educazione squisita, alla prodezza, all’incrollabile fede nella libertà, al coraggio indomabile nelle sventure (era un avanzo delle carceri del 1821-31-48-49) appariva ed era un Cavaliere antico e poteva dirsi anche di lui “senza macchia e senza paura”.

La vita di guarnigione non è fatta pei volontari. L’inazione li snerva e li rende meno disposti alla disciplina. Poi nei volontari dell’epoca, di cui parlo, non erano pochi delle provincie di Romagna, nelle quali il lievito della cospirazione fermentava tuttora. Dunque la noja della Caserma faceva pensare alla politica e infervorava a compiere la facile impresa di passare il Rubicone. In una sera pertanto una numerosissima riunione di Sergenti dei diversi Corpi ebbe luogo in un’Osteria, a porte chiuse, alla quale non mancarono giovani ufficiali che tali erano i più non per seguitare la carriera ma per compiere l’unità italiana. Si cominciò a parlare di ciò che potesse farsi per liberare i nostri concittadini dei luoghi tuttora soggetti alla dominazione papale e fu concluso che si movessero i Sergenti, i soldati pure li avrebbero seguiti e parecchi ufficiali altresì, che noi conoscevamo i ferventi patrioti e, più del grado, amanti della libertà dei loro fratelli. Io aderendo cogli altri tutti al progettato movimento, ebbi pure l’incarico d’esplorare l’animo del mio Colonnello, a cui poteva confidare un segreto. Non sono forte in diplomazia ed amo parlare delle cose a cuor’aperto. Presi il Colonnello a quattr’occhi e fattomi promettere che quello che io ero per manifestargli, sarebbe rimasto sotto suggello gli feci il caso:

“Se i tuoi soldati ed anche qualche ufficiale una bella notte senza strepito si mettessero in movimento pel confine, e così facessero anche i soldati d’altri Reggimenti, cosa diresti, cosa faresti? S’intende bene che quel che dirai a me starà chiuso e sepolto nell’animo mio”.

Fece un balzo dalla sedia e mi piantò due occhi furibondi in viso, che io quasi mi pentii d’aver parlato. Ma egli mi soggiunse: “Ripeti un po’ quello che hai detto”.

Replicai chiaramente ciò che si pensava da noi, i nostri progetti, a cui avrebbe pure corrisposto la Divisione Roselli, che era vicina e dove gli elementi romagnoli eran in grandissima maggioranza. Mi rispose: “Se il mio Reggimento partisse il suo Colonnello non abbandonerebbe il Reggimento”.

“Bravo il mio amico”. Gli gridai col cuore commosso.

“Però giudizio, miei camerati. Se la cosa si scopre potrebbe finir male. Vi dice Pichi, che siete in troppi a desiderare: e temo che le vostre rose non fioriranno. Abbiate prudenza: io non so nulla”.

Aveva ragione egli. Il lavorio non poteva occultarsi. E difatti il Comando Generale subodorò la cosa; o fuvvi qualche ciarlone od entusiasta che svelò il progetto: (non voglio fare altre ipotesi). Una mattina, un ordine del giorno dislocava tutti i Reggimenti, uno a Ferrara, l’altro a Bologna e gli altri due erano frazionati nell’altre città meno prossime al confine. Molti quindi cominciarono a chiedere il congedo e se ne tornavano alle case loro, specialmente i romagnoli: e così la Divisione, che contava 12 mila volontari, un Battaglione Bersaglieri, poca cavalleria e pochi pezzi d’artiglieria rimase scheletrita … e noi anche questa volta mortificati, avviliti* [* Seppi da buona fonte che se il Generale Luigi Mezzacapo, che comandava la nostra Divisione, avesse passato il Rubicone, Cavour ne sarebbe stato arci-contento. Ma il militarismo prevalse sul patriottismo. Naturalmente Cavour non poteva dare né ordini, né consigli di tal fatta per ragioni diplomatiche. I soldatini della Divisione intuivano più rettamente del Generale !! Pazienza!].

Deputato all’Assemblea Costituente delle Romagne

Roma 4 maggio 1894

A Bologna il R. Commissario Faliçon5, in seguito agli ammennicoli diplomatici, dovette lasciare il governo di Bologna: ogni città si reggeva con una Giunta di governo; ma in tutti il concetto dell’unione padronizzava. Cipriani Lionetto ci fu dato per Governatore.

Per noi tutto era buono, quando ci venia dal Piemonte.

Furono indetti i Comizi elettorali per eleggere i Deputati all’Assemblea costituente che sarebbesi riunita in Bologna, la quale dovea sanzionare la decadenza del Papa-Re, l’annessione delle nostre provincie. Dico sanzionare, perché era già un fatto politico compiuto la decadenza papalina e l’annessione era già moralmente fatta: non mancavano che le firme per l’uno e per l’altro. Il mio paese mi onorò della sua rappresentanza e il mio vecchio amico il Colonnello portò il nome del suo Sergente all’ordine del giorno della Brigata, che egli allora comandava. Se ricordo questo mandato d’onore, lo ricordo per riconoscenza al paese natio, perché l’ebbi veramente senza che ci pensassi, e per pura deferenza cittadina.

