di Andrea Girometti
Il testo proposto da Gabriele Roccheggiani, Come spighe tra granaio e campo. Lineamenti filosofico-politici della ‘questione rom’ in Italia (Aras Edizioni, 2013), giunto alla seconda ristampa, intende ripercorre la ‘questione rom’ in Italia, lungo un itinerario diacronico (dalla fine del XIX secolo ad oggi), attraverso un’approfondita ricerca documentale, adottando un punto d’osservazione ed un approccio metodologico originali: un esercizio filosofico-politico, debitore della lezione di un pensatore poliedrico come Michel Foucault, che interroga innanzitutto il nostro sguardo, il modo in cui abbiamo categorizzato e gestito politicamente la presenza plurisecolare di migliaia di persone definite – sbrigativamente e in senso spregiativo rispetto a un presunta e a-critica normalità – ‘zingari’ o ‘nomadi’. L’autore, nell’analisi del procedimento di formazione e legittimazione che sorregge la cosiddetta ‘problematica rom’, mette in evidenza l’alternarsi di politiche pubbliche esclusive e inclusive, lungo una direttrice che le connota come prive di un’organicità di fondo. Questo è, di certo, uno degli aspetti su cui meno si riflette pubblicamente e, ancor meno, si abbozza un’autocritica significativa da parte del decisore pubblico-istituzionale (dal livello governativo-statale a quello locale), che si presenta certamente sempre più debole e impolitico, interessato da una progressiva «amministrativizzazione delle decisioni politico-pubbliche» (p. 144), in cui il ruolo della politica diventa sempre più quello di ratificare decisioni prese altrove. Essa, pertanto, diventa, nelle sue declinazioni maggioritarie, il risultato di un processo di negoziazioni informali tra una pluralità di soggetti detentori di quote di potere e quindi di interessi (ricalcando il paradigma della governance); oppure, assumendo le sembianze di un campo neutralizzato, si subordina alla necessità di acquisire quote di consenso secondo un «modello politico consumatorio» (Pizzorno, 1993) che espelle dal discorso questioni complesse, non immediatamente spendibili nel “mercato politico” se non in termini di interessata banalizzazione. Ciò è particolarmente evidente anche oggi, quando l’ordine del discorso che s’innesta nella formulazione della ‘problematica rom’ torna ad essere pressoché polarizzato tra una logica emergenziale ed una securitaria, entrambe particolarmente enfatizzate e semplificate a livello mediatico, a cui seguono momenti di puro e semplice oblio rispetto al complesso dei problemi lasciati sul campo. È sufficiente anche solo un’occhiata veloce all’indice del testo per intravedere i punti nodali in cui si articola questo prezioso lavoro critico. Si parte da un primo capitolo introduttivo che prende le mosse «dalla genealogia dello ‘zingaro’ come straniero interno» (pp. 17-46), in cui la riflessione si sofferma sull’origine intesa come meta, facendo tesoro di una citazione di Karl Kraus mediata da Walter Benjamin, dunque non come genesi, ma costruzione, trapassare di ciò che nasce. In questa prima parte si dà conto delle trasformazioni che, dal XV al XIX secolo, hanno tentato di identificare la differenza zingara, la centralità dell’aspetto filologico ancor prima di quello fisiologico, dunque della lingua come elemento dominante di una cultura e del “determinismo culturale” come vettore di una «scala gerarchica degradante, dall’uomo all’animale» (p. 41), da cui segue «l’intima e gerarchica articolazione tra vita e popolo (razza)» (p. 43). Nell’epoca dell’«umanizzazione del selvaggio», il ‘nomade’ occupa un posto definito e interpreta, o meglio gli viene attribuito, un ruolo preciso e inesorabile: diventa lo straniero interno, che è altro dal nemico, in quanto riconoscibile nella suo essere fuori da un confine. Lo straniero interno, invece, conferma, ma non dall’esterno, la nostra umanità e l’altrui disumanità (Escobar, 1998). Egli, nella sua intrinseca ambiguità e trasgressività, seguendo la lezione di Elias Canetti (Canetti, 1981), mette in scena la possibilità del tradimento, alimentando la cultura del sospetto e scatenando il meccanismo della persecuzione. Eppure, il sintomo dell’essere altrimenti che affiora nella condizione zingara, non implica l’assenza di riconoscimento, seppure lasciando spazio solo ad una possibile e remota ‘normalizzazione”. In altri termini, come osserva Roccheggiani, la sua posizione è quella del ‘meteco’, collocandosi tra il cittadino e il non libero, per richiamare la suddivisione in classi delle città-stato greche (p. 45).
