Andrea Giovanni Noto
La ricerca sui totalitarismi, tra i temi più fecondi della riflessione storiografica novecentesca, si arricchisce del recente volume Antifascismo e antitotalitarismo. Critici italiani del totalitarismo negli anni Trenta curato da Santi Fedele per i tipi della Rubbettino (2009). L’Autore, fra i massimi studiosi dell’argomento, tratteggia un’interessante panoramica di alcune significative voci dell’antifascismo italiano in esilio che, per prime, hanno manifestato particolare attenzione nel ravvisare delle caratteristiche comuni tra fascismo, nazismo e comunismo sovietico, facendo ricorso all’“utilizzo della categoria interpretativa del totalitarismo quale strumento comparativo tra radicalismi di destra e sinistra” (p. 7).
Tale innovativa posizione concettuale risulta ancora poco diffusa nel clima politico degli anni ’30 del XX secolo, dominato dal mito fortissimo dell’Unione Sovietica, che si caratterizza – secondo le osservazioni di Giovanni Sabatucci – per la sua duplice veste di “primo esperimento di società socialista, che va comunque difeso, in nome dell’unità proletaria, dagli attacchi dei nemici di classe e messo in grado di sviluppare al massimo le sue mai discusse potenzialità liberatrici” e, successivamente alla svolta politica dei Fronti popolari del 1934 e alla guerra civile spagnola del 1936-1939, di “grande potenza antifascista, unico baluardo valido contro il dilagare della minaccia mussoliniana e hitleriana, unico punto di riferimento sicuro per il proletariato mondiale”1.
Lo straordinario valore mitico esercitato dalla “patria del socialismo internazionale”, capace di non venire inficiato né dalle accuse terzainternazionaliste di “socialfascismo” rivolte dai comunisti ai settori dell’antifascismo non legati organicamente a Mosca né, per contro, dalla consapevolezza della degenerazione autoritaria e liberticida del sistema sovietico largamente presente in esponenti di primissimo piano dell’antifascismo democratico, repubblicano, giellista e socialista quali Nenni o Rosselli, avrebbe continuato infatti a protrarsi in termini sostanzialmente invariati fino all’approssimarsi della Seconda guerra mondiale.
L’idea di un raffronto valutativo tra l’Italia fascista, la Germania nazista e la Russia sovietica, dunque, trova accoglimento presso personaggi differenti per impostazione politico-ideologica e sensibilità personali che l’Autore passa in rassegna all’interno della sua lunga e particolareggiata Introduzione al libro, offrendone a corredo dei commenti esplicativi e una cornice storica di riferimento. Si tratta di grandi protagonisti della storia politica italiana della prima metà del Novecento quali Gaetano Salvemini, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, del fondatore di Giustizia e Libertà Carlo Rosselli e di uno dei più validi collaboratori degli omonimi “Quaderni” Nicola Chiaromonte, di membri del movimento anarchico quali Camillo Berneri e Luigi Fabbri, di socialisti massimalisti come Angelica Balabanoff, di personalità significative poste al di fuori degli schieramenti politici quali l’illustre studioso di storia dell’arte Lionello Venturi, molto noto anche per essere stato uno dei dodici docenti universitari che sul finire del 1931 subirono la perdita della cattedra per essersi rifiutati di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista, il “socialista irregolare” Andrea Caffi, il “trockista atipico” Bruno Rizzi.
Nel caso di Salvemini, Nitti e Sturzo, figure diverse per formazione culturale, ispirazione ideale, collocazione politica, ma legati dall’interesse per la questione meridionale – dovuta molto probabilmente alla loro origine di uomini del Sud – e dalla netta e inflessibile opposizione al regime mussoliniano, scontata tramite un lungo e doloroso esilio, Fedele sottolinea un ulteriore aspetto di comunanza, rimasto finora un po’ in sordina, rappresentato dagli esiti affini delle loro rispettive elaborazioni teoriche. Sebbene non si tratti di “compiute trattazioni condotte all’insegna delle griglie interpretative elaborate dalla sociologia politica sulle quali si sarebbe innervata la ricerca sui totalitarismi dopo la Seconda guerra mondiale”, queste costituiscono tuttavia, come precisa l’Autore rimarcando l’utilizzo testuale dei termini “totalitario” e “sistemi totalitari” per indicare sia il fascismo e il nazismo sia il bolscevismo, delle acute considerazioni critiche capaci di “anticipare, seppure in nuce e a livello intuitivo, conclusioni cui la ricerca sociologica e storica sarebbe pervenuta anni se non decenni dopo” (p. 10).