Prima di partire per Bologna il mio Colonnello Brigadiere Conte Pichi mi presentò, d’ordine del Generale, al Comando Divisionale. Fui ricevuto con distinzione; e il Generale mi pregò d’interessarmi per la Divisione, a cui io avea appartenuto, alla quale voleasi dare un colpo fatale, riducendola a Brigata, atteso l’assotigliamento della forza per i congedi dati. Mi disse che m’avrebbe al caso forniti tutti i dati che mi potessero occorrere per sostenere l’integrità del Corpo. Mi congedò stringendomi la mano.

Seppi veramente che per antagonismo fra il Generale Pinelli allora Gerente dell’Armi nel Governo di Bologna e Mezzacapo, il primo volea eliminare dal Comando il secondo. Ma questi non avea bisogno di molte raccomandazioni a me, perché io difendessi la Divisione, a cui era affezionato e devoto. Difatti appena giunto a Bologna, vestito del mio cappotto di Sergente mi presentai al Generale Pinelli, che mi accolse con un rabbuffo solenne, perché mi fossi a lui presentato senza le formalità del Regolamento militare, che io conosceva. Non mi perdei d’animo e lo lasciai dire finché volle e poscia gli risposi che conoscevo bene le disposizioni di disciplina riguardo alle presentazioni dei subalterni di bassa forza, ma che non erami imposto d’osservarle dacchè venia a conferire con lui non già nella qualità di Sergente, ma come deputato dell’Assemblea delle Romagne, alla quale, essendo Sergente nella Divisione Mezzacapo, era stato mandato da’ miei concittadini. Allora mutò tono e maniere: mi fece sedere e mi disse che era pronto e lieto d’ascoltarmi. Feci allora un po’ di politica elementare, di quella diplomazia tanto ostica al mio carattere e gli dissi:

“Ho sentito che vuolsi sciogliere la Divisione Mezzacapo, per la diminuzione della forza verificatasi pei congedamenti. A Lei, che è novo delle nostre provincie, dirò, che, ove il governo pensasse sul serio a tale misura, non io solo, ma la maggior parte dei deputati romagnoli vi si opporrebbero persuasi essere un passo falso un atto di tal natura di fronte poi alla vicinanza di una truppa nemica, che si crede in diritto sempre d’invadere le provincie, che dice sue e che noi vogliamo mantenere nostre per unirle all’altre, ove sventola la bandiera di Savoja. Ciò Ella vedrà presto, poiché sarà questo uno dei nostri primi atti. Mi permetto anche di farle osservare che, se vi fosse imminente minaccie d’invasione pontificia, quell’elemento congedato dalla Divisione suddetta accorrerebbe tosto sotto quelle bandiere, ove per mesi ha ricevuta l’istruzione militare e serba cari legami di fratellanza”.

Il Pinelli (debbo dirlo) che era violento tanto, che pensando a lui mi tornava alla mente il nomignolo di Bombarda, che dai frati si applicava al Fanfulla, avea però rettitudine e idee giuste specialmente il mattino. Mi rispose adunque da leale soldato:

“Io ho avuto piacere d’essere informato da lei su questo punto: e, siccome sono in questo ufficio per giovare al paese, a cui servo con affetto, io non intendo far cosa che possa nuocere, tanto più quando sono illuminato da uomini del paese, che amano la patria al pari di me. Le do quindi la mia parola d’onore che non toccherò la Divisione”.

Lo ringraziai aggiungendo che veramente ero stato mosso a parlargli di questo argomento solo per l’interesse generale, poiché io non appartenevo più alla Divisione, quantunque portassi ancora l’uniforme, e quindi nessun impegno mi obbligava, tranne il pubblico bene.

Mi strinse la mano: e me ne partii scrivendo subito al buon’amico Pichi il colloquio, perché ne informasse chi credeva.

Come ognun sa dai documenti ufficiali, che furono pubblicati, l’Assemblea decretò ad unanimità, l’abolizione del potere temporale del Papa6, l’annessione delle provincie dell’Emilia al regno di V.E.7 e nominò a governatore generale Lionetto Cipriani8, non ad unanimità, dacché il Principe di Carignano9 non accettò, per esigenze diplomatiche, il governo.

