Andrea Ragusa
Abstract
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L’articolo 9 della Costituzione e la costituzionalizzazione della tutela dei Beni culturali
Con la promulgazione della Carta costituzionale, il 22 dicembre 1947, lo Stato italiano, uscito da una dittatura ventennale e dalla catastrofe della guerra, ridisegnava il proprio assetto in senso democratico e repubblicano. Con la sobria asciuttezza dell’articolo 9 assumeva l’impegno di “promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”; e di “tutelare il paesaggio ed il patrimonio storico ed artistico della Nazione”.
L’inserimento di tale norma tra i Principi fondamentali, con una esplicitazione che interveniva a rafforzare soprattutto il secondo comma, con il combinato disposto degli articoli 33, inerente la libertà dell’arte e della scienza e del loro insegnamento, e 34, relativo all’obbligo scolastico; aveva innanzitutto il merito di affermare l’importanza del tema in oggetto. L’articolo 9, in definitiva, costituzionalizzava il problema della promozione della cultura e della tutela del patrimonio culturale, pur declinandolo ancora nella doppia componente del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico della Nazione.
Il dibattito che in sede di Assemblea costituente si svolse in relazione al progettato articolo in materia di tutela dei Beni culturali e del paesaggio rappresenta pertanto terreno di interesse per una riflessione di taglio storico, per almeno due ordini di motivi: da un lato per il fatto che esso rappresenti il primo passaggio per una storia della politica di tutela dei Beni culturali nel secondo dopoguerra che fuoriesca dal perimetro, pur fondamentale ed interessante, dell’analisi strettamente normativa cui per lo più esso è stato sin qui confinato nella gran parte della letteratura corrente1, aprendosi invece ad una investigazione approfondita degli elementi di ordine politico, sociale, culturale, che furono sottesi al dibattito e che si cristallizzarono nel dettato costituzionale; dall’altro per un motivo, simmetrico, legato alla possibilità di un ulteriore approfondimento di un aspetto di novità decisiva dell’architettura costituzionale del nuovo Stato.
L’inserimento della norma nei primi dodici articoli del testo, risulta infatti particolarmente significativo perché appare, insieme con gli altri Principi, l’espressione di un mutamento complessivo nella visione della struttura dello Stato e dei rapporti tra società ed istituzioni, e conseguentemente di una diversa concezione delle funzioni e dei contenuti dell’ordinamento giuridico, in particolare della legge fondamentale. Una diversità che ebbe occasione di palesarsi, proprio in riferimento al tema dei Beni culturali, nella polemica intercorsa nella seduta dell’Assemblea costituente del 23 aprile 1947, tra Vittorio Emanuele Orlando e Costantino Mortati. L’ormai vecchissimo ma ancora assai attivo Orlando riassumeva nella sua posizione l’essenza più nobile del costituzionalismo liberale ottocentesco, che guardava allo Stato come soggetto compiuto ed in se stesso legittimato, ed alla legge ordinaria come alla sua espressione. Dall’idea della rappresentanza politica come frutto di una designazione di capacità e non di una trasmissione di poteri, e quindi del governo parlamentare come equilibrio tra le prerogative regie e le forze parlamentari – alla base del formalismo giuridico codificato dal grande maestro palermitano – derivava l’esclusione del problema dei partiti e dell’indirizzo politico dall’orizzonte dell’indagine costituzionale; lo svuotamento della legittimazione dei rappresentanti a legiferare – essendo il loro un mero compito di ricognizione del patrimonio giuridico creato dallo Stato – ed infine, e soprattutto, la negazione della funzione costituente e della concezione stessa della Costituzione come norma di contenuto prescrittivo. (Fioravanti 1990, 59). Sin dalla prima monografia, dedicata nel 1931 a L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Mortati aveva invece posto con chiarezza tutti gli elementi di quella nuova visione dell’ordinamento giuridico destinata a maturare compiutamente nella sua opera più nota: il volume su La Costituzione in senso materiale del 1940. Con l’originalità che la storiografia costituzionale ha ormai evidenziato con puntualità ed ampiezza di argomenti, Mortati si collocava in un orizzonte di equilibrio e di superamento tanto dell’interpretazione autoritaria dello Stato liberale come Stato amministrativo data da Santi Romano, quanto del tentativo di legittimazione del fascismo come fatto costituzionale rivoluzionario operato da una vasta area della cultura giuridica italiana sotto il regime. La stessa trasformazione delle strutture istituzionali e del governo di Gabinetto impressa dal fascismo tra il 1925 ed il 1928 veniva letta da Mortati come indice di una più ampia trasformazione – in corso sul lungo periodo – dello Stato di fronte a domande nuove poste dalla società, alle quali lo Stato liberale risultava non più in grado di rispondere. Sostanziando l’insegnamento del proprio maestro Romano con gli elementi di realismo derivatigli dalla frequentazione di Donato Donati2, Mortati poneva in fondo il problema della crisi del formalismo giuridico orlandiano come indice della rottura dell’unità politica statuale di fronte alla crescita del “pluralismo dei poteri diffusi”, per cui – come è stato sottolineato – “nessuna tecnica (era) più praticabile come ‘pura tecnica’ e nessuno specialismo (era) più neutrale, perché ormai intrisi di politica, uniti con la forza e con il potere” (Cianferotti 1980, 348)3. Per questo, secondo il giurista calabrese lo Stato stesso cominciava ad esistere in quanto capace di esprimere un governo dotato di un indirizzo politico unitario, che desse senso a poteri altrimenti ordinati soltanto da alcune regole destinate a disciplinarli. E la giuridicizzazione di questo tèlos risiedeva appunto nell’individuazione della Costituzione come legge dotata di un primato assoluto nella gerarchia delle fonti normative in quanto espressione formale di un indirizzo politico, e più in generale, può dirsi, di un assetto politico determinato in un certo momento storico, che Mortati definiva appunto nel concetto di “Costituzione in senso materiale” (Fioravanti 1990, 133-134).
La polemica che discendeva da questa opposta visione della funzione costituente e della Costituzione in quanto atto normativo, inerì appunto il valore stesso dei Principi fondamentali. Nella seduta del 23 aprile Orlando propose di sopprimere l’articolo 29, che nel Progetto di Costituzione redatto dalla Commissione dei 75 regolava la materia dei Beni culturali, e di inserirlo, insieme a tutti gli altri articoli del Titolo II, in un Preambolo: in parte perché privo di un effettivo contenuto normativo, in parte perché incidente su di una materia regolata in senso unitario dalla legge ordinaria. Sotto il primo rispetto egli sottolineava come il Titolo II – relativo ai Rapporti etico-sociali all’interno della Parte Idel Progetto, Diritti e doveri dei cittadini – fosse quello in cui “il difetto metodico si rivela in tutta la sua estensione, abbondando in esso tanto le definizioni che non servono a niente, quanto le promesse”.
D’altra parte, aggiungeva, le norme degli articoli 23-29 sarebbero servite soltanto a mettere in dubbio il principio della certezza del diritto, ed oltretutto avrebbero finito per invadere il campo della legislazione futura (Assemblea costituente 1951, 3239-3240 e 3245).
Dopo la risposta del presidente della ISottocommissione, il democristiano Umberto Tupini, che evidenziò, a proposito della rilevata astrattezza degli articoli, come il Progetto costituzionale si imperniasse su due elementi: “uno di carattere normativo assoluto, l’altro di direttiva al futuro legislatore perché vi si conformi e vi si adegui” (Assemblea costituente 1951, 3246).
