di Andrea Ragusa
Curata con precisione e ricchezza analitica da Ginevra Avalle, con una prefazione puntuale di Mauro Moretti, esce per i tipi Lacaita, nella collana “Strumenti e Fonti” della Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati” di Firenze, una antologia delle lettere inviate a Giovanni Pieraccini negli anni 1937-1943, parte dell’assai più ampio fondo riversato nell’archivio personale che lo stesso Pieraccini ha donato alla Fondazione Turati – insieme a parte della propria biblioteca – tra maggio e giugno 2009. Si tratta – come indica opportunamente la Avalle nell’introduzione – di un corpus di missive versato in un momento successivo rispetto alla prima donazione, e raccolto ed organizzato personalmente da Pieraccini in un fascicolo relativo agli “anni pisani” nel quale è dato rinvenire, accanto a quelli presenti nell’antologia che qui consideriamo, altri e non meno rilevanti protagonisti di quella storia generazionale – da Enzo Capaccioli a Luciano Codignola a Ruggero Zangrandi, per non fare che tre nomi – o personaggi che, pur destinati ad un ruolo pubblico meno evidente, hanno comunque rivestito un peso decisivo nella formazione dello stesso: da Aldo Arrighi a Carlo Barsotti, da Paolo Forchielli a Giuseppe Franchi, da Amato Pennasilico ad Alfredo Tanganelli a Walter Villa. Anche per questo, ovvero per la complessa e stratificata sedimentazione dei materiali, l’accostamento all’archivio Pieraccini che questa pubblicazione rende per la prima volta possibile, rappresenta motivo di interesse innanzitutto tecnico. L’archivio Pieraccini è da considerare infatti – dice la Avalle – un archivio “aperto”: non ancora completato è il riordinamento delle carte degli “anni pisani”, ma soprattutto non ancora compiuto è il versamento dell’intero materiale, “come si desume dal continuo versamento di documenti che riguardano soprattutto i tempi più recenti” (pag. 34).
Nella sua lunga carriera politica, del resto, Giovanni Pieraccini è stato non solo un dirigente socialista di primissimo piano – come evidenzia appena il fatto che sotto la sua direzione l’“Avanti!” abbia vissuto un sensibile rinnovamento in senso moderno aprendosi, negli anni plumbei dello zdanovismo e dei suoi esiti, alle nuove sensibilità artistiche emergenti non solo in Italia – ma anche uomo del governo e delle istituzioni: parlamentare per sei legislature – prima Deputato poi Senatore – Ministro dei Lavori Pubblici, del Bilancio e della Programmazione Economica, della Marina Mercantile, della Ricerca Scientifica, nel decennio cruciale del centro-sinistra, dal 1963 al 1974; Presidente di Assitalia dal 1978 al 1988; Presidente della Fondazione RomaEuropa.
Un impegno vissuto sempre in maniera intensa, dal solido ancoraggio dei valori e della cultura socialista, ma non meno grazie ad una curiosa e vivacissima sensibilità personale che soprattutto lo hanno avvicinato e reso partecipe di una delle più felici e prolifiche stagioni della cultura e dell’arte italiana, europea, mondiale, di cui è testimonianza prestigiosa l’amicizia con personaggi della statura di Renato Guttuso, Emilio Vedova, Giorgio De Chirico, Piero Dorazio, per non citarne che alcuni.
Il volume di lettere che presentiamo, corredato da opportuni medaglioni biografici dei singoli corrispondenti e da un repertorio fotografico che dà ancora maggior concretezza alle atmosfere qui evocate, oltre che da una appassionata testimonianza resa dallo stesso Pieraccini nell’ottobre 2014, offre di questo percorso, si può dire, un primo importante spiraglio relativo al periodo iniziale, della formazione, ed è per questo importante almeno da due prospettive diverse e complementari. Pur essendo composto dalle sole lettere “in arrivo” – “dei sei corrispondenti – dice la curatrice – solo Ricci, Meucci e Fuà hanno conservato i rispettivi archivi personali. Purtroppo, a tutt’oggi, essi non sono consultabili perché non ancora riordinati ed inventariati. Questo è il motivo che ha impedito di pubblicare, parallelamente, anche le lettere inviate da Giovanni Pieraccini” (pag. 37) – il carteggio propone tante suggestioni importanti, a tratti persino non prive di divertita ironia, per comprendere la personalità, il percorso, la sensibilità in formazione del destinatario, come, e attraverso, quella degli altri.
Non si potrà non notare, in questo senso, la diversità dei toni, che rispecchia differenti e multiformi percezioni del mondo e della vita: l’ironia giocosa di Bindo Fiorentini nel riferimento alle donne ed al “severo cipiglio esaminatore” che Pieraccini avrebbe posato su alcune “frasi infantili” scritte dalla moglie Vera Verdiani, sposata “in maniera folle”, com’egli stesso dice, il 29 aprile 1944, compagna, da allora, nell’avventura esistenziale come nell’impegno politico; il quieto disincanto, nascosto sotto l’eterna ilarità, di Gian Paolo Meucci, con il quale Pieraccini scopre e condivide la passione per la musica; gli interessi culturali di Massimo Monicelli; l’analisi tormentata e profonda di Raimondo Ricci, su di sé come sul compagno di studi.
