di Josep M. Pons-Altés (Universitat Rovira i Virgili – Gruppo ISOCAC)
Abstract
L’articolo studia con quali argomenti e attività didattiche vengono presentati, nei manuali scolastici della Scuola Secondaria di Primo Grado, i concetti di “nazione”, di “Risorgimento” e dell’identità nazionale italiana contemporanea. La caratterizzazione di tipo essenzialista della nazione, predominante nei manuali, complica l’adeguata comprensione del processo di unificazione italiana. Nonostante la qualità dei libri analizzati, vi compaiono contraddizioni e non vengono affrontate con la profondità necessaria le strategie che vennero impiegate per creare una forte coscienza nazionale, pertanto la conseguenza più probabile è che gli alunni finiscano per assimilare un’idea determinista secondo la quale l’Italia era inevitabilmente predestinata a costituire un’entità politica unificata.
Abstract english
The article looks at school textbooks of the Scuola di Primo Grado Secondaria to determine on what grounds and educational activities the concepts of “nation” and “Risorgimento” are presented. It also considers the construction of contemporary Italian national identity. An essentialist characterization of the nation, dominant in the manuals, hinders a proper understanding of the process of Italian unification. Despite the quality of the books analyzed, contradictions appear and the strategies used to achieve a strong national consciousness are not addressed in sufficient depth. It is likely that students end up internalizing the deterministic idea that Italy was destined inevitably to form a unified political entity.
Introduzione1
L’obiettivo del presente lavoro è l’investigazione degli argomenti e delle attività didattiche con cui viene presentato nei manuali scolastici un processo storico così complesso come il Risorgimento e la costruzione dell’identità nazionale contemporanea. Sono stati studiati libri corrispondenti alla Scuola Secondaria di Primo Grado (nota anche come Scuola Media o Scuola Media Inferiore), per alunni di età comprese tra i 12 e i 14 anni. I contenuti di storia del XIX secolo tradizionalmente venivano trattati nel terzo anno di studi, dove dovevano condividere lo spazio con contenuti del XX secolo; nel 1996, tuttavia, si stabilì di includerli nel programma del secondo anno, assieme all’Età Moderna (Bosco e Mantovani 2004, 215-229; Silvani 2003, 218-219) e ciò ha comportato una diminuzione della profondità con cui vengono trattati. Sono stati analizzati 17 manuali pubblicati nel XXI secolo da alcune delle case editrici in maggior uso presso i centri scolastici italiani, in particolare quelli dell’Emilia Romagna: i riferimenti bibliografici indicano sempre gli anni della prima edizione dei libri, pertanto bisognerà considerare che sono stati utilizzati a scuola anche negli anni successivi.
Come talora è stato segnalato, i manuali devono costituire un buon “dispositivo didattico”, per cui dovrebbero essere chiari, giustificare con argomenti le loro affermazioni e riflettere i progressi storiografici (Gualtiero et al. 2010, 11-13). Inoltre, sebbene i professori possano ricorrere alle piú diverse risorse didattiche, i manuali scolastici continuano ad essere fondamentali per la formazione storica degli alunni e per questa ragione tutti i governi ne controllano con particolare cura i contenuti, dedicando speciale attenzione agli aspetti connessi con le questioni identitarie (Éthier, Lefrançois e Cardin 2011; Pezzino 2002; Procacci 2003).
I manuali presentano in generale una buona qualità, sia nei contenuti del testo, sia nelle risorse integrative e nelle proposte didattiche. Ma c’è da tenere in considerazione che in Italia, come del resto in molti altri paesi, il volume dei contenuti di determinati manuali è imponente. In alcuni casi avviene persino che gli autori stessi sentano la necessità di giustificare l’estensione del loro libro e, oltre a cercare di agevolarne la lettura ricorrendo a testi evidenziati e titoli, che facciano appello alla libertà del docente: “consentirà poi al docente di… (sic) ritagliare nel testo un itinerario adatto alla sensibilità e agli interessi più vivi nei suoi allievi” (Mattei, Nistri e Viglione 2005, 560).
È opportuno ricordare le considerazioni di Antonio Brusa (1998) sui pericoli del voler trattare in modo esauriente un gran numero di temi, quando è più efficiente accertarsi che gli alunni abbiano potuto elaborare correttamente problemi fondamentali e abbiano assimilato i principali riferimenti del passato. Nonostante si cerchi di rendere formalmente attraenti i manuali, utilizzando illustrazioni e schemi, resta il problema del sovraccarico di densità esplicativa in un contesto in cui ci si rivolge a dei ragazzi: considerato che talora non dispongono di una base sufficiente, non si arriva forse a costringerli alla memorizzazione di contenuti che non comprendono? Abusare quantitativamente dei contenuti può comportare la riduzione dell’esigenza di verifica della reale comprensione, mentre un adattamento dei contenuti permette al docente di verificare che siano stati realmente assimilati dall’alunno, il quale sarà in grado di applicare in contesti differenti le competenze acquisite. In generale i manuali più recenti tendono a compiere un maggiore sforzo di sintesi e tendono ad agevolare l’adattamento ai vari livelli di una stessa classe; resta tuttavia l’impressione che sia difficile raggiungere il giusto equilibrio.