Le popolazioni soddisfatte, che i propri rappresentanti avessero interpretato i propri sentimenti, si mantenevano fidenti ed ordinate; e quantunque avvezze allo governo papale e d’ozii non facilmente dimenticabili pasciute davano esempio all’Europa del loro senno tanto che un osservatore spassionato ebbe a dire che erano cambiati i caratteri, o il governo civile li avea temperati. Tornato, dopo le sedute dell’Assemblea, in Faenza, Commissario della Società Nazionale e intento cogli altri amici a mantenere negli animi le buone tendenze sviluppate dall’alito ristoratore della libertà, promossi una riunione cittadina che si tenne in una sala del Comune per giovare al consolidamento di quella concordia che era il mezzo più efficace per compiere il programma nazionale. Se nonché ben presto dovemmo accorgerci che i nostri intenti erano da estranee influenze insidiati. Quello che volle tentarsi in Toscana da noti personaggi poco curanti dell’unità nazionale, d’istituire cioè un Regno d’Etruria a beneficio di Girolamo Napoleone, (progetto sventato dal fiero Barone Ricasoli governatore di quelle provincie) si cercò pure di tentare nelle Romagne, che, secondo i calcoli dei manipolatori francesi, dovevano, in caso, aggregarsi al regno progettato. Agenti vennero spediti nelle nostre provincie che con promesse d’onori e d’oro studiavansi di allettare uomini influenti al premeditato disegno, a cui non erano avversi gli uomini di poca o dubbia fede politica, che nel regno dei preti e delle tirannidi straniere eransi acconciati all’andazzo ordinario. Costoro che non furono mai molestati, sotto il mal governo ed erano soddisfatti dei loro ozii e delle agevolezze conseguite, speravano nel nuovo regno favori e prevalenze personali e la depressione di quell’elemento patriotico che avea cooperato all’indipendenza nazionale e che ai loro occhi era come un rimprovero della vita loro neghittosa ed apatica. Questi adunque erano gli ausiliari delle mene e dei faccendieri anti-unitari. Avevano anche mezzi d’influenza per circuire le Autorità o per nascondere od alterare il senso politico del paese. Quindi capaci d’intrigo s’affaticavano a designare come pericolosi gli uomini che godevano della pubblica fiducia, a dipingerli come rivoluzionari, come repubblicani.

Di queste basse arti potei presto rivelare l’azione, perocchè venuto a Faenza il governatore della provincia Ravenna – il marchese di Rorà, gentiluomo retto, ma nuovo all’ambiente dei nostri luoghi, tenne con me un discorso che mi sorprese, nel quale raccomandava la calma (e maggiore essere non poteva) e m’offriva gradi nell’esercito, per togliermi dalla scena locale, forse perché egli era ingannato sui miei principi o riteneva che l’ambizione potesse adescarmi. Risposi che lo ringraziavo e che volevo rimanere in paese e che desideri di onori non mi solleticavano. Né mie soltanto, ma di tutti gli amici queste sfavorevoli impressioni, che proprio ci amareggiavano l’animo. Ci mettemmo quindi in guardia: e scorgendo la poca fiducia, di cui ci onorava il Capo del governo della provincia, che non volea credere alle nostre dichiarazioni sulle mene di Napoleone, credendole invece nostre illusioni o sospetti mal fondati credemmo nostro dovere informarne il Conte di Cavour con un memoriale che da me fu redatto e firmato da Lodovico Caldesi e da altri deputati. Il Conte, che avea l’occhio desto a tutto, e che forse per altre vie era stato messo sull’avviso degli intrighi stranieri telegrafò all’Autorità Provinciale in proposito ed ordinò al governatore Rorà di recarsi tosto a Faenza e di conferire coi Deputati che sapeva influenti dando loro visione del dispaccio, e interessandoli a sventare le macchinazioni intraprese10. In questo incontro il Sig. Rorà avea mutato contegno a nostro riguardo: e presomi in disparte mi strinse la mano dichiarandomi che il preavviso dato da me essendo confermato autorevolmente non potea che ringraziare i deputati della loro vigilanza sugli interessi del paese, e che contava su noi specialmente e sul nostro patriotismo pregandoci a segnalargli per mezzo dell’Intendente di Faenza le notizie che potevano meritare l’attenzione politica del governo.

Si venne poi a conoscere che intanto si erano preparate liste di proscrizione a danno di coloro che più energicamente mostravansi avversi ai conati separatisti, e che in Faenza specialmente e in altre città più importanti, come Bologna, si designavano coloro che erano presi di mira dal capo di polizia, che non era romagnolo e che era venduto alla combriccola napoleonica11. Non dirò il nome né il luogo di costui. Egli è certo, come lo dimostrarono fatti postumi, che dell’oro era avido, tanto che a questo il dovere, la patria, l’onore subordinava. In Faenza poi uno degli Agenti di polizia, non delle provincie nostre, per spavalderia e per ignoranza dei nostri costumi, dei sentimenti, che prevalevano in noi, nel Caffè, Calzi allora, parlando con alcuni a voce alta attaccava i deputati dicendoli vecchi cospiratori repubblicani, recitanti ora la commedia per Casa Savoja. Io stesso sentii codesto energumeno tenere tali parlari, e, per non rompergli il muso, e non dare esempio di rappresaglie, me ne uscii dal Caffè guardandolo bene in viso.

Inaspriva specialmente gli animi il sentirci dire che eravamo stati conquistati dal Piemonte, senza il quale noi saremmo ancora i servi dei preti! Il divulgarsi di tali dicerie ingiuriose non meno che ingiuste generò tal’ira che, come era facile prevedere, alcuni popolani male disposti alla tolleranza e reputandosi vili, se non riducevano il provocatore a tacere, l’appostarono nel suo viaggio da Faenza a Lugo per vendicarsi.