Al di sotto di queste diversi frammenti personali vi è la storia di una generazione – che dà ragione del titolo – cresciuta negli anni del massimo consenso del regime fascista, in uno dei laboratori della cultura italiana più interessanti e proprio per questo già notevolmente dissodati dalla storiografia. Il Ritratto di una generazione è in questo senso un contributo di particolare interesse alla ricostruzione delle istituzioni educative italiane, ed al loro interno di quella scuola – parte dell’articolato progetto costruito da Giovanni Gentile intorno alla Scuola Normale Superiore – che fu il Collegio Mussolini, antesignano della attuale Scuola Sant’Anna di Pisa, di cui, a parte Fiorentini, tutti i corrispondenti furono allievi negli anni in cui lo fu Pieraccini.
Nato nel 1918, egli vi entrò – terzo classificato – nel 1938, all’età di vent’anni, sostenendo nel 1940 l’ultimo esame, quello di Diritto Romano, per poi allontanarsene richiamato alle armi negli anni 1941-’42 e 1942-’43, distaccato ai “servizi sedentari” a Lucca per le conseguenze di una pleurite, ed infine riuscendo a laurearsi il 13 luglio 1943, pochi giorni prima del 25 luglio, con una tesi dedicata a Il matrimonio per procura ed una tesina su Norme costituzionali e parere del Gran Consiglio. Pur con alcune asincronie che nella prefazione Mauro Moretti non manca di evidenziare, fu degli stessi anni l’esperienza pisana di Fuà – che a Pieraccini avrebbe consigliato anche una prima bibliografia per una tesi che quest’ultimo avrebbe inteso dedicare alla Cina, a testimonianza della propria “indole curiosa” non meno che del forte legame di solidarietà intellettuale – Meucci, Monicelli, Ricci, Rosini. Oltre alla personale vicenda di Fuà – allontanato dal Collegio insieme a Bruno Bassani nel 1938 in applicazione delle leggi razziali antisemite – che nel “supplemento d’indagine” che Moretti le dedica offre alcuni spunti interessanti alla comprensione del difficile rapporto tra la scuola italiana e la svolta anti-ebraica impressa dal fascismo alla propria politica anche culturale, e del ruolo non privo di complesse e persino rischiose prese di posizione dello stesso Giovanni Gentile (il quale – afferma Moretti appoggiando sulla ricostruzione di Paolo Simoncelli la lettura della lettera dell’11 novembre 1938 in cui chiedeva di derogare ai principi delle stesse leggi in favore dei due allievi – “potrebbe aver avuto un ruolo, nei mesi precedenti, nell’ispirare i criteri di eccezione nell’applicazione della normativa antisemita”), le lettere pubblicate costituiscono soprattutto la testimonianza di un percorso tormentato che porta questi giovani, appartenenti alla generazione degli anni Venti, dalla condivisione di una esperienza gioiosa e cameratesca, cementata da un sentimento di appartenenza ad una “comunità di colti”, ad uscire verso orizzonti più nitidi e nuovi, fino all’impegno politico nella lotta antifascista. Quello che colpisce, e che emerge in maniera assai evidente dalle sfumature con cui Moretti ne tratteggia i contorni, è la dimensione di forte interiorità da cui questo percorso viene accompagnato e nel quale si svolge. E’ certo un’interiorità legata alle particolari condizioni in cui la corrispondenza si snoda, censurata e pertanto priva di possibili elementi di critica o di dissenso. Ma è anche una interiorità legata alle condizioni in cui quelle scelte maturano: inizialmente come una inquietudine, un desiderio ancora vago di giustizia sociale che in Pieraccini attecchisce sul respiro crociano di Giuseppe Del Freo, suo insegnante di storia e filosofia al Liceo Carducci di Viareggio, e con una accelerazione repentina ma tarda determinata infine dalla guerra. In fondo – afferma lo stesso Moretti – è condivisibile quanto Emilio Rosini avrebbe scritto in sede di bilancio retrospettivo, e cioè che questa generazione – a differenza delle precedenti ed anche di quella immediatamente successiva – si trovò a dover maturare convincimenti e posizioni in circostanze di dirompente drammaticità. Assai più del lungo viaggio, contò per essi la guerra, che li costrinse a prendere atto della fine di un mondo e del profilarsi di una crisi di cui non si intravedevano ancora chiaramente, almeno fino al 1940-’41, i contorni. La sensazione di rimpianto per le mura del Collegio e per le giornate pisane, ed il desiderio di mantenere vivo almeno il sentimento di quella “universitas personarum” che esso era stato per tutti, desumibili dalla struggente lettera che lo stesso Rosini indirizzò a Pieraccini il 19 marzo 1942, con la quale si aprono le pagine di Moretti, ne sono testimonianza precisa. Fu la vicenda che legò Pieraccini ad una generazione destinata a forgiarsi “nel ferro e nel fuoco” della guerra e poi della Resistenza, nella quale lo stesso si sarebbe impegnato già dal 1942, venendo colto ancora militare, nel Distretto di Lucca, dallo sfascio dell’8 settembre. I convincimenti maturati nella formazione pisana, volti ora alla comprensione di nuove e complesse dinamiche che la storia stava definendo, e pur nell’incertezza di cosa il destino avrebbe riservato, ne avrebbero motivato le scelte future in un cammino biografico di straordinario interesse che colloca Pieraccini ancora oggi – accanto alla moglie Vera – nella felice condizione di ultimo testimone di quella temperie, e di uomo proiettato con fiducia e curiosità nel presente e nel futuro. Un percorso di cui sarebbe certamente auspicabile che già si cominciassero a considerare in maniera attenta, anche in sede storiografica, le traiettorie.