Rispetto agli esercizi proposti dai manuali, predominano quelli di tipo ripetitivo-mnemonico in cui l’alunno deve dimostrare la propria capacità di riprodurre quello che viene spiegato nel libro. Sono anche presenti e molto più utili le proposte che presentano analisi di testi e immagini che superano quanto strettamente spiegato in una lezione e obbligano gli alunni ad applicare la loro capacità di critica delle fonti storiche, di deduzione delle informazioni e il saper mettere in rapporto le conoscenze, oppure di scrivere testi per dimostrare che i contenuti elaborati sono stati compresi (per esempio Giovannetti e Vecchi 2010, 392-394). In definitiva, attività come l’analisi delle fonti, o brevi esercizi di ricerca restano indispensabili. In questo senso, un esempio delle virtù di determinate proposte didattiche di molti manuali è l’esistenza di una sezione di “laboratorio” (per esempio Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008; Bonifazi 2002; Brusa, Guarracino e Bernardi 2005; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012; Ronga, Gentile e Rossi 2008), ovvero di attività pratiche su tematiche molto concrete a partire da fonti varie che spesso obbligano a utilizzare il metodo storico.2 È più difficile che appaiano nei manuali proposte connesse con la storia locale e il patrimonio culturale (con qualche eccezione come Zaninelli, Cristiani, Bonelli e Riccabone 2010), attività che sarebbero decisamente raccomandabili.
Nazione e unificazione3
I manuali esaminati spiegano con precisione l’insieme degli eventi che caratterizzano il “Risorgimento” (o anche la “Rivoluzione Italiana”, sebbene questo sia un concetto ben poco utilizzato nei testi) e che hanno portato alla nascita del Regno d’Italia nel 1861, lo situano correttamente nel relativo contesto storico, ovvero nell’epoca del liberalismo, del nazionalismo e del Romanticismo, all’interno della logica degli interessi locali e delle potenze europee.
Detto ciò, dubitiamo che i ragazzi che studiano su questi libri possano veramente oltrepassare i luoghi comuni più tradizionali sull’unità d’Italia. In altre parole, temiamo che molti di loro finiscano per assimilare (forse a livello quasi inconscio) l’idea che l’Italia fosse predestinata inevitabilmente a costituire un’entità politica unificata e che quello che aveva preceduto questa fase fosse classificabile solamente come una situazione anomala. Un esempio tra tanti potrebbe essere l’affermazione secondo cui nella prima metà del XIX secolo alcuni rivoluzionari liberali aspiravano all’unità e indipendenza “dagli stranieri nei Paesi come l’Italia e la Germania, ancora divisi” (Giannoni e Bignami 2007, 73). Tenendo in considerazione che ci si rivolge a dei ragazzi, non dovremmo includere forse qualche spiegazione aggiuntiva? Riusciamo in questo modo ad evitare di inculcare una versione determinista del passato secondo la quale i fatti “accadono perché ciò era quello che doveva accadere”?
Ne è esempio la seguente affermazione: “dopo secoli l’Italia non è più divisa in Stati regionali ma si costituisce in Stato nazionale” (Mattei, Nistri e Viglione 2005, 60). Può sembrare un’affermazione impeccabile a prima vista, ma leggendo più attentamente, ci si chiede quale sia il significato di “Stati regionali”. Rispetto agli stati attuali, oseremmo classificarli come stati “regionali” e “nazionali”? O li classifichiamo così per indicare che attualmente non esistono più e quindi lasciamo intendere che consideriamo logico che sparissero come entità politiche indipendenti?
Crediamo che le considerazioni che abbiamo presentato siano la logica conseguenza dei limiti del concetto di “nazione” che viene presentato negli stessi manuali scolastici. Addirittura tre dei 17 libri analizzati nel presente articolo non arrivano neppure a definire esplicitamente il concetto di “nazione” (Bolocan 2005; Giannoni e Bignami 2007; Mattei, Nistri e Viglione 2005). La maggioranza degli altri testi opta per definizioni di “nazione” molto simili, secondo un paradigma “essenzialista (Banti 2000b, 54-56), incentrate sulle caratteristiche di condivisione di lingua, storia e cultura. A partire da questa base comune, alcune definizioni aggiungono delle sfumature quali la coscienza di essere una nazione, la percezione da parte di un gruppo umano di avere caratteristiche comuni che lo differenziano dagli altri. Crediamo tuttavia che sarebbe sempre necessario (e ancor di più se si tratta di testi diretti a ragazzi) controbattere esplicitamente idee secondo le quali le radici delle nazioni attuali risalgono ai tempi dei tempi, o che le nazioni abbiano limiti chiaramente definiti e caratteristiche immutabili.
I libri non affrontano neppure il problema della distinzione tra nazione e stato, laddove quest’ultimo è inteso come struttura politica con frontiere definite. Quelli che lo fanno, ottengono un successo relativo dato che spesso confondono i due concetti e devono sovraccaricare con eccezioni di ogni tipo le loro definizioni per definire una realtà complessa: “Gli appartenenti alla stessa nazione hanno in comune la storia, la lingua, il territorio, la religione, l’economia. Ciò non significa, però, che tutti questi aspetti siano sempre presenti. Per esempio la Svizzera è una nazione, anche se è abitata da persone che parlano lingue diverse. Gli Stati Uniti sono una nazione, anche se sono formati da persone appartenenti a moltissime etnie. Ogni nazione ha una particolare storia e i motivi per cui un gruppo di individui sente di avere in comune la stessa patria possono essere anche molto diversi” (Ronga, Gentile e Rossi 2008, 356). Consideriamo questo brano estremamente interessante dato che da esso traspare la difficoltà di spiegare concetti come “stato” o “nazione”, che qui appaiono mischiati, anche se il primo non viene esplicitamente menzionato.
Una maggiore precisione terminologica è quella del seguente testo nel quale viene concretizzato il concetto di “nazione” e, per la stessa ragione, in cui il contrasto con la realtà incrementa la confusione e le eccezioni: “Si indica una comunità che sia cosciente di avere proprie caratteristiche (per esempio la lingua) e una propria cultura; si usa questo termine anche quando questa comunità possiede unità e sovranità politica (la nazione italiana, spagnola). Spesso la parola è utilizzata come sinonimo di Stato; in realtà possono esistere anche Stati multinazionali (formati da più nazioni), come furono […] l’impero austriaco o quello russo” (Stumpo, Cardini e Onorato 2005, 103). Si situa un passo più avanti l’affermazione che appare in Amerini e Roveda (2011, 320), secondo la quale sembra che si accetti il fattore di costruzione umana, sempre implicito in una nazione: “Il concetto di nazione fa riferimento a una nascita comune, a un legame di sangue: significa ricerca di una propria identità e di valori condivisi su cui basare una comunità civile”.