Mortati prese la parola per esprimere la dichiarazione di voto del gruppo parlamentare democristiano, ribattendo innanzitutto che le norme del Titolo II, anche quelle apparentemente solo definitorie, avevano in realtà tutte un contenuto giuridico sostanziale. A proposito della necessità di riservare le materie in oggetto alla legge ordinaria, sottolineò in particolare come solo la valutazione effettuata in sede politica fosse legittimata ad attribuire contenuto legislativo o costituzionale ad una norma. Rispose infine, sulla questione della certezza del diritto, che la nuova Costituzione avrebbe introdotto un nuovo “spirito” (appunto l’indirizzo politico cui lo Stato avrebbe teso), sigillo ultimo di ogni futura statuizione normativa: ad esso ogni norma – anche precedente – si sarebbe dovuta adeguare (Assemblea costituente 1951, 3248).
Respinto l’emendamento di Orlando, l’articolo 29 fu portato nuovamente in discussione nella seduta del 30 aprile, ove il tentativo di soppressione fu ripetuto sulla base di una proposta di cui si fece estensore il democristiano Edoardo Clerici. A parte il tono evidentemente inopportuno con cui Clerici si espresse – qualificando l’articolo come “superfluo”, “inutile”, “incompleto”, ed addirittura “alquanto ridicolo” – vi erano nel suo intervento due eccezioni sostanziali non prive di interesse. La prima atteneva la questione della gerarchia delle fonti: l’articolo 29 risultava inutile proprio per l’esistenza di leggi speciali assai specifiche e concrete a tutela così del patrimonio artistico come del paesaggio. Ciò valeva soprattutto per il problema di porre eventuali limiti alla proprietà privata per tutelare gli interessi dello Stato per l’arte: limiti che erano in realtà già presenti in statuizioni precedenti e che comunque si sarebbero dovuti inserire negli articoli relativi, appunto, alla proprietà privata. L’altro elemento di critica ineriva le competenze di tutela dello Stato, che secondo Clerici servivano soprattutto a ribadire la competenza esclusiva dello Stato rispetto alla Regione (Assemblea costituente 1951, 3419). Su posizioni antiregionaliste si espressero sia il socialista Tristano Codignola che il comunista Concetto Marchesi, il quale ultimo sottolineò come la tutela ed il controllo del patrimonio artistico fossero “un tesoro nazionale”, e per questo fosse necessario affidarli ad un organo centrale. Citò a sostegno di questa tesi l’esempio della Francia, che nel 1945 aveva sottoposto al controllo nazionale anche quei grandi musei provinciali sin lì rimasti autonomi. Ricordò inoltre come la legislazione ordinaria vigente avesse da un pezzo aperto la via al decentramento attraverso l’istituzione delle Sovrintendenze generali alle Belle arti. Lesse infine un indirizzo rivolto alla Costituente dall’Accademia dei lincei l’8 febbraio 1947, cui si aggiunse quello dell’Accademia di San Luca, letto dal democristiano Florestano Di Fausto, nei quali si raccomandava il mantenimento “alla Nazione” “dei massimi musei e gallerie d’Italia […] dei grandi centri di scavo e di restauro ai monumenti” (Assemblea costituente 1951, 3421).
Il contrasto fu infine risolto grazie alla “lungimirante”4 proposta di Emilio Lussu, di sostituire alla parola Stato la parola Repubblica per lasciare “impregiudicata la questione dell’autonomia regionale” (Assemblea costituente 1951, 3423).
Il che peraltro non avrebbe impedito che a partire dall’approvazione degli Statuti speciali le Regioni insinuassero, negli elementi di irresolutezza del dettato costituzionale, potenzialità autonomistiche destinate a consolidarsi nel tempo. Né meno intriso di ambiguità fu il risultato dell’inserimento, come secondo comma dello stesso articolo, di una norma, certo attinente ma fortemente diversificata, come quella dell’articolo 29-bis del Progetto, proposta da Firrao, secondo la quale “la Repubblica promuove la ricerca scientifica e la sperimentazione tecnica e ne promuove lo sviluppo”.
Particolarmente felice fu invece l’individuazione degli oggetti della tutela, con la sostituzione del riferimento al “patrimonio storico e artistico della Nazione”, di quello ai “monumenti artistici e storici”, e con l’introduzione del concetto unitario di “paesaggio” in luogo della doppia dizione “monumenti naturali” e “monumenti artistici e storici”.
“Costituzione culturale” e “Stato di cultura”: presupposti teorici ed influenza dei modelli stranieri sulla redazione e l’interpretazione dell’articolo 9: a) la “politica della cultura”
Nell’intervento del 23 aprile 1947, come in tutti gli altri svolti durante il periodo di elaborazione del testo costituzionale, Mortati esprimeva i due principi fondamentali su cui convergevano le forze politiche uscite vittoriose dalla lotta antifascista. Il primo era il riconoscimento del carattere “democratico” del testo, e del metodo con cui lo si sarebbe redatto:
l’accettazione – come aveva detto già nella seduta svolta il 20 marzo 1946 dalla Commissione Forti (la “Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” insediata dal Ministero per la Costituente sotto la presidenza di Ugo Forti) – del concetto stesso di stato democratico ed anzitutto il valore assoluto della persona umana ed i diritti conseguenti di libertà personale e di eguaglianza (citato da Antonetti 1999, 82).
Ciò dà conto della consapevole volontà dei Costituenti di escludere formulazioni “di carattere prevalentemente ideologico” e di utilizzare un linguaggio che, senza sganciarsi dalle esigenze poste dalla realtà storica, si ricollegasse alla tradizione del costituzionalismo usando formule, appunto, “il più possibile costituzionali e giuridiche”5.
E spiega anche la validità dell’interpretazione che da subito si volle dare dei Principi fondamentali come di un gruppo di norme che delineassero i connotati essenziali della stessa struttura statale, economica e sociale del paese: da un lato, dunque, elementi di “descrizione fondativa”, dall’altro norme giuridiche dal pieno contenuto prescrittivo che funzionassero da parametri del giudizio di costituzionalità e da criterio interpretativo e di indirizzo dell’intero ordinamento (Amirante 1999). I presupposti definiti nei primi 12 articoli del testo avrebbero teso dunque – secondo un’espressione ricorrente negli interventi dei deputati – a delineare “il volto della Repubblica”.
In questa prospettiva l’introduzione di una norma come quella ex articolo 9, all’interno di un articolato che riconosceva come perno fondamentale della vita dello Stato italiano la tutela della libertà e della dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni, merita di essere segnalata come una novità importante innanzitutto in quanto indice, appunto, di una acquisita visione democratico-liberale come sfondo unitario della struttura dello Stato e del rapporto tra società civile, istituzioni ed ordinamento giuridico, al disopra delle pur presenti contrapposizioni degli schieramenti politici. Come autorevolmente ha scritto Alessandro Pizzorusso, la Costituzione Italiana si delineava infatti sin dall’inizio anche come Costituzione culturale per la presenza di un nucleo di principi “riguardanti la tutela minima da assicurare alla vita umana, considerata quale un valore in sé, indipendentemente dall’impiego delle energie dell’uomo per finalità di carattere politico ed economico”; principi che troverebbero il proprio fondamento “in un complesso di scelte che rappresentano l’accettazione di un determinato modello di cultura ed il rifiuto di quelli ad esso contrapponibili” (Pizzorusso 1997, 309-310). Come tale essa fu anche il terreno di confronto, ed uno specchio di notevole trasparenza, di quello sforzo consapevole di accostare le questioni della produzione e dell’organizzazione della cultura, che impegnò l’Europa con intensità sin lì sconosciuta, fra gli anni Quaranta e perlomeno tutta la prima metà dei Cinquanta. Lo stesso discorso tecnico-giuridico intorno alla tutela, il dibattito politico che lo sottese, la prassi operativa che si perseguì al livello istituzionale-amministrativo, si collocarono in fondo nella cornice della complessa riflessione che ebbe al centro lo sviluppo di una nuova coscienza del ruolo dell’intellettuale nella società.