Doti di grande onestà intellettuale e coerenza politica permeano l’intervento del dirigente socialista molfettese nel corso dei lavori del Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi nel 1935 per iniziativa di un gruppo di intellettuali francesi filocomunisti capeggiati da André Malraux, André Gide, Romain Rolland ed Henri Barbusse e svoltosi alla presenza di 230 delegati in rappresentanza di ben 38 paesi.
In netta contrapposizione rispetto all’orientamento prevalente nel consesso, improntato al più forte scetticismo nei confronti delle deboli democrazie occidentali e intento a suscitare un moto di simpatia verso l’Unione Sovietica ormai ritenuta l’unico punto di riferimento per quanti intendano battersi contro il dilagare del fascismo in Europa, Salvemini non esita a puntualizzare la pericolosità di una semplicistica equiparazione tra tirannide fascista e “democrazia borghese”, giacché un simile accostamento avrebbe potuto concorrere a distruggere i “frammenti di libertà intellettuale” presenti nelle società borghesi, giudicati sì insufficienti e bisognosi di un deciso ampliamento ma nello stesso tempo pregevoli e difficili da riacquistare una volta perduti.
A ciò si aggiunge, inoltre, un vigoroso e polemico affondo ai danni del tono celebrativo ed entusiastico usato dagli intellettuali comunisti per ritrarre la situazione di “perfezione” creatasi in Russia dopo la rivoluzione del 1917, di cui si rimarcano, al contrario, al pari dei regimi nazi-fascisti, brutture, violenze e strette liberticide ai danni degli oppositori e di semplici cittadini (vengono ricordati, ad esempio, la questione Victor Serge e l’impossibilità di leggere la Storia della rivoluzione russa di Trockij).
Una parola forte e dall’alto valore etico quella di Salvemini che, come nota giustamente Fedele, suona a ragione “ammonitrice”, venendo pronunciata da chi è passato “attraverso l’esperienza di uno Stato totalitario, non fra i dominatori, ma fra coloro che sono stati schiacciati” (p. 40).
Ugualmente coraggiosa e decisa appare la condanna di Sturzo nei riguardi dei fenomeni di “idolatria collettiva” che uniscono i sistemi totalitari di Italia, Germania e Urss all’insegna dell’obiettivo di accrescere il consenso e legittimare il potere assoluto di chi “incarna il mito fondante del regime”, sia esso la nazione, la classe o la razza: la frequente pratica dei pellegrinaggi alla tomba di Lenin, divenuta “oggetto di culto e di esaltazione religiosa”, lo sviluppo in Germania del culto dello spirito della razza ariana a cui si immolano vittime “in mezzo a canti di adorazione e di orgia”, la tendenza in Italia alla divinizzazione di chi governa attraverso il quieto assecondare di alcune inclinazioni superstiziose degli strati popolari avvezzi a conservare “con venerazione” oggetti toccati o usati da Mussolini perché ritenuti portatori di virtù taumaturgiche o tramite il continuo inculcare di idee-mito presso le masse con ogni mezzo a disposizione. Espressioni tutte diametralmente antitetiche al messaggio universalistico di amore, uguaglianza e fraternità diffuso da Cristo, solo in nome del quale, secondo il sacerdote di Caltagirone, con “vivo spirito di fede” è possibile che tali false divinità vengano “combattute e detronizzate” (pp. 41-43).