In definitiva, notiamo come la definizione più abituale di “nazione” quando viene comparata con la realtà (operazione che devono fare sia gli storiografi, sia i ragazzi a scuola) si scontra con talmente tante eccezioni che la sua utilità viene messa in dubbio. Di fronte all’impossibilità di dare una definizione precisa, chiusa e valida in tutti i contesti, a quali conclusioni può arrivare l’alunno?
Una possibile soluzione potrebbe essere l’introduzione delle dimensioni diacronica e soggettiva nella “nazione” e accettare che tale concetto possa avere connotazioni differenti in funzione di ciascun contesto storico e di ciascun interlocutore. Dovremmo accettare che non esiste una definizione precisa di “nazione” che permetta di discernere senza discussioni quali gruppi siano una “nazione” e quali limiti abbiano, sebbene gran parte della forza dei discorsi nazionali provenga dall’uso e dalla manipolazione di tradizioni di ogni tipo e immagini pre-esistenti a cui sono in grado di imprimere un’elevata forza emotiva (Banti 2000a; Di Ciommo 2005). Crediamo che sia necessario sottolineare che l’elemento essenziale è la percezione che una comunità ha di sé stessa a permettere di renderla coesa e differenziarla, percezione che può variare con il passare del tempo. Questa prospettiva che propongo è assente dai manuali scolastici.
I protagonisti del Risorgimento
Nell’insieme i libri scolastici tendono a rifuggire da qualsiasi presentazione ideale del processo di creazione dello Stato italiano e affermano che la partecipazione popolare fu limitata. Abbordano senza complessi le restrizioni del regime liberale che si instaurò con affermazioni che sicuramente in altre epoche, o in altri paesi, sarebbero inimmaginabili in un testo scolastico, sebbene nella maggioranza delle occasioni non arrivino ad affrontare con determinazione la riflessione sugli interessi sociali dei gruppi che hanno guidato l’unificazione dell’Italia. Ci sono comunque delle eccezioni, come la proposta formulata da Giovannetti e Vecchi (2010, 385) di comparare lo “Statuto albertino” del 1848 e la Costituzione del 1948 a partire da elementi molto concreti e che risulta in effetti una buona strategia per permettere agli alunni di comprendere che liberalismo non era sinonimo di democrazia.
I grandi protagonisti del Risorgimento sono presentati secondo la loro importanza storica, ma solo pochi libri si spingono ad affrontarne dettagliatamente la mitizzazione e contrappongono interpretazioni elogianti e altre più critiche come a proposito di Garibaldi (Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008, 320-321; Giovannetti e Vecchi 2010, 430-431) o di Cavour (Ronga, Gentile e Rossi 2008, 390). Il fatto di utilizzare un testo di Giuseppe Mazzini in cui si valutano entrambe le figure, con elogi a Garibaldi e critiche molto dure a Cavour, è un buon esempio di come l’analisi di testi storici obblighi lo studente a sviluppare una capacità di analisi più complessa e che permetta un maggior arricchimiento (Giannoni e Bignami 2007, 110-112).
Rispetto alla questione specifica della partecipazione popolare, in certi manuali si possono trovare delle affermazioni del tipo: “Inoltre i rivoluzionari non seppero coinvolgere il popolo proponendo obiettivi concreti come il “pane” e la “terra” (Alberton e Benucci 2010, 383); “I contadini che avevano creduto che la “libertà” portata da Garibaldi significasse anche “terra” e “pane” rimasero profondamente delusi perché, per loro, non era cambiato nulla” (Giannoni e Bignami 2007, 130). In qualche caso si commemorano opportunamente gli episodi più duri della storia del popolo siciliano di Bronte, con la violenta repressione della rivolta contadina per la rivendicazione della terra, e il manuale in questione incoraggia gli studenti a leggere un romanzo e a vedere un film, entrambi aventi per tema quell’insurrezione (Delbello e Lesanna 2005, 61).
In generale si parte dalla considerazione, più o meno esplicita, che l’unione non riuscì a dare una risposta effettiva alle richieste provenienti da lavoratori e piccoli proprietari. Al contrario, colpisce molto il fatto che solo pochi libri menzionino, trattando dei plebisciti di annessione al Regno di Sardegna, le irregolarità che vi si verificarono (Delbello e Lesanna 2005, 56; Mattei, Nistri e Viglione 2005, 131). In qualche manuale, senza mettere esplicitamente in discussione i risultati ufficiali dei plebisciti, con un’altissima partecipazione e pochissimi voti contrari, si ammette per lo meno che non fosse presente un pieno consenso popolare: “Non esisteva infatti una concreta alternativa all’unificazione sotto la monarchia sabauda e gli elettori non avevano alcuna possibilità di influire” e specifica, per il caso del Regno delle Due Sicilie, che “l’unanimità dei plebisciti dell’ottobre 1860 mostrò subito il suo carattere illusorio” (Brusa, Guarracino e Bernardi 2005, 62 y 65). Nel resto dei libri predomina una prospettiva molto differente, con definizioni brevi di quel che significa un plebiscito, o con affermazioni del tipo: “Tutti questi mutamenti territoriali furono sanciti da plebisciti: il popolo cioè venne chiamato a esprimere con un sì o con un no il proprio parere sulle annessioni decise” (Ronga, Gentile e Rossi 2008, 399). Si arriva anche a includere dati ufficiali dei risultati di quelle consultazioni, con alcune cifre che in tutta evidenza dovrebbero portare a riflettere sulla loro veridicità, ma la questione non viene neppure prospettata (Bonifazi 2002, 259).