Noi che fummo sempre avversi alle violenze, saputa la cosa, usammo tutti i mezzi della persuasione per impedire l’aggressione scongiurando gli uomini, che avevano più intime relazioni coi vendicatori, ad intromettersi, perché con un fatto atroce non si disonorasse il paese e Faenza non fosse la prima città di Romagna che venisse meno al credito di paese patriotico e civile. Promettemmo altresì che dal canto nostro ci saremmo adoperati perché il burbanzoso ed incauto Agente fosse allontanato. Fui quindi incaricato io stesso di recarmi a Modena dal Governatore Farini per esporgli le cose e invocare da lui solleciti provvedimenti. Farini, che ben conosceva i concittadini, mi pregò d’insistere presso gli amici perché colla loro influenza prevenissero qualsiasi atto violento, che egli dava la sua parola che l’Agente sarebbe presto richiamato. In quell’occasione gli parlai pure delle mene Napoleoniche e delle liste di proscrizione preparate. Egli mostrava di non credere e che noi dessimo corpo alle ombre, ma insistendo io, e ricordandogli che Cavour pure n’era informato e vi prestava fede, egli allora replicò quali dati avessimo per temere o quali documenti.

Gli diedi in mano una nota che avevo ricevuto da un amico che in quei dì faceva parte dell’ufficio di polizia di Bologna, poiché, bisogna non dimenticarlo, noi cospiratori inconvertibili avevamo riallacciate le nostre antiche relazioni coi patrioti e in ogni dicastero avevamo la nostra polizia, per modo di dire, cioè amici sinceri all’unisono coi nostri sentimenti.

Farini non dubitò più.

Mi direte perché non faceste capo al vostro Governatore, Cipriani, perché provvedesse. Eccone la spiegazione semplice e chiara.

Non ce ne fidavamo, dopochè ci fu noto il continuo scambio di telegrammi in cifra fra lui e Parigi, fra l’Imperatore e il Governatore, e in fine dopo che sapemmo che questo uomo era stato suggerito e raccomandato dall’influenza francese anzi imperiale, a cui purtroppo il pudore della gratitudine ci rendea deferenti.

Ho detto che il Cipriani non fu nominato nostro governatore a pieni suffragi12: ebbene mi disse allora un deputato di Rimini – il S…..13 che egli non avea votato per lui, perché lo conosceva bene, e, conoscendolo, non se ne fidava, poiché lo riteneva più devoto agli interessi napoleonici che alla causa dell’Italia e delle Romagne. La dichiarazione venne tardi, ma ebbe una fatale corrispondenza nei fatti successivi.

Qui dovrei porre una nota. Come mai quelli che vicino al Cipriani erano parte della sua azione di governo non restavano inquieti di questo armeggio del Governatore coll’estero, essendo a tutti noto che il Cipriani non era che un fido agente napoleonico??

Non voglio fare indicazioni di nomi; ma un giorno potrebbe farli la sincerità storica. O imbecillità o connivenza.

E io sono per la prima ipotesi: né mi piace scendere ad allusioni di vivi o di morti. Sopra gli interessi personali stava il destino della patria.

Nel partirmi da Farini avea stabilito di fermarmi a Bologna e di richiamare gli amici sull’indirizzo equivoco del Governatore.

Garibaldi trovatasi pure in città, e fu tosto avvertito dalla egregia patriota Anna Zanardi di ciò che facevasi o temevasi dal palazzo.

Questa nobile amica mi riferì che Garibaldi, alieno dagli espedienti volpini, ma leone in tutte le manifestazioni della sua vita corse subito al fine con un accorgimento acuto e sicuro.

Fece adunque sapere che o il governatore si dimetteva od egli arrestava lui o gli altri del governo* [* A queste mie asserzioni danno conferma le memorie autografiche di Garibaldi stesso pubblicate da Nathan – pagina 293 – linea 35].

La cosa fece colpo sul Cipriani, che nella notte convocò all’Assemblea i deputati annunziandosi dimissionario. E fu gran benefizio per tutti e sopra tutto per quell’ordine interno che erasi ammirevolmente conservato. Non era ignoto agli uomini di Romagna, che erano del movimento pubblico maggiormente partecipi, il tentativo escogitato a pro’ del Principe francese, onde l’Assemblea accettando subito le dimissioni del Governatore ringraziavalo con un eloquente decreto per quanto avea fatto di bene per le provincie14. La qual formola prestatasi ad un tempo a salvare le convenienze d’ambe le parti. In suo luogo poi venne eletto a Dittatore Luigi Farini, che così con omogeneità di concetti e sincerità di vedute presiedeva al nucleo centrale le Romagne, Modena e Parma. Egli che a tempo sapeva essere rivoluzionario, come lo era d’origine, cominciò a mutare tutti gli ordini interni colle nuove leggi Sarde, rendendo così fin dall’inizio più facile la trasformazione unitaria.

Però a noi pesava sempre la sorte delle provincie soggette ancora alla dominazione pontificia.