Altra penetrante analisi sull’argomento si deve a Nitti con La disgregazione dell’Europa, opera edita per la prima volta nel 1938 e da cui il libro riporta alcuni brani rappresentativi. Per l’insigne politico di Melfi, fatte salve le differenze derivanti dai diversi contesti nazionali e dalle opposte aspirazioni ideali, fascismo, nazismo e comunismo sovietico rientrano nell’alveo dei sistemi totalitari e presentano pertanto alcuni elementi comuni: l’esistenza di un partito unico nella veste di esclusivo detentore del potere, al di fuori del quale i cittadini non possono esprimersi e a cui perfino lo Stato è costretto ad assoggettarsi; la “divinizzazione del capo”, considerata “la prima necessità fondamentale” verso cui tende ogni totalitarismo; la creazione di grandi miti palingenetici (l’ideale di potenza e di impero per Mussolini, i valori della razza e del pangermanesimo per Hitler, la realizzazione sulla base della Diamat o dialettica materialistica di una società egualitaria destinata alla prosperità e alla felicità per Lenin e Stalin) capaci di suscitare presso le masse sentimenti di mistica attesa di uno sconvolgente rinnovamento socio-politico; il controllo sistematico e il “servilismo” di intellettuali, università, teatro, cinema, stampa e radio allo scopo di ottenere l’indottrinamento delle masse; la subordinazione di tutte le forme attinenti alla sfera economica, culturale e spirituale; la gestione dell’educazione della gioventù affidata esclusivamente al partito.
Dalla lettura di Antifascismo e antitotalitarismo, poi, traspare con chiarezza il notevole ruolo avuto nello sviluppo di un simile dibattito da quel grande “laboratorio” di cultura politica che fu la rivista “Quaderni di Giustizia e Libertà”, pubblicata a Parigi sotto la direzione di Rosselli dove apparvero originariamente cinque dei tredici articoli riportati nel volume2. Tra i nuclei problematici che si rinvengono al loro interno massima centralità ottiene la difficile e controversa disamina dell’esperimento di edificazione del socialismo in Unione Sovietica, visto ora con accenti molto duri e negativi, come nel caso di Andrea Caffi e Lionello Venturi, ora con toni più morbidi e ammettendo delle opportune puntualizzazioni come per Carlo Rosselli e Nicola Chiaromonte.
Se Caffi, diretto conoscitore della realtà della Russia rivoluzionaria passato anche attraverso l’arresto nel 1920, nel suo saggio Opinione sulla rivoluzione russa scritto nel 1932 non manca di evidenziare molti dei terribili meccanismi attuati in direzione di un sistema oppressivo e coercitivo (fallimento dei piani quinquennali, violenze e inutile “mare di sangue” versato, campi di concentramento, accentramento burocratico, militarismo, arbitrii polizieschi) e parla di evidenti affinità tra la “dittatura” imposta da Stalin e gli altri “mostruosi parti dell’epoca”, altrettanto fa Venturi dal suo esilio transalpino quando pubblica all’inizio del 1935 sotto forma di impressioni di viaggio riportate dalla visita in Italia, Germania e Urss un emblematico pezzo dal titolo Tre dittature, nel quale oltre a ripetere caratteristiche accomunanti i tre radicalismi non può fare a meno di chiedersi come intellettuali dello spessore di Rolland, Gide, Shaw, abbiano potuto aderire al comunismo non teorico ma realizzato dal governo di Mosca, definito non a caso “lo Stato-Moloch più spietato che la storia ricordi” (rispettivamente pp. 52-53 e 62).
I giudizi di Caffi e Venturi trovano solo parziale accoglimento nell’entourage della rassegna parigina, tanto è vero che entrambi gli articoli sono seguiti da note redazionali facilmente attribuibili al massimo dirigente giellista, sebbene rechino la firma dello pseudonimo Curzio o siano del tutto prive di titolo. Pur non contestando la veridicità delle “analogie di natura formale” tra i tre sistemi totalitari e ritenendo la dittatura staliniana quasi più “spietata” di quelle fasciste, questi non può fare a meno di richiamare la necessità di distinguere tra le “atrocità dittatoriali” e la “grande rivoluzione” che ha pur sempre sconfitto l’autocrazia e che, a suo parere, va perciò comunque amata e difesa a denti stretti (pp. 20-21).