I limiti della partecipazione popolare all’unificazione si rendono evidenti, ma quando i limiti si trasformano in opposizione esplicita e armata, la teoria generale sulla “nazione” (che dà per scontata la coscienza della formazione di un solo popolo a partire da caratteristiche tangibili) risulta ancora difficile da definire. In altre parole, la realtà dell’Italia della metà del XIX secolo mette in discussione l’idea che esistesse una coscienza nazionale unanime, o che l’unificazione fosse un processo ineluttabile.
Uno dei migliori esempi della resistenza all’unificazione sotto l’egemonia della monarchia del Regno di Sardegna è la rivolta che scoppiò nel sud, nota come fenomeno del “brigantaggio”. I manuali di solito si soffermano ampiamente su questa insurrezione, con qualche eccezione (Alberton e Benucci 2010) e la maggioranza non dissimula nella descrizione la durezza della repressione governativa (Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008, 382-383; Bolocan 2005, 109; Delbello e Lesanna 2005, 64-65; Giannoni e Bignami 2007, 147-148; Giovannetti e Vecchi 2010, 408-409; Mattei, Nistri e Viglione 2005, 142-143 y 150-151; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 350-352; Ruata e Venturi 2008, 330; Stumpo, Cardini e Onorato 2005, 156). Per la formazione dei giovani, crediamo che sia ancora più importante il nesso che gli autori stabiliscono (più o meno ampiamente) tra quella rivolta e la cosiddetta “Questione Meridionale” per la quale partono dalla considerazione che per alcuni aspetti detta questione ancora non sia risolta.
Le cause del “brigantaggio” vengono sempre messe in rapporto con crisi economica, imposizione di nuove tasse, disillusione contadina per la mancata distribuzione della proprietá della terra e, infine, con il rifiuto dell’obbligo di leva. Predominano le argomentazioni che presentano l’insurrezione come reazione alle problematiche sociali ed economiche, in cui i contenuti ideologici erano di scarsa importanza reale rispetto al peggioramento delle condizioni di vita degli abitanti del Meridione. Per questo riscontriamo frequentemente affermazioni quali: “La violenza del fenomeno rese molto difficile distinguere il suo aspetto di semplice brigantaggio dal vero malessere sociale che esso esprimeva” (Brusa, Guarracino e Bernardi 2005, 65). Oppure, si esprime più duramente: “Infatti la lotta contro i briganti assunse l’aspetto di una vera e propria spedizione militare contro i contadini, che reclamavano giustamente la distribuzione delle terre, e contro le popolazioni, che volevano pane e giustizia sociale” (Giannoni e Bignami 2007, 147-148).
Una prospettiva un po’ differente è quella offerta da Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis (2008, 382-383) i quali, presentando l’insurrezione, si riferiscono a: “l’ostilità delle popolazioni verso il governo di Torino prese la forma di una rivolta generale […] I responsabili politici della Destra dettero a questa rivolta il nome di brigantaggio […] Dal momento che i contadini-banditi potevano spesso contare sul sostegno delle popolazioni locali, l’Italia meridionale fu dilaniata per anni da una vera e propria guerra civile”; solo successivamente approfondiscono più dettagliatamente il fattore dello scontento a livello sociale. Come talora si afferma testualmente, per una parte della popolazione il nuovo governo era percepito “come una forza d’occupazione straniera” (Amerini e Roveda 2011, 383).
Abbiamo verificato che il contenuto politico e ideologico che poteva esserci in questa insurrezione di solito resta estremamente indefinito nei manuali, secondo un modello interpretativo che è stato comune per l’analisi delle rivolte con contenuti monarchici o contro-rivoluzionari che hanno interessato altri paesi nel corso del XIX secolo. Tuttavia, la storiografia degli ultimi anni sta mettendo in discussione la validità di queste interpretazioni. Lo stesso trionfo della denominazione dispregiativa di “brigantaggio”,che connota negativamente questa insurrezione, dovrebbe indurre alla riflessione, così come altri elementi (che, al massimo vengono citati in forma tangenziale dai manuali scolastici) quali il finanziamento elargito all’insurrezione da parte del re delle Due Sicilie Francesco II. In realtà, come ha spiegato Alberto Mario Banti (2004, 124-125), gran parte delle azioni di questi gruppi insurrezionali avevano carattere esplicitamente politico, affermavano pubblicamente di lottare per la restaurazione dei Borboni e godevano dell’appoggio (anche finanziario) di emissari pontifici e borbonici.
“Fare gli italiani”
Come era prevedibile, i libri scolastici di solito spiegano il senso della famosa frase attribuita –anche se a quanto pare scorrettamente (Stewart-Steinberg 2007, 1)– a Massimo D’Azeglio “L’Italia è fatta, restano a fare gli italiani”. Più sorprendente ancora è che molti libri non cerchino nemmeno di accennare alle strategie di “nazionalizzazione” che vennero utilizzate in Italia, come nel resto degli stati contemporanei, per costruire una coscienza nazionale forte (Alberton e Benucci 2010; Bonifazi 2002; Delbello e Lesanna 2005; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012; Ronga, Gentile e Rossi 2008; Zaninelli, Cristiani, Bonelli e Riccabone 2010). Anche negli altri manuali, la profondità con cui viene spiegata la questione è chiaramente insufficiente.
Nelle occasioni in cui la questione viene affrontata, si rileva una chiara contraddizione tra la definizione di “nazione” data a suo tempo, che si riferisce a una comunità che condivide lingua, storia e tradizioni, e l’accettazione del fatto che nel 1861 il nuovo Stato doveva “fare gli italiani”, considerate le grandi differenze esistenti non solo in questioni di tipo economico e amministrativo, ma anche di stile di vita (Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 348; Stumpo, Cardini e Onorato 2005, 145).