Il modello di cultura e di produzione culturale rapidamente prevalso fu quello, appunto, liberaldemocratico, di una “politica della cultura”, definito nel 1955 da Norberto Bobbio – non a caso un filosofo positivista di ascendenze kantiane e di formazione liberal-socialista – in contrapposizione ad una paventata “politica culturale”.
La politica della cultura – egli avrebbe scritto – è una posizione di massima apertura verso le posizioni filosofiche, ideologiche, e mentali differenti, dato che è la politica relativa a ciò che è comune a tutti gli uomini di cultura, e non tocca ciò che li divide. Come proclamazione di una politica aperta a tutti gli uomini di cultura, è nello stesso tempo una denuncia, tanto della politica chiusa dei “politicizzati”, quanto della cultura chiusa degli “apolitici” (Bobbio 2005, 22).
Contenuti e direttive della quale sarebbero stati la difesa ed il promovimento della libertà della cultura attraverso la rimozione degli impedimenti allo sviluppo di una cultura libera, tanto materiali che psichici o morali:
i primi ostacolano o rendono difficile la circolazione e lo scambio delle idee, il contatto degli uomini di cultura; i secondi ostacolano e rendono difficile ed addirittura pericoloso il formarsi di un sicuro convincimento attraverso le falsificazioni di fatti o la fallacia dei ragionamenti, se non addirittura attraverso pressioni di vario genere sulle coscienze (Bobbio 2005, 23).
Ciò che stava dietro queste considerazioni era un duplice ordine di problemi che avevano attraversato il dibattito politico nel corso del primo decennio del dopoguerra, e dei quali un’eco significativa si sarebbe riversata anche sulle questioni relative alle politiche in tema di gestione dei Beni culturali. Il primo fu l’atteggiamento assunto dalle forze politiche nei riguardi del principio della libertà dell’arte e della scienza, cui merita fare in questa sede perlomeno un cenno problematico. L’interpretazione estensiva della norma sancita in Costituzione dall’articolo 33 era stata proposta da Concetto Marchesi sul modello di quanto stabilito dall’articolo 142 della Costituzione di Weimar del 1919, ma rispondeva ad un orientamento diffuso più in generale in molte delle leggi fondamentali allora in vigore. Durante i lavori dell’Assemblea Giuseppe Dossetti l’aveva difesa in base al principio per cui con tale norma si sarebbe voluto assicurare “non soltanto la libertà della manifestazione concettuale, ma anche l’effettiva libertà della manifestazione organizzativa e strutturale dell’insegnamento”.
Il liberale Orazio Condorelli – spostando peraltro la discussione su altri temi – aveva evidenziato come in tale libertà dovesse comprendersi anche il diritto dei genitori ad istruire ed educare la prole, scegliendo liberamente la scuola.
Il tema della libertà dell’arte e della scienza, tuttavia, fu uno dei terreni sui quali più evidente risultò il contrasto tra i tentativi operati in direzione del rinnovamento, ed i gravami e le resistenze che il sistema costruito dal fascismo nella cornice statutaria riuscì ad opporre. Tale contrasto fu centrale, per fare un solo esempio, con riguardo al sistema della censura sulla cinematografia, arte che rappresentava ormai anche in Italia, dai primi decenni del secolo, una delle espressioni più tangibili delle innovazioni che caratterizzavano la contemporaneità. La legge n. 379 che regolava la censura, approvata dall’Assemblea costituente il I maggio 1947, si richiamava infatti largamente al regio decreto 24 settembre 1923 n. 3287. Tale decreto conteneva il regolamento attuativo della vecchia “legge Facta” del 1913, e rispetto ad esso prevedeva alcune ipotesi ulteriori nelle quali il nulla osta ad un film non poteva essere concesso, come “l’apologia di un fatto che la legge prevede come reato”, o “l’incitamento all’odio tra le varie classi sociali” (Baldi 2002, 14). La legge del 1947, oltretutto, prevedeva nuove restrizioni, tra le quali soprattutto quella dettata ex articolo 14, secondo comma, inerente “la facoltà del produttore di sottoporre la sceneggiatura alla preventiva revisione dell’Ufficio Centrale per la cinematografia” (Baldi 2002, 20). E, si aggiunga, una serie di interventi sospensivi agiti dalla magistratura in risposta a denunce di associazioni di privati cittadini, o il sequestro da parte di questure o commissariati, consolidarono in breve tempo una prassi ispettiva particolarmente occhiuta ed efficiente. Così, tra il 1947 ed il 1962, con un acuirsi significativo della rigidità dopo il viaggio di De Gasperi in America, sarebbero state sottoposte al vaglio della censura ben 35.000 pellicole, 1.569 delle quali (circa il 4,5%) respinte, approvate con condizione, o vietate ai minori di 16 anni: nella stragrande maggioranza cinegiornali, documentari, pubblicità, e, per quel che riguarda i lungometraggi, film di contenuto ideologico divergenti nel contenuto dalla politica dei partiti di governo o dalla morale cattolica.
Fu questa situazione che indusse larga parte degli intellettuali italiani ad assumere un atteggiamento di denuncia del controllo esercitato nei confronti della produzione cinematografica e, dal 1954, sull’organizzazione e sulla produzione televisiva, dalla Democrazia cristiana. Favorita dal richiamo all’impegno dell’uomo di cultura, nel quale convergevano le numerose “istituzioni” messe a disposizione, in diversa misura, dal Pci e dal Psi (giornali, riviste, case editrici), e la possibilità di nutrire di contenuti sociali alcuni dei filoni stilistici che attraverso il fascismo erano riemersi dopo la Liberazione (soprattutto il neorealismo cinematografico), da un lato; e dall’altro della polemica contro il “culturame” accesa dal ministro degli Interni Mario Scelba non senza striature plebee; l’equazione sinistre-cultura/Dc-incultura prese corpo tra anni Quaranta e Cinquanta in episodi ben noti ed assai significativi. Il primo fu senza dubbio la costituzione, il 19 febbraio 1948, dell’“Alleanza per la difesa della cultura” in appoggio al Fronte popolare per le elezioni del 18 aprile. Vi aderirono intellettuali dichiaratamente comunisti, ma anche altri che si erano accostati al Pci dopo percorsi anche molto travagliati (clamoroso fu il caso di Massimo Bontempelli, ex Accademico d’Italia), semplici compagni di strada o anche altri che avevano firmato l’appello trovandosi d’accordo con il programma, risultando questo redatto con toni e contenuti genericamente democratici. Vi si denunciavano, infatti, le drammatiche condizioni in cui versavano, in Italia, la cultura, l’arte e la ricerca scientifica, e si concludeva che
una solidarietà organizzata delle forze della cultura con le aspirazioni e le energie di tutto il popolo (poteva) far sì che la voce dell’intelligenza (riacquistasse) la sua autorità e la sua rinomanza nel paese;
ci si esprimeva pertanto
per una cultura nazionale che, nella tradizione italiana, si apra ad un sincero e spregiudicato scambio con quelle delle altre nazioni, ma rigetti ogni invadenza ed esclusivismo di merci, straniere ad ogni cultura;
ed ancora
per la libertà della cultura contro ogni nuovo o rinascente tentativo di adescamento, di corruzione e di soffocamento burocratico;
e infine
per la democrazia della cultura, che aperta al popolo, dalla scuola al libro al teatro, ne esprima la coscienza e le aspirazioni (Ajello 1979, 481)6.