Nel secondo capitolo, che ha come scansione temporale il periodo tra il 1861 e il 1918, il nomadismo è inteso come «un’anormalità etnica» in un’epoca connotata dalla «difesa della società» (pp. 47-85), usando un’espressione propriamente foucaultiana, in cui, pertanto, l’affermazione delle scienze positive tende a inquadrare clinicamente il ‘carattere nomade’, in una polarizzazione estremamente variabile tra ancoraggio ad un atavismo psico-morale (su cui insisteranno Cesare Lombroso e la sua scuola) e priorità dei deficit socio-ambientali (si pensi all’elaborazione della sociologia del crimine, legata al Socialismo giuridico, di Napoleone Colajanni). In questo frangente, le società umane sono lette prevalentemente nei termini di organismi collettivi sofferenti, affetti da malattie e anomalie da curare e/o prevenire, dunque la stessa ‘anomalia’ zingara risulta, almeno in teoria, potenzialmente ‘rieducabile’. Tuttavia, quanto un simile approccio sia pressoché teorico, oltreché informato da un rapporto asimmetrico, è dimostrato dalla stessa attribuzione del vagabondaggio e dell’assenza di fissa dimora – tacendo su quanto effettivamente esse siano indotte e non scelte – ad uno stato psicologico di minorità, ad una ‘patologia’, manifestata, in forma più marcata, dall’inerzia e dalla riluttanza al lavoro, a cui si correlano i connotati parassitari, secondo i canoni e gli stereotipi della cultura dominante, dove ad essere «pericoloso [non è] il libero movimento nello spazio tout court, quanto il movimento libero e disfunzionale dal contesto socio-economico vigente» (p. 81). Ecco che «lo ‘zingaro nomade’ anormale [diventa] un para-delinquente e para-nevrastenico (né folle, né normale), anormale tendente all’anti-socialità, al parassitismo che si accompagna alla delinquenza come ‘seconda natura’» (p. 84).
Un simile paradigma assume caratteri ancora più marcati con l’affermazione in Italia del movimento eugenico, attraverso il quale, dopo il primo conflitto mondiale, la ‘scienza’ della difesa della società si correla strettamente alla difesa della ‘razza’. Infatti, nel terzo capitolo del testo, i tratti dominanti della problematica che accomunano Rom e Sinti fino alla fine della seconda guerra mondiale sono riassunti, dall’autore, nella formula «immunizzazione permanente», dove eugenica, bio-politica e concentramento ne rappresentano le modalità operative. Questo capitolo è sicuramente tra i più interessanti e innovativi in particolar modo quando illustra come nell’epoca fascista il tentativo scientifico – e in realtà nitidamente anti-scientifico nelle sue formulazioni epistemologiche – di istituire una discriminazione pregiudiziale nei confronti di una minoranza sia ulteriormente approfondito e “raffinato”. L’affermarsi di una teoria neo-organicistica, che passa da un’analogia formale ad una sostanziale del rapporto società-organismo, come formulata da Corrado Gini, e ancor prima l’approccio biologico-politico espresso da Nicola Pende, dove «l’individuo ‘adatto’ alla nazione è quello caratterizzato […] dalla salute come armonia costante […] nel rapporto tra spirito e corpo, vita ideale-morale e vita somatico-vegetativa» (p. 94), precipitano nel nuovo codice penale (Codice Rocco) del 1930, in cui, l’innata tendenza alla delinquenza degli ‘zingari’, in ‘quanto vagabondi’, li identifica di per sé come pericolosi, dato che la persona socialmente pericolosa è tale – come si evince dall’art. 203 – anche quando