Le caratteristiche e i limiti di questo processo di nazionalizzazione sono sempre difficili da affrontare in un manuale diretto a studenti, ma è necessario farlo se si vuole essere utili alla loro formazione. La concretizzazione di “come sono stati fatti gli italiani” è molto complessa ed è motivo di dibattito storiografico (Stewart-Steinberg 2007). Nei manuali che trattano il tema, l’approccio parte quasi sempre dall’adozione di determinati simboli nazionali come la bandiera e l’inno, con riferimento alla scolarizzazione e al servizio militare, elementi che, sappiamo, furono fondamentali in altri paesi per la loro omogeneizzazione. Ci è sembrata una buona proposta la parafrasi di spiegazione dell’inno d’Italia; come avviene per tanti altri inni e canzoni, è lecito dubitare infatti che molti di quelli che lo cantano siano realmente coscienti del suo significato (Alberton e Benucci 2010, 363; Delbello e Lesanna 2005, 19; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 317; Ronga, Gentile e Rossi 2008, 344; Ruata e Venturi 2008, 317).
Il libro di Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis (2008, 386-387) presenta esplicitamente la questione della costruzione di un’identità nazionale, sottolinea l’importanza delle politiche educative, del servizio militare e del diritto al voto ed è sicuramente più chiaro nell’insistere sul ruolo dello Stato italiano nella costruzione dell’identità nazionale dopo l’unità: “lo Stato italiano aveva preso forma, ma la nazione italiana restava da formare. Occorreva che tutti i sudditi di Vittorio Emanuele II […] maturassero il sentimento di appartenere allo stesso paese, alla medesima civiltà, ma affinché questo succedesse, bisognava dare ai sudditi del regno d’Italia gli strumenti culturali, sociali e politici per riconoscersi cittadini”.
L’unione linguistica (al di là dell’italiano scritto letterario, già esistente) di solito viene trattata nei manuali, ma non sempre viene messa apertamente in rapporto con la conformazione di un’identità nazionale. Di nuovo, rileviamo una certa contraddizione tra la constatazione che nemmeno da questo punto di vista la penisola italiana fosse unita e la tradizionale definizione di nazione: “Difatti unico legame tra le varie regioni italiane era per il momento solo apparentemente la lingua, che però non sempre era compresa indistintamente da tutti” (Giannoni e Bignami 2007, 143); “non esistesse neanche una lingua comune: l’italiano era usato abitualmente solo da una minoranza di persone colte, mentre tutti gli altri parlavano i loro dialetti” (Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 348).
Anche in questo caso sarebbe raccomandabile una riflessione sulla terminologia utilizzata, così comune che perdiamo l’opportunità di proporre problematiche che molto probabilmente l’alunno non si porrebbe autonomamente . Ad esempio, a partire dalla seguente spiegazione sulla “scarsa conoscenza della lingua italiana: alla proclamazione del Regno si calcolò che solo il 2% degli abitanti parlava correntemente e correttamente la lingua nazionale […] Ogni regione usava il proprio dialetto” (Ruata e Venturi 2008, 331). Perché usiamo sempre il concetto di “dialetto” per le varie forme linguistiche esistenti in Italia, differenti dall’italiano standard? Cosa distingue una “lingua” da un dialetto?
Più adeguata è la seguente spiegazione che si riferisce non solo al caso italiano e che è eccezionale per la sua chiarezza: “L’esistenza di un’unità linguistica nazionale era però, nella prima metà dell’Ottocento, un mito […] in gran parte dell’Europa il popolo parlava una vasta gamma di lingue e dialetti, e non era sempre evidente se i dialetti appartenevano a questa o a quella lingua. Fu lo Stato che, dopo avere unificato un certo territorio, soppresse, a volte brutalmente, lingue e dialetti, e impose una lingua nazionale” (Arboit, Banfi e Carrara 2001, 334-335).4
L’unificazione linguistica avvenne anche attraverso la scolarizzazione, ma meno della metà dei libri studiati fa ampio riferimento alla scuola e quando lo fa, spesso non vengono nominate le implicazioni politiche e nazionali e ciò è abbastanza sorprendente se teniamo in considerazione che i lettori dei libri sono studenti (Arboit, Banfi e Carrara 2001, 331; Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008, 384-387 e 395; Bonifazi 2002, 314-315; Giovannetti e Vecchi 2010, 403 e 428-430; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 360-361; Ruata e Venturi 2008, 331). A titolo di esempio, l’affermazione che i governi si siano assunti la responsabilità dell’educazione “con il proposito di affidare alla scuola il compito di formare le coscienze dei cittadini” lascia da parte troppi altri aspetti (formazione della mano d’opera e di una coscienza nazionale) che invece il sistema scolastico ha sviluppato in tutti i paesi del XIX secolo (Bonifazi 2002, 315). Il libro di Ronga, Gentile e Rossi (2008) è uno dei pochi che propone questo tema così centrale mettendo in rapporto tra loro il successo di opere come Le avventure de Pinocchio e la diffusione nelle scuole di testi scritti in italiano moderno, esplicitamente dirette ai bambini.
Iconografia nei manuali scolastici
L’uso delle immagini nell’insegnamento è una questione di cui si tende ad occuparsi sempre di più ed è oggetto di studio in vari ambiti accademici. Pur constatando la necessità di un’azione più incisiva rispetto all’uso delle immagini per la formazione del pensiero storico -è stato dimostrato infatti che la mera presentazione delle immagini, per quanto numerose, non è sufficiente se non è supportata da mediazione didattica (Mattozzi 2004b)-, nei manuali si constata un progresso. Il lavoro con le immagini è più produttivo per gli studenti se accompagnato da attività di carattere riflessivo che permettono di collocare i fatti nel loro contesto sociale.