La prepotente influenza del mito rivoluzionario dell’Ottobre rosso funge, dunque, da premessa indispensabile per comprendere la mancanza di qualunque ipotesi di comparazione tra la vicenda russa e quella italo-tedesca, nonostante se ne arrivi a penetrare a fondo la loro essenza liberticida, sia in Rosselli, come dimostra l’assenza di riferimenti al regime bolscevico nel brano Italia e Europa contenuto nel libro di Fedele, sia in Chiaromonte, che, fatta eccezione per un accenno all’interno dell’articolo Ufficio stampa nei confronti della manipolazione dell’opinione pubblica e della volontà di imporre il servilismo in Unione Sovietica, si pone sulla stessa lunghezza d’onda e finisce piuttosto per elaborare acute intuizioni attinenti ai regimi nazi-fascisti (la tesi dei fascismi intesi come espressione di “sprofondamento sociale” e di sgretolamento delle tradizionali divisioni classiste, il rapporto dialettico tra il potere e le masse, la paradossale distruzione dell’idea di nazione come patrimonio condiviso di valori in cui tutti possano riconoscersi)3.
Il condizionamento ideologico, tuttavia, non agisce su certi gruppi di estrema sinistra, come i socialisti massimalisti e soprattutto gli anarchici che con maggiore anticipo percepiscono “i segni premonitori dei processi degenerativi insiti nella pratica bolscevica della dittatura del proletariato” (p. 30), anche in virtù dell’asprezza di toni cui giunge lo scontro politico dentro lo schieramento antifascista in seguito allo scatenarsi del conflitto in Spagna. Ne offrono un chiaro esempio l’articolo di Angelica Balabanoff pubblicato nell’“Avanti!” per il ventennale della Rivoluzione d’ottobre, in cui si registra l’importantissimo riconoscimento della presenza in embrione nel leninismo di “germi di degenerazione” del socialismo che si sarebbero sviluppati a pieno sotto Stalin, quello di Fabbri sulle comuni strategie di consenso attuate dal regime mussoliniano e da quello bolscevico in Russia, quello di Berneri, consapevole che il governo di Mosca ha dato vita al capitalismo di Stato e al dominio dell’“autocrazia burocratica” sulla stragrande maggioranza della popolazione, un tema che troverà profondamente concorde Bruno Rizzi, autore de La Bureaucratisation du Monde del quale Fedele riporta il primo capitolo, il pezzo giornalistico della testata anarchica “L’Adunata dei Refrattari” di New York, in cui fascismo e bolscevismo sono definiti “regimi fratelli”di matrice autoritaria.
La stipula del Patto Ribbentrop-Molotov tra i governi di Mosca e Berlino nell’agosto del 1939, accolta dallo sconcerto e dalla delusione del fronte antifascista italiano che, ad eccezione dei comunisti rimasti appiattiti sulle nuove linee della politica estera sovietica, si sarebbe levato vigorosamente contro il “grande tradimento” compiuto da Stalin nei confronti del movimento operaio internazionale, avrebbe inferto una più profonda e marcata incrinatura alla valenza mitica dell’Ursse avrebbe finito pesantemente per incidere sulla riflessione storiografica post-bellica in tema di totalitarismi.
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- G. Sabatucci, Il mito dell’URSS e il socialismo italiano, in L’URSS, il mito, le masse, Milano, Angeli, 1991, pp. 57-58. In generale si veda l’ormai classica opera di F. Furet, Il passato di un’illusione: l’idea comunista nel XX secolo, Milano, Mondadori, 1995. [↩]
- Al riguardo si rimanda a S. Fedele, E verrà un’altra Italia: politica e cultura nei Quaderni di Giustizia e Libertà, Milano, Angeli, 1992. [↩]
- Gli articoli di Chiaromonte che fanno parte del volume di Fedele sono Ufficio stampa del 1933 e La morte si chiama fascismo del gennaio 1935. [↩]