Gli esuli, che erano i più illustri nomi del patriottismo, a noi avevano rivolte le loro istanze per non essere abbandonati volendo pur essi far parte della nuova e libera famiglia italiana* [* Nei documenti, che posseggo, è l’indirizzo qui unito rivolto ai Deputati dell’Assemblea colle firme autentiche. Questo documento è scritto da Ascanio Ginerzi di Pergola, mio compagno di Collegio. Garantisco la sua calligrafia e il suo amore alla patria è noto. Quando era Sindaco i fucili della Guardia Nazionale presero la via di Mentana].

Nell’autunno del 1859 ci venne annunziato che il Generale Garibaldi, che erasi recato a Modigliana per salutare il suo amico e salvatore D. Giovanni Verità a tutti noto per il suo patriottismo operoso a prò della libertà e dell’Italia, sarebbe passato per Faenza, facendo breve sosta. L’Avv.to Mariani allora sotto-Intendente, in unione ai deputati della città si mosse per incontrarlo e dargli il benvenuto.

Difatti raggiunto per la strada che da Modigliana giunge a Faenza; insieme giungemmo in città e nel palazzo comunale fu ricevuto dalla Giunta provvisoria di governo – dopo avere provato tutto l’entusiasmo e le popolari manifestazioni le più cordiali. Il grande salone municipale era stipato dai militi che avevano preso parte alle patrie battaglie nazionali, che all’arrivo del Generale, con un uragano di applausi gli si strinsero addosso, tutti gareggiando di stringere quella mano gloriosa che fu sempre pronta a difesa d’Italia e dei popoli oppressi.

Le acclamazioni strepitose che sulla piazza e dalle strade salivano furibonde a lui lo costrinsero ad affacciarsi alla loggia per rispondere alla grande dimostrazione. Ad un tratto si fece silenzio, del quale egli si valse per rivolgere al popolo la parola.

Ed egli parlò, come parlare sapeva un cuore generoso. Disse che v’era bisogno di concordia, di virtù per compier l’opera bene cominciata, che i giovani doveano esser pronti a riprendere il fucile, quando la patria li avrebbe chiamati, che ormai il regno dei preti era finito, e l’Italia schiava di loro e dei tiranni cominciava a respirare l’aria libera.

Voi vi siete liberati (soggiunse) ma molti altri nostri fratelli hanno ancora la catena. Ricordatevene. Non posso esprimere l’urrà che sorse dalle migliaia di cittadini al nome di Garibaldi, e all’Italia. Fu un giorno solenne e allora proprio i cuori erano uniti nel sentimento della patria e fervevano gagliardamente. E oggi!!…

Garibaldi che allora era il Comandante dei volontari nelle provincie ex-pontificie sempre pronto a trarre la spada a favore degli oppressi contro gli oppressori meditava di impadronirsi con un colpo di mano delle terre irredente, e preparatasi ad un’azione immediata. Ma il Dittatore chiamatolo a sé gli oppose il veto: ed egli indispettito rassegnava il comando e se ne partiva. Certo egli ignorava che da Cavour si tendeva con altri mezzi allo stesso scopo.

Il convegno* [*A Plombiers] di lui con Napoleone, che certo nell’intimo dell’animo non poteva che odiare il regime pretesco, fruttò. “Sopra tutto fate presto” gli dicea l’Imperatore quando Cavour gli esponea la urgente necessità politica di entrare nelle Marche e nell’Umbria. Però o fosse l’impulso già dato da Garibaldi, o quell’intuito divinatorio che spesso illumina le masse, certo è che in Romagna si preparavano armi per la riscossa. Farini conscio di quanto era stato convenuto a Plombiers dava ordini severi perché nessun atto intempestivo si compiesse, volendo egli che le forze regolari s’impegnassero nell’azione. Ma ciò forse era una mostra soltanto. Fatto è che sul finire d’agosto del 1860 bande armate di volontari varcarono i confini e sulle montagne si raccolsero minacciando i presidi papali, intercettando le corrispondenze, e ingrossando ogni dì di più. L’11 settembre Vittorio Emanuele annunziava all’esercito il divisato ingresso delle truppe nelle provincie ancora soggette per liberarle e ricongiungerle alla patria. E le truppe marciarono e in pochi dì, espugnato il forte di Pesaro, battute in giornata campale le orde straniere a Castelfidardo, presa la fortezza d’Ancona, fatto prigioniero il Generale Comandante Lamoriciere, ridonarono la pace, la libertà, i diritti naturali ai popoli sì a lungo conculcati.

Questi ultimi eventi io li accenno soltanto, poiché io non ero, in quest’anno, fra coloro che fortunatamente vi presero parte, poiché mi trovavo Intendente di Comacchio, nominato dal Farini fino dal 30 Ottobre 1859.

Avrei dovuto quindi a quest’epoca finire gli appunti e i miei poveri ricordi. La mia ultronea narrazione mi è quasi sfuggita dalla penna come cosa attinente in modo immediato ai fatti di Romagna e alle provincie contermini.