Sul terreno della cultura, e della difesa della libertà di espressione, si creò poi, dopo la sconfitta elettorale del Fronte, una progressiva ed importante convergenza tra tutte le componenti della cultura di sinistra (ivi comprese quelle provenienti da ascendenze azioniste confluite nella diversificata area del terzaforzismo), che ebbe ad esempio una delle sue punte più alte nella denuncia dell’arresto di Renzo Renzi e Guido Aristarco nel 1953. L’arresto, come è noto, avvenuto il 10 settembre di quell’anno, era scaturito dalla denuncia dell’autorità militare contro i due autori per la produzione del soggetto cinematografico L’armata s’agapò, che evidenziava il clima intriso di episodi grotteschi, disorganizzazione e gallismo in cui si era svolta la campagna italiana in Grecia. La reazione della cultura progressista fu assai dura nella denuncia del clima illiberale nel quale viveva la produzione artistica italiana. Così si espresse “Il Mondo” in una lettera-manifesto del 22 settembre; così Arrigo Benedetti su “L’Europeo” il 22 settembre; così, naturalmente, la stampa comunista: “Vie Nuove”;
solo una accesa lotta anticomunista – scriveva Antonello Trombadori nel numero di ottobre – può consentire alle forze più retrive della reazione di esigere misure tali da uccidere la libertà e la democrazia;
“L’Unità”, che sosteneva che degradare il sottotenente Renzi era stato voler offendere una intera generazione di italiani vittima del fascismo; “Società”, ove Carlo Muscetta e Gastone Manacorda dichiaravano essere necessario mandare in galera
non Renzi ed Aristarco, ma i responsabili della disfatta, e coloro che coi fatti, se non con le parole, pretendono di stabilire una continuità storica con ciò che è crollato il 25 luglio (Ajello 1979, 301-302).
“Costituzione culturale” e “Stato di cultura”: presupposti teorici ed influenza dei modelli stranieri sulla redazione e l’interpretazione dell’articolo 9: b)il rapporto con la Costituzione di Weimar del 1919
Se questo della “libertà della cultura” fu un principio decisivo nel favorire l’aprirsi di un dibattito via via più intenso su ruolo e funzioni della cultura in Italia, non meno importante fu il secondo principio su cui si imperniò l’azione dei Costituenti, ovvero l’idea di impostare la prima parte della Costituzione secondo il principio della “socialità progressiva” (Falzone, Palermo, Casentino 1976, 16): idea su cui influiva in maniera determinante la visione “sociocentrica” (Amirante, Atripaldi 1997, 6) delle istituzioni e dello Stato, comune ai cattolici come ai social-comunisti. Tale visione derivava ai primi, ed in particolare a personalità come Aldo Moro e soprattutto Giorgio La Pira, dall’acquisizione, attraverso il rapporto critico con il corporativismo fascista, della rilettura che della scolastica e del tomismo aveva operato in Francia Jacques Maritain (S. Grassi 1980, 184-186). Pesava inoltre quella sensibilità solidaristico-comunitaria che molto doveva all’insegnamento di Giuseppe Dossetti, con il quale non a caso Mortati aveva consolidato rapporti di profonda stima ed amicizia tanto da essere, per volontà dello stesso Dossetti, candidato alla Costituente. Nella cultura social-comunista, e specialmente in intellettuali come Lelio Basso (anch’egli membro della ISottocommissione) o il comunista Renzo Laconi, la visione sociocentrica si era sedimentata a partire dall’utilizzo degli strumenti di analisi marxiani, e soprattutto da una concezione della storia come terreno della dialettica di classe, e del diritto come formalizzazione di questa dialettica, dalla quale potessero sgorgare e continuamente alimentarsi forme diffuse di partecipazione dal basso alla vita istituzionale (Giorgi 2001, 102-103 e 109)7.
Più in generale il dibattito costituente fu segnato dal confronto con la questione divenuta centrale nel dibattito giuspubblicistico otto-novecentesco: l’affermazione, cioè, dei “diritti sociali”, ovvero di una dimensione dei diritti di libertà orientata non solo verso l’individuo in quanto singolo, ma anche in quanto parte della società e partecipe della vita democratica del paese. Si trattava di una dimensione del tutto nuova e sconosciuta al costituzionalismo ottocentesco, della quale peraltro non rinnegava il valore garantista, ma lo sostanziava di una valenza positiva di tutela di una effettiva partecipazione di tutti alla vita politica e sociale del paese8. Fu in questo contesto che si misurò anche un apprezzabile sforzo dei Costituenti nel confrontarsi con i modelli costituzionali elaborati tra Otto e Novecento in sede europea ed extraeuropea. Uno sforzo che ottenne tra l’altro l’importante risultato di contribuire a sottrarre il dibattito al pericolo di un soffocante provincialismo da cui la cultura italiana era stata avvolta durante il regime fascista. Particolarmente significative furono in questo senso alcune iniziative assunte dal ministero per la Costituente per fornire materiali di dibattito e di studio sin dall’inizio dei lavori dell’Assemblea. Una delle più rilevanti fu ad esempio la pubblicazione della “Collana di Testi e documenti costituzionali”, che nell’estate 1946 pubblicò ben quarantatre volumi con carte costituzionali approvate nel trascorso secolo (tra le altre la Costituzione di Svezia e Norvegia del 1814 e la Costituzione del Belgio del 1831) e tra le due guerre, presentate dai più autorevoli studiosi dell’epoca e con un’apertura geografica che spaziava dai casi più classici dell’Europa continentale a quelli meno frequentati dell’Estonia (Costituzione del 1937), della Jugoslavia (Costituzione del 1931), dei diversi documenti costituzionali approvati in Turchia durante gli anni Venti del Novecento, per indirizzarsi addirittura ad esplorare mondi davvero lontani: oltre alla prevedibile presenza della Costituzione sovietica del 1936, si segnalavano i volumi sulle esperienze costituzionali di Argentina, Sud Africa, Giappone e Nuova Zelanda. Accanto a questa, lo stesso ministero per la Costituente pubblicò negli stessi mesi una collana di “Studi Storici per la Costituente”, più breve ma non meno significativa. Nei medesimi anni la “Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico” pubblicò, nella rubrica “Rassegna legislativa”, una serie di interventi dedicati alle Tendenze costituzionali contemporanee, esaminando anche l’esito dei nuovi esperimenti costituzionali che si andavano compiendo dopo la fine della guerra9.