A differenza dei libri scolastici utilizzati decenni fa, nei manuali attuali l’iconografia è più varia ed è più interessata a mostrare elementi di vita quotidiana attraverso il superamento di certi stereotipi e l’introduzione di una maggiore presenza di donne e bambini. In alcuni libri si afferma che si è preferito “privilegiare ritratti realistici, e in seguito primi piani fotografici da cui emergessero volti e atteggiamenti istantanei e non pose” (Mattei, Nistri e Viglione 2005, 560). Inoltre, negli ultimi anni i manuali ricorrono spesso all’integrazione con materiali accessibili solo via internet in cui sono inserite maggiori risorse iconografiche, anche se queste non rientrano tra i materiali esaminati nel presente lavoro.
In determinati capitoli dei libri è normale trovare immagini di novità tecnologiche, mezzi di comunicazione o di trasporto che diventano riferimenti estremamente utili per aiutare l’alunno ad attribuire significato alle principali tappe cronologiche. Il libro di Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis (2008) costituisce un buon esempio dell’uso delle immagini con il suo capitolo intitolato “Le Immagini raccontano”. All’inizio di ciascun capitolo è presente un’immagine del passato che viene situata in una cartina geografica e messa in rapporto con un’immagine attuale.
Nella stragrande maggioranza dei manuali, tuttavia, nelle pagine dedicate specificamente a questioni politiche (e, in particolare, al Risorgimento e all’unità d’Italia) finiscono per imporsi in forma predominante ritratti e immagini di episodi bellici, rivolte, manifestazioni o riunioni parlamentari. Con riferimento al tema che stiamo trattando, compaiono immagini di battaglie significative, l’entrata di Garibaldi a Napoli, l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, la Spedizione dei Mille o delle prime riunioni del Parlamento italiano, oltre a ritratti del conte di Cavour, di Pio IX, Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini o Vittorio Emanuele II.
Oltre a queste immagini più classiche, una parte dei manuali compie un certo sforzo (abbastanza diseguale) per elaborare una visione più ampia del paese nelle pagine dedicate all’unità italiana, con illustrazioni di ambiti urbani e rurali, scuole o spazi dedicati alla vita sociale. Un buon modello di esercizio è quello in cui si presenta una coppia di immagini che illustrano le contraddizioni dell’Italia posteriore all’unità –ad esempio con riferimento ai livelli di vita e all’analfabetismo- e richiede agli alunni che, a parole loro, spieghino brevemente in cosa consista tale contrasto (Ruata e Venturi 2008). Si possono anche usare sezioni speciali all’interno della lezione –come in “Storia europea” (Giannoni e Bignami 2007)- per collocare gli episodi della politica italiana nel contesto culturale e ideologico dell’epoca, o esprimere con immagini i vari effetti della crescita economica: ne è esempio il contrasto tra la costruzione della galleria Vittorio Emanuele di Milano e l’immagine degli operai che lavorano nella costruzione della ferrovia, con un’unica didascalia che dice: “I due volti dell’Italia” (Bolocan 2005, 108).
Talora, nell’ambito dei temi del Risorgimento e dell’unità d’Italia, si presentano anche altre illustrazioni distintive del progresso culturale e tecnologico, come la comparsa della fotografia (Amerini e Roveda 2011, 388-389 e 392-393) e dei progressi della sanità (Ronga, Gentile e Rossi 2008, 424). Determinati libri sono più ambiziosi e includono analisi iconografiche che l’alunno deve leggere e comprendere. È il caso in particolare del manuale di Paolucci, Signorini e Marisaldi (2012), in cui una parte significativa delle illustrazioni sono minuziosamente spiegate. Eccellente esempio è la proposta, nello stesso libro, di riflettere sulla ricostruzione iconografica della presa di Roma nel 1870, presentata in alcuni quadri e fotografie come fatto eroico e drammatico, ben differente da quello che fu in realtà (Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012, 356; menzionato anche in Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008, 385).
Un’altra buona possibilità è l’uso di caricature e disegni satirici pubblicati nel XIX secolo, per la loro espressività e per la loro capacità di mostrare i principali dibattiti in corso nell’epoca (soprattutto Arboit, Banfi e Carrara 2001; anche Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008; Bolocan 2005; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012). È possibile sfruttarne tutta la potenzialità didattica quando si lavora su queste illustrazioni e si richiede all’alunno di specificare chi sono i personaggi che vi compaiono, cosa stanno facendo e la ragione di quel disegno.
Quando si mettono in rapporto i movimenti nazionalisti con il Romanticismo, di solito vengono riprodotte alcune delle opere pittoriche romantiche più note come quelle di Caspar David Friedrich, Théodore Géricault o Camille Corot. Nelle opere artistiche riprodotte nei manuali esiste soprattutto una funzione estetica o di accompagnamento, normalmente con poche proposte di lavoro pratico. Ciò nonostante, vari libri scolastici utilizzano i quadri per far comprendere il contesto storico, o per presentare una descrizione precisa che funge da integrazione del testo principale e, talora, si spingono fino alla presentazione dell’analisi di alcune opere pittoriche (Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008; Delbello e Lesanna 2005; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012). Un altro tipo di approccio all’arte e alla politica è quello del libro di Paolucci, Signorini e Marisaldi (2012, 310-311) che, con una sezione specifica intitolata “La parola alle immagini” presenta una sensibilità particolare verso le questioni culturali e affronta temi di estrema importanza –sia nel XIX secolo, sia attuali- come l’uso patriottico dell’arte, menzionandone in forma esplicita l’utilità, per educare gli italiani al culto della storia nazionale.