Queste mie rimembranze che per passare il tempo ho voluto riprodurre, so che possono avere poco o veruno valore storico, poiché mancano di due speciali ed essenziali caratteri e per la storia e per la cronaca.

Mancano i due occhi, in questo mal composto organismo, la cronologia e la topografia, che, a detta d’un insigne filosofo, sono gli occhi della storia.

Da ciò, se qualcuno leggerà questi miei scarabocchi scritti a spizzico, senza meditazione, senza stile, con irregolare ortografia, io sarò scusato e dovrà dedursi, come affermai, che non ebbi per un sol istante la morbosità di fare una tessitura storica. Essendo vecchio, si ritorna con piacere ai tempi della balda gioventù col pensiero, e ci si riposa, come stanco viaggiatore al rezzo d’un albero amico. Se la volontà mi assiste, scriverò qualche altro appunto sulla mia vita ufficiale ricordando solo non la mia amministrazione, ma i tratti che si collegano all’azione di cospiratore, perché anche ufficialmente si può cospirare, senza venir meno al dovere di funzionario, trincerandosi in un dovere più alto, quello di cittadino italiano.

  1. Il Regno di Sardegna adottava la lira che, all’unità d’Italia, sarà equiparata a scudi romani.  []
  2. Virginia Bellenghi, seconda moglie di Luigi Brussi, nata, secondo quanto riportato sulla tomba di famiglia, nel 1853 e deceduta nel 1914. Ritengo errata la data di nascita poiché nell’Estratto-Riassunto di Atto di morte risulta deceduta il 21 marzo 1914 all’età di anni 80. []
  3. Scrive Piero Zama: “Nell’agosto il Brussi era a Rimini e da questa provvisoria residenza scrisse al fratello Luigi, a Faenza, una lettera che noi riteniamo opportuno pubblicare nella sua integrità come documento che rispecchia fedelmente ed intelligentemente la situazione del momento e l’opinione politica di un patriota di alto sentire. Ed ecco la lettera. ‘Rimini 22 agosto 1869. C[aro] F [fratello]. Quando ebbi inviata l’ultima mia, mi accorsi tosto del cenno incompleto che avea dato, delle mie idee, e di tutta prima volevo ripetere con altra lettera, ma mi trattenni perché la vostra risposta mi avrebbe dato modo di compiere in seguito a quel mio divisamento. Dopo che io vi diedi un cenno del mio (e dirò meglio) del comune sentimento politico che oggi risulta da una storica necessità, oggi non vedrei (come ho scritto a Foresti) altro fondamento alla consolidazione della nostra vita politica, che l’unione di tutto l’elemento italico a quella classica bandiera, che un Re portento di fede nazionale, come unico nelle memorie passate, ha saputo tener alta e difesa con uno slancio favoloso nelle tradizioni delle Dinastie. Oggi ogni restio ammette questa logica di fatti contro la quale è impotente qualunque sistema di novità. Il voto poi che dalle masse popolari si rivela (nelle quali è il senso del giusto) conferma all’Europa quanto oggi si avversi qualsiasi tensione contraria al moto attuale, e prova bastevolmente colle solenni manifestazioni di gratitudine al Re galantuomo, quanto l’Italia nostra sia penetrata del proprio interesse. Questi fatti sono però contaminati dalla forza dissolvente, sorda, continua della Diplomazia che vuole ancora esercitare quel predominio sulle cose nostre da impedire, o rendere meno attivi gli sforzi per conquistare l’unificazione che oggi invochiamo come bene supremo. Questo egoismo nemico d’ogni popolo, d’ogni solidarietà è quello che limita le nostre fortune: io non mi illudo; è nel seno di quelle congreghe diplomatiche che l’avarizia e il dispotismo combatte le nostre aspirazioni: di là ci si presentano le grandi battaglie. Il Piemonte che per alcune potenze (meno l’Austria) compendiava il senno pratico-politico d’Italia, oggi diviene il foco a cui convergono le offese dei potenti, se legittimando i comuni desideri, ci raccoglie nella stessa famiglia. In genere per gli esteri fa meno dispetto un’Italia, e dà minori apprensioni anche uno spettro dell’ottantanove che un’unità compatta col Piemonte. Per noi è una fatalità la buona memoria della Diplomazia. Ma, se per questa ladra, non ci venisse dato di comporre questo nucleo italiano, di costituirlo saldamente nel fatto come lo è nelle coscienze e nel convincimento universale, che dovremo noi fare? Creare un’altra unità uniforme a quella che ci viene interdetta, centralizzare con tutte le forze dei diversi Stati indipendenti il movimento politico sotto una mano rivoluzionaria di modi che soddisfacendo agli interessi morali e materiali dei popoli stabilisca un governo che nell’interna ed estera amministrazione fomenti ed aiuti l’idea di quella finale unità universale, a cui oggi aspirano i cuori di tutti. Ho detto che una mano rivoluzionaria di modi dovrebbe tenere il freno del governo; e ciò, perché vorrei che nei capi dell’azione governativa fosse quell’energia, quello spirito retto d’abnegazione per il quale