Occorre peraltro evidenziare il fatto che i riferimenti alla questione della cultura e dei Beni culturali risultassero, nelle diverse carte fondamentali esaminate, non molto frequenti e spesso diluiti in più generici richiami al valore della libertà dell’arte e della cultura. La Costituzione finlandese del 1919, per fare un primo esempio, impegnava lo Stato a favorire
lo studio e l’insegnamento superiore delle scienze tecniche, agrarie e commerciali, ed ogni altra scienza applicata come l’esercizio e l’insegnamento superiore delle belle arti, conservando e creando per ciascuna di queste branche scuole superiori speciali, ove esse non siano rappresentate nell’università, e sovvenzionando istituti privati creati a tale scopo.
E, in combinato disposto con la previsione dell’articolo 78, stabiliva all’articolo 81 di mantenere o sovvenzionare “istituti di insegnamento per le professioni tecniche, per l’agricoltura e professioni annesse, per il commercio, la navigazione e le belle arti” (Lavagna 1946, pp. 80-81).
La Costituzione della Cecoslovacchia emanata il 29 febbraio 1920 stabiliva all’articolo 118: “l’arte, come le ricerche scientifiche e la pubblicazione dei loro risultati, sono libere, purché non ledano le leggi penali” (Salem 1946, 103).
Previsioni di analogo tenore erano contenute nella Costituzione Jugoslava del 3 settembre 1931, che stabiliva all’articolo 15: “le scienze e le arti sono libere”; ripreso in quella della Repubblica federale popolare di Jugoslavia del 25 novembre 1945, all’articolo 36: “è garantita la libertà del lavoro scientifico ed artistico. Lo Stato aiuta le scienze e le arti, allo scopo di sviluppare la cultura nazionale ed il benessere nazionale” (Gatta 1946, 45 e 143); e da quella portoghese salazarista del 19 marzo 1933, che inseriva all’articolo 43 paragrafo 2 l’idea di una tutela e promozione delle arti nel rispetto delle gerarchie e dell’azione coordinatrice dello Stato (Fancelli 1946, 63). Soltanto nella Costituzione austriaca del 1930, ed in quella spagnola del 1931, erano invece presenti dichiarazioni più precisamente attinenti la tutela delle attività e dei Beni culturali. La Costituzione federale della Repubblica d’Austria, del 1° gennaio 1930, stabiliva, tra le competenze federali, l’attività legislativa ed esecutiva su di un insieme di materie tra le quali anche
servizi scientifici e tecnici degli Archivi e delle Biblioteche; collezioni ed impianti artistici e scientifici; questioni relative al Teatro federale, ove peraltro non sia implicata l’impronta architettonica della costruzione, né l’esecuzione di restauri che tocchino l’aspetto esteriore dell’edificio; tutela dei monumenti; affari di culto; censimenti ed altre statistiche, in quanto non servano unicamente agli interessi di singole Regioni; fondazioni e lasciti pubblici, sempre che si tratti di fondazioni e lasciti che per i loro scopi oltrepassino la sfera d’interesse di una Regione e non siano finora state amministrate in forma autonoma dalle Regioni (Traversa 1946, 126-127).
L’articolo 45 della Costituzione repubblicana promulgata in Spagna il 9 dicembre 1931, conteneva una previsione ancor più incisiva:
tutta la ricchezza artistica e storica del paese – si affermava infatti – qualunque ne sia il proprietario, costituisce tesoro culturale della Nazione, e sarà posta sotto la salvaguardia dello Stato, che potrà proibirne l’esportazione e l’alienazione, e decretare le espropriazioni legali che ritenga opportune per la sua difesa.
Si prevedeva l’istituzione di un “registro della ricchezza artistica e storica”, di cui si sarebbe assicurata la “gelosa custodia” e la “perfetta conservazione”. Al secondo capoverso si affermava inoltre: “lo Stato proteggerà anche i luoghi notevoli per la loro bellezza naturale e per il loro riconosciuto valore artistico e storico” (Pierandrei 1946, 105).
Nella cornice di questi esempi, spiccava infine, per l’importanza avuta come modello di riferimento critico nel corso degli anni Venti-Trenta, soprattutto in relazione al problema del crollo del regime rappresentativo democratico in un ordinamento politico e sociale disomogeneo, l’esempio della Costituzione di Weimar, cui gli stessi costituenti repubblicani spagnoli, come aveva cura di ricordare Pierandrei nell’introduzione al volumetto edito nel 1946, si erano ispirati. La giuspubblicistica italiana degli anni Venti non aveva in realtà riservato una attenzione profonda al tentativo weimariano: sia per il fallimento che presto lo aveva travolto, sia per la relativa sufficienza con cui più in generale la cultura italiana guardava alla cultura tedesca dopo la sconfitta subita dal Reich nel primo conflitto mondiale. La visuale di trasformazione che in Italia si andava delineando a partire dalla crisi dello Stato liberale e con i primi segnali di instaurazione del regime, veniva letta più agevolmente attraverso l’“antiformalismo” di autori come Triepel, Smend, Schmitt, Heller, Koellerreuter. Tuttavia il caso tedesco, ed il fallimento della Costituzione di Weimar, furono al centro della riflessione perlomeno di due giuristi che segnarono il dibattito accademico e l’insegnamento universitario tra la fine degli anni Venti ed i primi anni Trenta. Il primo fu Luigi Rossi, uomo politico della destra liberale, collegato, come costituzionalista, alle origini del formalismo giuridico di Orlando, ma attento – in ragione di una spiccata sensibilità comparatistica – alla considerazione ed allo studio sistematico della produzione costituzionale tedesca. L’altro fu Sergio Panunzio, titolare a Roma della cattedra di Dottrina generale dello Stato, attento in particolare al crogiolo weimariano. Proprio a questi due studiosi si era legato tra il 1929 ed il 1930 quel Mortati che – visto protagonista del dibattito in tema di norme programmatiche – dette un contributo fondamentale anche alla traslazione in Italia di quel processo di sviluppo novecentesco del diritto pubblico, corrispondente alla sostanziale trasformazione dello Stato da Stato liberale in Stato democratico-sociale che si palesava come fenomeno caratterizzante il Novecento europeo e che per esempio nella Costituzione della IVs Repubblica Francese sanciva il dovere dei costituenti di rétablir la societé, fissando un elenco di diritti individuali e sociali alla cui attuazione erano impegnati i pubblici poteri per il raggiungimento di condizioni di giustizia ed eguaglianza sociale oltreché di libertà individuali negative (Antonetti 1999, 83). Nell’introduzione a La Costituzione di Weimar, pubblicata proprio nel 1946 nella collana del ministero per la Costituente, Mortati riconosceva infatti, dopo una serie di raffinate distinzioni su contenuti e forma giuridica del testo, come la legge fondamentale tedesca del 1919 fosse in definitiva “espressione di quella fase di transizione fra forme di civilizzazione diversa, nella quale si svolge il travaglio costituzionale della nostra epoca” (Lanchester 1998, 340)10.
E, sulla base delle categorie schmittiane, affermava chiaramente che ciò che distaccava la Costituzione di Weimar da quelle che l’avevano preceduta fosse il superamento del principio individualistico e l’affermazione della priorità del sociale. Con Weimar, in definitiva, era nato secondo Mortati lo “Stato democratico moderno”, nel quale “le istituzioni rappresentative della tradizione giusliberale erano state sostituite dal popolo che aveva assunto la funzione di organo supremo e di ultimo decisore” (Antonetti 1999, 83-84).