L’uso didattico del noto quadro di Delacroix La Libertà guida il popolo sulle barricate è un buon indicatore dell’uso variato delle opere artistiche nei manuali scolastici. A volte l’opera compare come semplice illustrazione integrativa del testo (Stumpo, Cardini e Onorato 2005, 103) oppure viene presentata una spiegazione di ciascuno degli elementi che la compongono (Alberton e Benucci 2010, 349; Paolucci, Signorini e Marisaldi 2012; Ronga, Gentile e Rossi 2008, 368; Ruata e Venturi 2008, 274; Zaninelli, Cristiani, Bonelli e Riccabone 2010, 256). In altri manuali, serve per riflettere sul significato del Romanticismo e sul contenuto simbolico di determinate immagini (Giovannetti e Vecchi 2010, 322); per obbligare l’alunno a rispondere a una serie di domande molto specifiche, come ad esempio situare l’opera nel corrispondente paese e identificare quale figura rappresenta la libertà (Amerini e Roveda 2011, 344); oppure si stabiliscono delle analogie con immagini del XX secolo (Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis 2008, 270). Si sente solamente la mancanza della precisazione, in queste analisi, del fatto che Delacroix, che nel 1830 esaltava le glorie dei rivoluzionari, cambiò velocemente di opinione di fronte ai contenuti che le rivendicazioni popolari stavano assumendo; intimorito dalla forza di un popolo in lotta che lui stesso aveva idealizzato, si convertì in un conservatore la cui opera si adattò ai desideri imposti dalla borghesia, in cui barricate e rivoluzioni erano totalmente assenti.
Conclusioni
I manuali per la Scuola Secondaria di Primo Grado considerano superata la tradizione più apologetica e semplificatrice dell’unità d’Italia. Anche se sarà oggetto di un altro studio, possiamo dire che a un primo approccio personale e sulla base dei lavori disponibili (Bosco e Mantovani 2004, 45-54; Sansone e Marelli 1976) si nota chiaramente un contrasto con alcuni manuali degli anni sessanta e settanta che avevano una prospettiva del passato più tradizionale e legata alle questioni diplomatico-militari.
Attualmente vengono spiegati i limiti politici e sociali dell’unificazione, ma persistono omissioni significative. Inoltre, nei manuali osserviamo una contraddizione tra una definizione di “nazione” di carattere essenzialista e buona parte delle spiegazioni del “Risorgimento” e dell’unificazione italiana, realtà storica che ha difficoltà ad adattarsi a determinati schemi teorici prefissati. Si tratta di una contraddizione connessa direttamente al fatto evidente che l’Italia precedente all’unità era caratterizzata da un’enorme diversità in tutti gli aspetti che caratterizzano una nazione secondo la definizione tradizionale: lingua, tradizioni, cultura e storia. Così lo definì a suo tempo Alberto M. Banti (2000a, 26): “differenze istituzionali, diversità di interessi economici e commerciali, difficoltà nelle comunicazioni linguistiche, erano tutte forme di profonda estraneità, sedimentate nel corso dei secoli”.
Questa contraddizione non viene affrontata in forma esplicita, per cui è probabile che gli alunni finiscano praticamente per assimilare la spiegazione più semplicista sulla formazione delle identità nazionali. Sarebbe raccomandabile una piú ampliariflessione critica sul concetto di “nazione” che tenesse in maggiore considerazione le riformulazioni realizzate negli ultimi decenni a partire dalle opere di Hobsbawm (1990), Anderson (1983) o Gellner (1983) e che attaccasse alla radice la presunzione della nascita remota delle identità nazionali contemporanee. Anche Marco Silvani (2003, 12), nonostante consideri che l’idea tradizionale di nazione si sia diluita nei manuali a partire dalla fine degli anni ‘70, accetta che: “In ogni caso l’idea che la nazione sia un’entità naturale, che precede la formazione di uno Stato, è sempre troppo prossima all’orizzonte visibile, anche nella manualistica degli anni ’80 e ’90, per ignorarla del tutto”. La nozione tradizionale di nazione sopravvive, riflesso di un’inerzia accumulata per decenni, “residui latenti di un’ideologia ben interiorizzata e per questo nemmeno più discussa e criticata” (Silvani 2003, 492).
Di conseguenza ancor una riflessione su come si sia formata un’identità nazionale italiana è ancora scarsamente presente nei manuali. Non si presentano tutti i progressi della conoscenza di come, durante il XIX secolo, si sia costruito un nuovo discorso, molto efficace, che ha definito un sistema politico nazionale (Banti e Bizzocchi 2002; Romanelli 1999). Quando si tratta invece della questione concernente il processo di unificazione culturale e linguistica, seppure in forma molto specifica, sono rare le occasioni in cui si propone agli studenti un’attività riflessiva prossima alla loro realtà quotidiana.
Tutti sappiamo che uno dei motivi della mancata assimilazione da parte degli alunni della materia studiata è proprio il mancato stabilirsi di un rapporto tra le nozioni e con l’ambiente in cui gli studenti vivono, per cui i concetti non vengono applicati, o restano confinati nell’aula scolastica. Nel caso di tematiche quali nazione e nazionalismo, è fuor di dubbio che questi elementi sono costantemente presenti nelle nostre vite, per cui durante la spiegazione di tali concetti dovrebbe risultare quasi obbligatorio un maggiore sfruttamento delle risorse esistenti e, soprattutto il riferimento all’attualitá.
Questo è il senso assunto dalle unità didattiche di determinati manuali che mettono costantemente in rapporto l’insegnamento della storia con la formazione di cittadini provvisti di senso critico, principio che invece non sempre applicano rispetto al tema del Risorgimento. Il libro di Giovannetti e Vecchi (2010, 3) afferma che intende situare al centro della propria impostazione “il rapporto tra passato e presente” e presenta in quasi tutti i capitoli una riflessione comparativa. Quello di Zaninelli, Cristiani, Bonelli e Riccabone (2010) intitola alcune attività “Attualizziamo il passato” e “Le domande del presente” in cui vengono presentate domande che presuppongono che la distinzione tra paese reale e paese legale dei politici sia ancora attuale. Anche il libro di Barbero, Frugoni, Luzzatto e Sclarandis (2008) punta su attività simili nel capitolo “Dalla storia… al nostro presente”, con riflessioni molto pertinenti sulla logica della partecipazione politica.