è solo probabile che commetta un reato (p. 92). La successiva politica razziale è declinata in termini di «valorizzazione ‘ecologica’ dell’habitat [dove] la razza evoluta e meglio caratterizzata è quella che ha saputo adattarsi e modificare l’ambiente, e che inoltre mostra un’armonia ed un equilibrio psicologico-culturale» (p. 100). In quest’ottica, il meticcio appare come un errore biologico il cui disadattamento rivela una minaccia sociale e politica. Come affermava Edoardo Zavattari (firmatario del Manifesto per la difesa della razza del 1938) il meticcio, di cui il nomade è un rappresentante, «vive come uno straniero, come un intruso, come un’incrostazione che si è abbarbicata ma non ha messo radici, come un’incrostazione su cui affiora pur sempre quel fondo primordiale, quel patrimonio di qualità inferiori» (Zavattari, 1940). La precaria categorizzazione del popolo nomade, l’eccezione fattasi popolo nel dispiegamento del rapporto tra identità ‘originaria’ e identità ‘meteca’ collettiva, ne fa un portatore, indiscriminatamente, di una pericolosità interna. Tuttavia, pur non essendo il popolo rom e sinto avvertito dal regime come una minaccia incontrollabile, in quanto già marginalizzato, non è tanto la sua condizione originaria a determinarne le inclinazioni, quanto il suo sradicamento e dunque il problematico adattamento. Ciò non impedirà, nel 1940, il rastrellamento e la concentrazione di ‘zingari italiani e stranieri’, sotto rigorosa sorveglianza, e il loro confinamento in zone circoscritte (tra i ‘campi’ specificamente ‘zingari’ l’autore ricorda Perdasdefogu in Sardegna, il convento di San Bernardino ad Agnone e Tossicia in provincia di Teramo), così come la categorizzazione della loro pericolosità come razza, diventando, come gli ebrei, «persone straniere in Europa» (pp. 104-106). Successivamente, l’affermazione dei regimi democratici post-bellici e la correlativa dichiarazione dei diritti dell’uomo hanno mutato profondamente anche la ‘questione zingara’ – è il tema del quarto capitolo che copre l’arco temporale dal 1962 al 1985 (pp. 117–136) –, sia in termini di percezione che di rappresentazione pubblica. Emerge, in questa fase, la problematica della tutela di una cultura considerata residuale. La difficoltà di includere non escludendo, con la propensione, tuttavia, a trasformare l’alterità in una condizione di ‘minorità’, d’inferiorità sociale o psico-sociale da colmare, seppure all’interno di un quadro egemonizzato dalla semantica dei diritti fondamentali, lungo una direttrice sintetizzabile come «a-normalizzazione dal volto umano» (pp. 126-136). Una tendenza avvalorata, come sottolinea l’autore, dall’interno dello stesso mondo zingaro, attraverso il ruolo interpretato dal Centro Studi Zingari di Roma e dalla rivista Lacio Drom, promossa dall’Istituto di Pedagogia di Padova e dall’Opera Nomadi, in cui diventa centrale il tentativo di colmare «il livello inferiore di socialità» (p. 126), prodotto per lo più dalla contiguità con l’ambiente sottoproletario, anche attraverso esperimenti discutibili come le classi speciali Lacio Drom destinate ai soli bambini ‘zingari’ (un’esperienza durata quasi un ventennio, dal 1965 al 1982). Di fatto, però, si ripropone quel tentativo di «controllare l’anormale, tentare di ‘curarlo’ non solo per inserirlo pienamente nella società, ma anche per mettere al contempo in sicurezza quest’ultima dalla sua pericolosità sempre potenziale» (pp. 129-130).