Anche l’articolo 9 della Costituzione italiana superava il silenzio fatto in materia di tutela dei Beni culturali e del paesaggio dallo Statuto Albertino con una assimilazione significativa di quell’articolo 150 della Carta fondamentale tedesca del 1919, secondo il quale “i monumenti storici, le opere d’arte, le bellezze della natura, ed il paesaggio, sono protetti e curati dal Reich”; cui si aggiungeva il principio della competenza del Reich ad evitare l’esportazione all’estero del patrimonio artistico, evidentemente portato del timore di depredazioni cresciuto con le guerre napoleoniche ed il primo conflitto mondiale.
Se evidente è dunque la derivazione tedesca dell’articolo, più complesso è il discorso sull’interpretazione che se ne cominciò a dare, proprio in riferimento a tali ascendenze, come norma volta a configurare uno “Stato di cultura”, ovvero, secondo la definizione ormai classica che ne diede Enrico Spagna Musso nel 1961,
una formula giuridico-costituzionale con cui si designa lo Stato di democrazia classica allorché tuteli la propria democraticità anche tramite la garanzia degli istituti direttamente formativi della cultura in base al riconoscimento del particolare rapporto che collega questa alla sua forma;
e dunque uno Stato che “riconosca l’esigenza, in conformità alla propria forma, di tutelare che la formazione culturale del cittadino avvenga nella forma più ampia e più libera” (Spagna Musso 1961, 55-56).
In effetti, come è stato di recente sottolineato, il dibattito sullo “Stato di cultura” e sul rapporto tra Stato e cultura non si era potuto sviluppare a Weimar per la grave crisi economica e politica, talché il concetto e la tradizione dello “Stato di cultura” sarebbero emersi “soltanto rispetto all’uso delle parole, non però dal punto di vista concettuale” (Stern 1998, 327). In Italia, peraltro, l’interpretazione dell’articolo 9 in riferimento al concetto di “Stato di cultura” trovò la posizione ostile di un filone importante della dottrina, se è vero che nel Commentario del 1975 Fabio Merusi la liquidava come “cattiva traduzione di cattive letture tedesche” (Merusi 1975, 441). Tuttavia, pur con le riserve che un atteggiamento di cautela impone, non sembra inopportuno utilizzare la formula in relazione al principio fissato dall’articolo 9: se non altro in quanto connotato, oltreché dall’elemento liberal-democratico ottocentesco, anche, appunto, dal principio democratico-sociale tipico della transizione costituzionale novecentesca11. E proprio l’impegno alla tutela ed alla promozione del patrimonio culturale, ed il complesso snodarsi delle vicende che lo avrebbero accompagnato a livello politico, istituzionale, economico-giuridico, rappresentarono uno degli aspetti decisivi e più interessanti del rapporto tra continuità e rinnovamento nella politica italiana del dopoguerra.
I lavori della I Sottocommissione nella Commissione dei 75: il ruolo di Concetto Marchesi e di Aldo Moro
Durante la stesura del Progetto di Costituzione, fu la ISottocommissione, all’interno della Commissione dei 75, ad occuparsi della materia dei Diritti e doveri dei cittadini. La Sottocommissione affidò la redazione del progetto dell’articolo inerente la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico – poi confluita nell’articolo 29 del Progetto – al comunista Concetto Marchesi ed al democristiano Aldo Moro. Una prima ragione di questa scelta può ricondursi alla distanza che separava gli altri commissari dal tema in oggetto, o perlomeno alla loro formazione, generalmente indirizzata a tematiche di ordine giuridico ed istituzionale. Dei diciotto membri della Sottocommissione, sette dei quali democristiani, tre socialisti e tre comunisti, ed uno rispettivamente per Unione democratica nazionale, Partito democratico del lavoro, Blocco nazionale per la libertà, Partito repubblicano, Uomo qualunque; ben dodici erano avvocati o giuristi (gli stessi presidente e segretario della Sottocommissione Umberto Tupini e Giuseppe Grassi, oltre a Leonetto Amadei, Lelio Basso, Mario Cevolotto, Camillo Corsanego, Pietro Mancini, Ottavio Mastrojanni, Umberto Merlin, Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, questi ultimi tre, come Grassi, docenti di diritto nelle Università italiane); un funzionario del ministero delle Finanze (il repubblicano Francesco De Vita), e due insegnanti di materie letterarie (Angela Gotelli, democristiana, e Nilde Jotti, comunista); Roberto Lucifero d’Aprigliano, eletto nelle liste del Blocco nazionale per la libertà, ed il segretario del Pci Palmiro Togliatti, erano qualificati come pubblicisti.
Non stupirà in questo senso che, in un gruppo prevalentemente votato all’attività forense, fosse l’umanesimo vivo ed appassionato di Concetto Marchesi ad emergere, con un richiamo al culto della bellezza e dell’arte che veniva in lui dal magistero di Remigio Sabbadini, che lo aveva educato alla pazienza del filologo smussando alcune sue inquietudini giovanili; e da quello di Mario Rapisardi, poeta e pensatore catanese che invece quelle inquietudini aveva acceso col fascino della scapigliatura e la razionalità vendicatrice del carduccianesimo. E che dopo alcuni iniziali studi su Cinna, un accostamento critico a Catullo, e l’esperienza adolescenziale del giornaletto libertario “Lucifero”, si era infine riversata nell’amore per Marziale e Lucrezio, in una ricerca continua del cittadino e soprattutto dell’uomo. Una scelta quella della “poesia dell’uomo universale contro la letteratura della romanità”12, che avrebbe protetto dalla retorica fascista molti studenti di Licei ed Università di tutta Italia, e che si sarebbe posta alla base delle opere più riuscite di Marchesi: l’ampio disegno della Storia della letteratura latina, presto avvicinato per potenza di respiro ed originalità interpretativa a quello dedicato da Francesco De Sanctis alla letteratura italiana; ed i profili di Marziale, Giovenale, Petronio, Fedro. Marchesi, come osservò già nel 1963 Gaspare Campagna guardando ad un frammento delle Divagazioni, sentiva l’arte appunto come “rivelazione e bellezza”, come “gioia, luce, laborum dulce lenimen, dolce conforto della vita affaticata”; un sentimento racchiuso in fondo nelle parole che l’intellettuale catanese aveva scolpito in una bellissima pagina della Storia della letteratura latina affermando:
l’arte rivela agli uomini le cose come nessuna filosofia potrebbe mai fare; li porta nel fondo più buio dell’animo loro, dove mai arriverebbero a vedere, e questo riesce a fare appunto perché essa non vuole rimediare a nessun male, perché non è la voce di una giustizia costituita, perché nella sua libertà sconfinata essa rappresenta anche i mali come bellezze della vita e del destino13.