Un altro manuale comprende una sezione intitolata “Storia e cittadinanza” in cui, a partire dalla comprensione di alcuni elementi del passato, si obbliga a riflettere su questioni importanti del mondo odierno, quali il rispetto reale dei diritti dei cittadini (Amerini e Roveda 2011). Queste impostazioni obbligano a mettere in rapporto il passato e il presente o, detto con maggiore precisione, ad applicare le conoscenze acquisite per la comprensione dei problemi delle società attuali, con attività che, ad esempio, fanno riflettere sull’eguaglianza di fronte alla legge e sulla sicurezza giuridica (Ronga, Gentile e Rossi 2008, 326-327). L’opzione di affrontare quelle che vengono definite come “questioni socialmente vive” o “problemi sociali rilevanti” è un modo di verificare la vera utilità dello studio della storia, per comprendere meglio il mondo in cui l’alunno vive.
Tuttavia, nella tematica del Risorgimento e del processo di costruzione nazionale non è ben risolta questa capacità riflessiva e la proposta delle attività pratiche. Vengono proposti alcuni esercizi interessanti, come la proposta di osservazione dell’ambiente urbano in cui si richiede agli alunni di cercare monumenti e nomi di strade e piazze dedicate a personaggi che hanno partecipato all’unità d’Italia (Delbello e Lesanna 2005, 65). Un’altra prospettiva suggestiva, perlomeno per la modalità in cui propone domande sull’identità nazionale –anche se potrebbe approfondire molto di più le problematiche della questione- è la riflessione di uno dei libri (Amerini e Roveda 2011, 319 e 428-431) che include un articolo di stampa recente, testo in cui ci si domanda se l’idea di nazione sia ancora attuale e in cui si propone una riflessione sul rapporto tra patriottismo e calcio.
Rimangono comunque proposte molto puntuali di fronte a un tema come quello dell’identità nazionale la cui comprensione di solito si dà per scontata, quasi ovvia, come di un qualcosa che non vale la pena di problematizzare. Come ben sappiamo, una delle principali virtù di un buon scienziato sociale e di un cittadino riflessivo (come anche degli studenti) dovrebbe essere (come minimo) la capacità di mettere in dubbio e di porsi degli interrogativi su tutto quello che appare ovvio.
In conclusione, la caratterizzazione di tipo essenzialista della nazione, predominante nei manuali, rende difficile l’adeguata comprensione del processo di unificazione dell’Italia. Nonostante la qualità dei libri analizzati, compaiono contraddizioni argomentative, non vengono affrontate con la necessaria profondità le strategie che vennero utilizzate per la creazione di una solida coscienza nazionale ed è fortemente probabile che gli alunni finiscano per assimilare un’idea troppo tradizionale e già superata del Risorgimento.
1 Questo lavoro è parte del progetto: «Sociabilidades y espacios de construcción de la ciudadanía en Cataluña” (HAR2014-54230), Ministerio de Economía y Competitividad». Desidero esprimere il mio ringraziamento ai professori Ivo Mattozzi e Beatrice Borghi, per l’aiuto prestato a livello accademico e personale durante il mio soggiorno presso l’Università di Bologna. Desidero inoltre trasmettere la mia gratitudine ai professori Alberto Preti e Rolando Dondarini della stessa università, a Lucia Carfagno (Museo della Scuola De Amicis), all’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, al Laboratorio nazionale di didattica della storia (LANDIS) –in particolare alle professoresse Nadia Baiesi e Cinzia Venturoli- e alle scuole Guinizelli e Gandino di Bologna.
2 Sull’elevata potenzialità della didattica laboratoriale e dello sviluppo delle competenza della scrittura sulla storia si possono consultare, tra i vari scritti, Mattozzi (2004a), Bernardi (2006), Cenedella e Mascheroni (2014). Sebbene, per parlare di tali lavori in senso stretto, sicuramente dovremmo restringere il concetto di “laboratorio” alle attività che riproducono il lavoro degli storiografi e non estenderlo a qualsiasi attività di tipo applicato (Gualtiero et al. 2010, 19).
3 Per maggiori informazioni su come i libri scolastici definiscono il concetto di “nazione” e in che misura ciò influisce direttamente sulla riproduzione di determinati luoghi comuni sul Risorgimento, consultare Pons-Altés (2016, in stampa).
4 Dobbiamo ricordare che proprio il periodo verso la metà del XIX secolo segnò la comparsa in Europa dei nazionalismi linguistici, con gli inevitabili conflitti che essi comportarono (Namier 1957).
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Biografia
Biography
Dr Josep M. Pons-Altés (ORCID ID: 0000-0001-6833-8241) is a lecturer at Rovira i Virgili University in Tarragona and a consultant at the Open University of Catalonia (Spain). He has also taught at the University of Lleida, University of Murcia, Jaume I University (Spain) and the National University of Asunción (Paraguay). Dr Pons earned his History PhD at Pompeu Fabra University (Barcelona, Spain). His publications include the books El poder polític a Lleida (1843-1854). Eleccions i pronunciaments (1998), Moderats i progressistes a la Lleida del segle XIX (2002), Lluís Companys, els orígens d’un símbol (2005) and Pere Boldú i Tilló. Cooperació i formació (2013). He also co-edited El tractament de les ciències socials per a l’educació primària: proposta teòrica i pràctica (2013) with Antoni Gavaldà.