l’uomo che governa dimenticando la propria suscettibilità fa suo fine il bene di tutti, sua meta ultima la salute della patria. Voi direte che troppo severe esigenze io pongo innanzi: ma poco sono vago d’astrazioni e credo pure che questi esseri o questi salvatore possa uscire dall’attrito popolare e cittadinesco, credo che questo elemento non manchi; altrimenti converrebbe diffidare della potenza della virtù morale e politica del nostro paese. Un dittatore può salvare un popolo e un popolo che crolla la macchina secolare della servitù, nuovo alla vita delle nazioni ne ha maggior bisogno. Ma lascio queste idee, che solo perché da voi interrogato, manifestai quantunque vi debba far sentire il peso di pensieri ripetuti e mal digesti quasi che si trattasse di convertirvi alla stessa fede a cui già appartenete. Non vorrei nemmeno che mi stimaste sì gretto da supporre che io voglia farla da pubblicista o da Deputato immaturo, perché sarebbe per me tanta la confusione come se avessi predicato sull’altare d’un prete. Da lungo tempo io più non scrivo e trovo dura o restia l’immagine del pensiero, la parola. Notizie non ho altre che la venuta dei papali a trovarci al nostro domicilio. Si dà per certa: noi vedessimo e faremo. Questo avvenimento sarebbe un gran bene: avremo il pretesto di passare il Rubiconde anche noi per andare a combattere Roma papale. Da Pesaro siamo esattamente informati che si sono preparate caserme per altri 4 mila uomini che il Generale svizzero raccoglie dalle varie parti dello Stato e di fuori. In Ancona sbarcano ogni giorno a 30 a 40 per volta tedeschi che vanno ad accrescere le Sante fila del Padre dei credenti che non può far guerra secondo il suo ministero con Tedeschi, perché suoi figli in Cristo, ma la prepara con noi, perché dimandammo l’emancipazione della sua patria potestà. Queste canaglie son pagate 4 paoli (Moneta d’argento equivalente a dieci baiocchi, titolo 900, peso gr. 2,690, in vigore nello Stato pontificio; con l’unificazione equivale a lire 0, 54. al giorno, e sono la gente d’operazione, mentre a guarnire le città sono richiamati sotto le bandiere i municipali (quondam centurioni. Vedi nota IV). Una corvetta con dodici cannoni aiuterà dicesi, l’attacco contro di noi, rimorchiando tre vaporetti carichi di truppa destinati a proteggere lo sbarco, o a fare una diversione. Un’altra colonna verrà d’Urbino per prenderci di fianco. Il numero eccede presentemente le forze nostre, ma Roselli non è lontano ed ha con sé un elemento temuto assai specialmente dai Carabinieri per personalità non dimenticabili. Non mandate né denaro né biancheria, attendo ancora alcuni giorni e vengo a Faenza in permesso, che ho già avuto, ma ora non ne approfitto sperando di fare qualche colpo contro questi clericali. Oggi stesso ho scritto a Brunetti Nicola dicendogli cose che voi pure potete sapere. Leopardi famiglia vi saluta e così il Colonnello e gli altri amici. Salutatemi la Famiglia e il Sig. Vincenzo e Marchino e tutti gli amici e credetemi sempre. V. Fr. Gaetano D.S. Se nulla avviene alla fine del mese verremo a Forlì – Ditemi se venendo a Faenza potrò far credere che io corra per influenzare la mia candidatura – La quale se mi porterà ad essere eletto voglio che non si pensi d’avere io, anche indirettamente, brogliato per questo – Salutate Virginia vostra, le sorelle, e l’altra Virginia e famiglia, non escludendo il cognato futuro – Le vostre nuove e della salute di tutti sono da me attese con impazienza’”. []
  4. In un rapporto informativo redatto il 27 dicembre 1846 dalla direzione provinciale di Polizia di Ravenna si legge: “fu uno fra i Compromessi nelle politiche vicende del 1831 […], nel 1832 fu anche processato a titolo di ferimento per spirito di parte, per cui si rese per qualche tempo contumace”. []
  5. Renaud di Faliçon Enrico. []
  6. Il 6 settembre 1859, a scrutinio segreto, l’Assemblea votava la seguente proposta: “Considerando che questi popoli, dopo aver avuto statuti e leggi proprie, e nel principio del secolo presente fatto parte del Regno Italico, furono nel 1815, senza il consenso loro posti sotto il Governo Temporale pontificio, e che questo, senza ripristinare le antiche franchigie, distrusse i buoni ordini nuovamente introdotti; Considerando che tale Governo colla mala sua amministrazione riconosciuta dall’Europa afflisse i sudditi, onde la storia di queste provincie d’allora in poi fu una dolorosa vicenda di rivoluzioni e di reazioni, tanto che alla perfine le misure eccezionali e gli stati di assedio divennero la regola ordinaria di governo; Considerando che ciò produsse grave danno della pubblica prosperità non solo, ma pervertimento del senso morale nelle popolazioni e pericolo incessante della quiete d’Italia e d’Europa; Considerando che tornarono inutili le preghiere dei popoli e i consigli dei potentati d’Europa; che