Sulla formazione umanistica ed il gusto per l’arte di Marchesi, pesava poi, senza dubbio in maniera non trascurabile, la frequentazione dell’ambiente accademico padovano, ove si inverava una lunga tradizione di comunità liberale di studi, che, rottasi la coltre pesante del conformismo fascista, era tornata alla luce dopo essersi conservata nei luoghi della sociabilità, anche fascista, soprattutto giovanile: giornali – su tutti “Il Bo” – e Guf. E nella quale, pure, si era cullata una “orgogliosa coscienza della propria identità”, “in virtù di una secolare tradizione che [la] costituiva asilo di scienza e di cultura, e della sua storia più recente di impegno civile e patriottico, dispiegato nella lotte del Risorgimento, nella passione irredentista e nella partecipazione alla Grande Guerra come Università mobilitata in zona di operazioni. Una tradizione di fede civile e patriottica che (avrebbe animato) il suo generoso impegno nella lotta di Liberazione” (Ventura 1992, 155). Significativo è in questo senso il fatto che Marchesi avesse raccolto, con la nomina a rettore per volontà del governo Badoglio il 1° settembre 1943, l’eredità di un archeologo come Carlo Anti, cresciuto alla scuola di Gherardo Gherardini ed Emanuele Loewy14: certamente un “convinto fascista”, come sottolinea la più recente storiografia (Del Negro 2001, 115), ma che sin dal quadriennio 1929-1932, durante il quale era stato preside della Facoltà di Lettere, e poi nel corso del suo lungo rettorato, si era distinto per una vocazione di studioso di rango, interessato soprattutto ad accrescere il prestigio dell’Ateneo (Ventura 1989, 333)15. E, appunto, di arricchirlo ed abbellirlo anche da un punto di vista architettonico: il problema edilizio – il completamento dei lavori al Bo ed al Liviano, la costruzione dell’Istituto di Fisica, il moderno Policlinico – fu gestito da Anti con indubbia abilità presso lo stesso Mussolini per quel che riguardò gli aspetti burocratici e finanziari; e con la capacità di attrarre a Padova alcuni tra i più brillanti artisti dell’epoca, come il coinvolgimento di Gio Ponti per il Liviano basterà a testimoniare16.
Di diversi anni più giovane di Marchesi, essendo nato a Maglie il 23 settembre 1916, Aldo Moro emergeva nella composizione generazionale, culturale, e socio-professionale dell’Assemblea costituente e della Commissione dei 75, come uno dei più promettenti tra i “professorini” vicini al solidarismo cattolico di Giuseppe Dossetti. Laureato nel 1938, assistente volontario per un breve periodo, Moro aveva ottenuto il primo incarico universitario già tre anni dopo, nel 1941, con l’insegnamento di Filosofia del diritto, ed aveva conseguito l’anno successivo, nel 1942, la libera docenza nelle materie penalistiche, sempre sotto la guida attenta e generosa del suo maestro Biagio Petrocelli, che gli sarebbe valsa, nel 1951, il titolo di professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Bari. Accanto a quello scientifico, e con una peculiare apertura ai problemi della società e dello Stato favorita proprio dallo studio della Filosofia giuridica, l’impegno politico e culturale era emerso come dimensione centrale nella vita del futuro statista pugliese sin dall’iscrizione alla Federazione degli universitari cattolici italiani di cui era diventato dapprima presidente del circolo barese nel 1937, e poi presidente nazionale nel 1939. L’adesione alla Fuci, come per molti altri dei futuri dirigenti democristiani (Guido Gonella, Benigno Zaccagnini, Giulio Andreotti, che gli era succeduto alla presidenza nel 1942, quando Moro era stato richiamato alle armi), aveva rappresentato una palestra di confronto con l’evoluzione della società italiana oltreché di distacco dal regime, soprattutto dopo la “virata germanofila” impressa da Mussolini nel 1935 e nonostante che Moro, come altri, avesse interpretato il proprio lealismo istituzionale in senso pieno, come dimostra la giovanile esperienza nei “Littoriali”. La rivista “Azione fucina”, organo dell’associazione sul quale Moro aveva cominciato presto a scrivere, aveva evidenziato del pari le sue doti di giornalista, definitesi poi con la fondazione (insieme ad intellettuali baresi di estrazione liberale come Antonio Amendola, Armando Regina, Pasquale Del Prete) de “La Rassegna”, pubblicata dal novembre 1943 alla fine del 1945. Era stato infine proprio il 1945 a rappresentare l’anno di svolta ed il passaggio dall’“azione cattolica” all’“azione politica”. Innanzitutto per il distacco dagli orientamenti qualunquisti assunti da “La Rassegna” e la definitiva adesione alla Democrazia cristiana, di cui sempre meglio aveva potuto conoscere ed apprezzare contenuti programmatici e linee teoriche grazie all’azione svolta da Roma da Alcide De Gasperi. Poi, appunto, con l’elezione all’Assemblea costituente e l’affermazione come dirigente politico di primo piano nel proprio partito, per il quale sarebbe stato eletto deputato nel 1948, ormai resosi autonomo anche dalle residue influenze della curia barese che pure lo avevano favorito all’inizio caldeggiandone l’ascesa. Tra il 1945 ed il 1948, tra i diciotto, intensi mesi, di lavoro in Costituente, e l’elezione alla Camera, l’impegno di Moro si definì ancor meglio nella doppia matrice politica e culturale attraverso la collaborazione alla rivista “Studium” – organo del Movimento laureati cattolici di cui egli fu presidente nel biennio 1945-46 – della quale assunse la direzione nel 1946 mantenendola fino al 1948. Non rileva soltanto l’ampiezza degli orizzonti tematici e la vastità degli interessi, oltre al confronto con la cultura giuridica del tempo che per Moro si declinava in un rapporto dialettico con i maggiori studiosi dell’area italiana (oltre ad Orlando e Romano, Francesco Carnelutti e Giuseppe Capograssi), e dell’area tedesca (Hans Kelsen e Rudolf Jhering), ed in un avvicinamento, tipico della generazione cattolica passata attraverso il fascismo, al personalismo di Maritain. Emerse nell’esperienza di “Studium” il profondo rispetto per la laicità della politica, di cui pure egli si impegnava a sottolineare le basi e le motivazioni religiose. Emerse soprattutto – in particolare nella rubrica “Osservatorio” – il dialogo serrato con quelli che egli intese sin dall’inizio come “altri umanesimi” tesi a dare risposte, pur diverse, al problema della ricostruzione della civiltà e della personalità umana dopo la barbarie del fascismo e della guerra: con l’azionismo, in particolare, attraverso la lettura costante de “Il Ponte”, ed ancor più con il socialismo attraverso le pagine dell’“Avanti!”, minore essendo invece l’attenzione al comunismo che egli considerava radicalmente antitetico al cristianesimo.
E tuttavia, proprio nella collaborazione con Marchesi alla redazione degli articoli sui problemi culturali, dell’insegnamento, dell’organizzazione scolastica, Moro fece mostra di una capacità di attenzione al confronto ed al dialogo che sempre, del resto, lo avrebbe accompagnato nel corso della sua carriera politica, soprattutto nella fase più alta. Larghi consensi, così, gli procurò ad esempio l’intervento sugli articoli 1, 6, 7 durante il quale egli ebbe tra l’altro a sottolineare l’importanza del pluralismo culturale e della mediazione come principio fondamentale per la costruzione del nuovo Stato, affermando:
costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza, non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato.
Ed ancor più significativa fu la relazione, nella ISottocommissione, sui Principi dei rapporti sociali e culturali, già esemplare, nel titolo, di una concezione della cultura, e della scuola come sua più alta espressione, irriducibile ai soli “rapporti sociali”, ma pienamente compenetrata in una visione della società e dello Stato tesa all’esplicitazione più piena del diritto di libertà e della tutela della persona:
le dichiarazioni costituzionali in materia di educazione – affermava in questo senso – non devono servire solo a garantire questo diritto fondamentale della persona umana, ma anche ad indicare il significato umanistico ed etico dello Stato, che, perseguendo come supremo interesse collettivo lo scopo della cultura, lascia alle persone libertà sufficiente per formarsi in senso etico ed umano e non dà esso stesso con arbitraria sopraffazione, a differenza dello Stato totalitario, i criteri di misura di quel che è etico ed umano17.