Il quinto capitolo giunge sin quasi ai giorni nostri, fermandosi al 2007. In quest’ultima scansione temporale, secondo l’autore, ‘la questione rom’ è declinata nei termini di una «una politica permanente del transitorio» (pp. 137-162) e costituita da campi e sgomberi, in cui riemergono nuovi-vecchi stigmi, quali ‘inciviltà’ e ‘degrado’ di cui Rom e Sinti diventano vettori preferenziali in un frame scandito da quella che Löic Wacquant ha chiamato, giustamente, «criminalizzazione della miseria» (Wacquant, 2006), fino ad arrivare ai nostri giorni, in cui ‘la problematica rom’, a conferma dell’eccezionalità che contraddistinguerebbe ‘i figli del vento’, torna ad essere percepita e trattata, come già anticipato, in termini di emergenza, assumendo i tratti dell’«emergenza socio-ambientale» (pp. 163-180), nei confronti della quale ci si propone d’intervenire, non a caso, con gli strumenti tipici della protezione civile e con procedure giuridiche d’urgenza.
Bibliografia
Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1993
Escobar, Rivalità e mimesi. Lo straniero interno, in D. C. Broussard (a cura di), Miti e archetipi. Linguaggi e simboli nella storia della politica, vol. I, Edizioni ETS, Pisa, 1998
Canetti, Massa e Potere, Adelphi, Milano, 1981
Zavattari, Ambiente naturale e caratteri razziali, in La difesa della razza, 20 febbraio 1940
Wacquant, Punire i poveri. Governare l’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma, 2006
Biografia
Andrea Girometti. Si è laureato in Sociologia (con una tesi sul ceto politico locale) e Filosofia (con una tesi sul pensiero di Louis Althusser) presso l’Università di Urbino. Collabora alle attività di ricerca promosse dal Laboratorio di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino (LaPolis), dall’Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino e dall’associazione culturale “Louis Althusser”. Recentemente ha pubblicato: Enfin la crise du marxisme! Sull’utilità di una crisi ancora attuale in “Décalages”, Vol. 1. Iss. 2, The Berkeley Electronic Press, 2012; Althusser in Italia, l’Italia di Althusser in “Critica Marxista”, n. 1, gennaio-febbraio 2012; Governo rappresentativo e democrazia. Considerazioni critiche a partire da un testo di Bernard Manin in “Storia e Futuro”, n. 28, febbraio 2012; Marx, la Comune di Parigi e la democrazia espansiva in “Storia e Futuro”, n. 29, giugno 2012; “Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione della storia”. Una rilettura del Novecento come campo di battaglia, in “Storia e Futuro”, n. 31, febbraio 2013; (con T. Fava) Il Pd: arrivare primi senza vincere in I. Diamanti – F. Bordignon – L. Ceccarini, Un salto nel voto: ritratto politico dell’Italia di oggi, Roma-Bari, Laterza, 2013; (recensione a) Grazie Brontosauro! Per Stephen Jay Gould, a cura di F. Civile, B. Danesi, A. M. Rossi, in “L’Ateo”, n. 89, 3/2013; Sullo Stato, secondo Bourdieu, in “Critica Marxista”, n. 1, gennaio-febbraio 2014; Villa Andrea Costa. La cooperativa della fonderia, Urbino, Arti Grafiche Editoriali, 2014; La democrazia tra costituzionalismo garantista e opinione in diretta. Un percorso di lettura, in “Storia e Futuro”, n. 34, febbraio 2014; (con C. Di Sante, L. Gorgolini, G. Rossini, G. Venerucci) Guerra di Liberazione, liberazione dalla guerre”. 21 Gennaio 1944 Montecchio. La polveriera sulla Linea Gotica, Urbino, Arti Grafiche Editoriali, 2015.