ogni tentativo di riforma fu vano; che le promesse furono sempre deluse; Considerando che tale Governo non seppe neppure difendere la vita e le proprietà dei suoi sudditi; Considerando che abdicò di fatto la sovranità dandone le più nobili prerogative in mano di generali austriaci che tennero per molti anni il governo civile e militare di queste provincie e ne fecero strazio; Considerando che, se questi popoli hanno voluto adempiere all’obbligo loro di partecipare alle guerre dell’Indipendenza, dovettero farlo contro le dichiarazioni sovrane e malgrado gl’impedimenti di ogni maniera; Considerando che tale Governo è incompatibile colla uguaglianza civile, colla libertà e colla nazionalità italiana; Considerando che alla partenza degli Austriaci il Governo Temporale pontificio cadde ad un tratto: che non può reggersi con forze proprie, ma solo con armi straniere o mercenarie, per cui sarebbe impossibile la quiete pubblica e l’ordine stabile; Considerando infine che il Governo Temporale pontificio è sostanzialmente e storicamente distinto dal potere spirituale della Chiesa, cui questi popoli professano piena reverenza; Noi, rappresentanti dei popoli delle Romagne, convenuti in generale Assemblea, appellandone a Dio della rettitudine delle nostre intenzioni, dichiariamo: Che i popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto, non vogliono più Governo Temporale pontificio”. Deputati eletti 122, presenti e votanti 121, favorevoli 121. []
  7. Il 7 settembre 1859, a scrutinio segreto, l’Assemblea votava la seguente proposta: “Considerando che il voto unanime e fermo di questi popoli è per un Governo forte, che assicuri l’indipendenza nazionale, l’uguaglianza civile e la libertà; Considerando che il loro primo bisogno è di posare in un assetto stabile e finale rispetto alla Nazione, il quale chiuda l’êra delle rivoluzioni; Considerando che il solo Governo che possa adempiere queste condizioni è quello di Sardegna, per la forza, per le tradizioni, per la organizzazione, per le istituzioni e pei sacrifici fatti alla causa italiana; Noi, rappresentanti i popoli delle Romagne, DICHIARIAMO: Che i popoli delle Romagne vogliono l’annessione al Regno Costituzionale di Sardegna sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II”. Deputati presenti e votanti 120 e 120 i voti favorevoli. []
  8. Lionetto Cipriani era stato nominato il 1° agosto dal consiglio di governo, organo provvisorio nominato all’unanimità dal Falicon successore di Massimo D’Azeglio prima che fossero convocati i comizi elettorali e quindi eletta l’Assemblea. []
  9. Eletto all’unanimità dall’Assemblea il 7 novembre. []
  10. Di tale corrispondenza non vi è alcuna traccia nelle carte di gabinetto della prefettura di Ravenna, peraltro molto lacunose, conservate presso l’Archivio di Stato di Ravenna. []
  11. Per quanto riguarda la città di Faenza in quei mesi l’esame delle carte di prefettura superstiti mostra una situazione estremamente caotica. L’ordine pubblico è frequentemente turbato e la città è sede di una vera e propria folla di volontari reduci dalla Lombardia e dalla divisione Roselli, uomini che oziano nelle numerose osterie spendendo più di quando abbiano ricevuto col congedo e che, pur proclamandosi patrioti, non sembrano avere intenzione di riprendere le armi non ostante gli inviti loro rivolti anche da ufficiali garibaldini appositamente venuti a Faenza. Sembra proprio che l’intenzione di costoro, guidati da alcuni reduci del ’48 e del ’49 uomini a metà strada fra patriottismo e delinquenza comune, sia quella di rimanere in città per approfittare di ogni variazione di clima politico e per influire su di esso poiché sembra che dietro le frequenti ed improvvise dimissioni di consiglieri comunali che si ripetono costantemente, vi sia un pesante clima di intimidazione. Solamente alcuni arresti, motivati da atti di delinquenza comune, ed il forzato, o quasi, arruolamento di alcuni dei presunti capi risolverà la situazione. A ciò si aggiungono allarmi per l’infiltrazione di agenti pontifici e sequestri di giornali “sovversivi” quali la “Civiltà Cattolica”. Non mi sento pertanto di escludere che in tale clima le “liste di proscrizione” alle quali fa riferimento il Brussi siano non tanto dovute ad intrighi bonapartisti quanto ai timori delle autorità dovute a tale situazione. Quanto al capo della polizia nel settembre del 1859 era stato fatto venire a Faenza il De Regis che aveva operato alcuni arresti. []
  12. Lionetto Cipriani, come riportato nella nota 71 non era stato eletto dall’Assemblea che, al momento della sua nomina, non esisteva. []
  13. Ritengo trattarsi di Achille Serpieri. []
  14. 8 novembre 1859: “Art. 1. La dimissione del Governatore generale è accettata, e gli sono espressi sentimenti di riconoscenza per quanto ha operato in adempimento dei voti dell’Assemblea”. []