Fu a questo obiettivo di esplicitazione della libertà umana che il lavoro dei Commissari incaricati della redazione delle norme comprese nei Principi fondamentali, più in generale, si ispirarono. E se non può negarsi che la difficoltà di dare effettiva applicazione all’articolo 9 derivasse non solo dalle condizioni particolarmente gravi in cui, sul piano economico, l’Italia versava nei primi anni del dopoguerra, e dal modo altrettanto particolare in cui da esse si trasse durante il “miracolo economico”, ma anche dai profondi rapporti di continuità che non solo le strutture amministrative di tutela del patrimonio culturale, ma anche il personale deputato alla loro gestione e più in generale l’intera classe intellettuale italiana nutriva con il fascismo; tuttavia è altrettanto indiscutibile che proprio l’articolo 9 avrebbe costituito la base di partenza per un dibattito destinato a fruttare non solo una maturazione progressiva della consapevolezza, della coscienza e della percezione stessa dell’importanza del patrimonio culturale, ma anche una elaborazione moderna della stessa idea di patrimonio, che ci rimane oggi in eredità come elemento fondamentale di appartenenza nazionale e di convivenza civile.
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Contenuti correlati
- Alcune rilevanti eccezioni, in questo quadro prevalentemente ancorato ad una analisi tecnico-giuridica, sono da segnalare, proprio a merito di giuristi; ci si riferisce in particolare a Ainis, Fiorillo 2008; Frigo 2007; Assini, Cordini 2006. [↩]
- Sul ruolo di Donati come organizzatore di cultura e maestro degli studi cfr. Falcon 1978, 276-279. [↩]
- Sul Novecento come “secolo della crisi dello Stato”, o della “eclissi dello Stato” secondo l’espressione coniata da Santi Romano, torna di recente Sandulli 2006, 77 ss. [↩]
- Cfr. Cecchetti 2006, che esprime l’opinione oggi prevalente in dottrina. [↩]
- Così si espresse nella I Sottocommissione Palmiro Togliatti nella seduta del 18 ottobre 1946, citato da Amirante 1999, 74. [↩]
- Per il testo del programma dell’Alleanza Ajello 1979, 481. [↩]
- “La Costituzione – ha affermato di recente in maniera nitida Gaetano Silvestri (2006, 593-594) – è base fondativa di una ‘etica repubblicana’ che ha fatto tesoro della tradizione liberale, integrandola con il magistero morale del solidarismo cristiano e con le istanze egualitarie della sinistra marxista. A sessant’anni di distanza non ci poniamo più il problema se la libertà personale sia principio liberale o se il diritto alla salute sia principio socialista, o ancora se il dovere di pagare le tasse in ragione della propria capacità contributiva sia principio solidaristico. La progressiva attuazione legislativa dei diritti e la loro precisazione nella giurisprudenza della Corte Costituzionale dopo sei decenni mostra che la fusione è talmente riuscita che la stessa distinzione tra libertà negative e positive tende a diventare più una comodità classificatoria che una realtà giuridica viva ed operante”. [↩]
- Nell’ampia letteratura sui diritti sociali cfr. il recente volume di Caretti 20052, 91. [↩]
- Furono pubblicati interventi su La Costituzione della IVa Repubblica Francese, pp. 690-772 (cfr. anche Pierandrei 1951); Stati Uniti, 1952, pp. 399-466; Nuove Costituzioni di Stati del Vicino Oriente e dell’Africa, 1953, pp. 686-754 (cfr. anche Giannini 1954); ed interventi sulle Costituzioni albanese (1946) e bulgara (1947), 1954, pp. 644-687; ed uno sulla Costituzione ungherese del 1949, 1955, pp. 171-188. [↩]
- In generale tutto il saggio è un utile punto di riferimento per comprendere le ascendenze della cultura giuridica tedesca su Mortati e su tutta la giuspubblicistica italiana. [↩]
- In questo senso si esprime Ainis 1991, 26 ss, e, in maniera più decisa, Rimoli 1992, 157-164. [↩]
- È la definizione che ne dà La Penna 1980, 33. [↩]
- Passi tratti rispettivamente da Divagazioni, p. 39 e Storia della letteratura latina, vol. I, p. 499, entrambi citati da Campagna 1963, 37, con un’appendice di pagine politiche e di varia umanità presentate da Ezio Franceschini. Lo stesso Franceschini (1978, 306), illustrando il rapporto tra Sabbadini e Marchesi, evidenziava però la distanza tra il maestro, “lavoratore ostinato e tenace, ricercatore, erudito, filologo di sconfinata dottrina”, e l’allievo, che egli definiva “nato per l’arte, per la contemplazione del bello, per quel non pensare a nessuna cosa che è la possibilità di pensare a qualunque cosa”. [↩]
- Con il primo Anti si era laureato nel 1911 a Bologna, dell’altro aveva seguito gli insegnamenti alla Scuola archeologica di Roma. [↩]
- Senza dubbio eccessivo, in questo senso, appare il giudizio che nel 1962 ne dava Polacco (p. 62), definendolo un intellettuale “senza dubbio politicamente qualificato, ma mai subordinato”, e difensore del principio, vissuto come un dogma, dell’autonomia della scienza. Da notare che l’Autore citava a suffragio di questa tesi non solo la chiamata, voluta da Anti, alla cattedra padovana di Egidio Meneghetti, che avrebbe guidato il locale Cln dopo l’8 settembre, ma anche il fatto che “la sua educazione morale e la cortesia dei suoi costumi gli impedivano di credere al razzismo”, come avrebbe provato la difesa fino all’ultimo opposta, sfruttando alcune eccezioni previste dalle leggi razziali, all’allontanamento dall’Università di Tullio Terni. Ventura (2005), che ricostruisce in dettaglio la vicenda, riconosce ad Anti un comportamento in questo caso “singolarmente coraggioso e compromettente”, ma allo stesso tempo “contraddittorio rispetto al rigore dimostrato nell’applicazione delle norme discriminatorie, ed all’aperta e motivata adesione alla politica razzista ed ai provvedimenti contro gli ebrei, espressa nel discorso pronunciato il 14 novembre 1938 all’inaugurazione del nuovo Anno Accademico”. L’Autore legge in ciò una contraddizione “tipica” delle autorità accademiche: “adesione, accettazione acquiescente delle leggi razziali, e per contro aiuto prestato individualmente ad amici e colleghi ebrei, senza violare le norme di legge e le disposizioni delle superiori autorità” (19-20). Cfr. anche in proposito Ventura 1992, 162. [↩]
- Cfr. la lunga relazione scritta da Anti nel “foglio di consegne” per Marchesi al momento della nomina di quest’ultimo a Rettore, pubblicata in Ventura 1992, 187-222. [↩]
- Cfr. in proposito Loiodice, Pisicchio 1984, soprattutto XV-XVI; e, a sottolineare l’idea dell’incontro tra le grandi culture popolari, Formigoni 1997, 27-28. [↩]