di Riccardo Amati
Attraversando un periodo storico caratterizzato da grandi e rapidi mutamenti, Benadusi ci fornisce un prezioso e insostituibile contributo allo studio della società italiana a cavallo tra XIX e XX secolo.
Al suo interno troviamo condensati, in un amalgama denso ma eterogeneo, tutti i principali fattori costitutivi del retaggio culturale della piccola e media borghesia italiana, dall’età crispina al termine della Grande Guerra.
Partendo dal cosiddetto “imperialismo in ritardo”, e dalla conseguente frustrazione derivante dal fallimento delle ambizioni coloniali in Africa orientale, l’autore ricostruisce la parabola storico-politica del processo di progressiva saturazione e inevitabile declino della “classe dominante”, che pur sobbarcandosi tutti gli oneri e gli onori della conduzione e della relativa intrapresa delle operazioni militari (come nel caso dell’avventura libica o in occasione della Grande Guerra), dovette inizialmente piegarsi per poi alla fin fine soccombere sotto i colpi dei nuovi gruppi e movimenti di massa di matrice radicale (Nazionalismo e Futurismo su tutti, ma per certi aspetti anche l’Elitismo stesso fu influenzato e contagiato dalla propaganda antiparlamentare, antisocialista, anti-egualitaria e antidemocratica, vedi Mosca, Pareto e Prezzolini oppure il Regno corradiniano, papiniano e prezzoliniano), i quali rivendicarono il pieno diritto, già dagli albori del nuovo secolo, a esercitare il ruolo di nuova classe dirigente del paese.
A guerra finita, infatti, tutti i reduci, gli sbandati, i mutilati, i vari sopravvissuti alla trincea (o al fronte) “saranno disposti a seguire qualunque bandiera, la più idonea a rappresentare le loro aspettative, presenti e future”, triste prefigurazione di quanto sarebbe accaduto di lì a breve: l’emergere e il progressivo consolidarsi dei partiti estremi e “antisistema”, gli inesorabili paladini, distruttori dell’ormai antiquata e irrimediabilmente compromessa società delle élites liberali di tradizionale stampo borghese1.
Ciò nonostante, tuttavia, la sinergica e perdurante azione simbiotica esercitata dalla co-appartenenza dell’individuo borghese alla duplice idealità di “Ufficiale” da un lato e “Gentiluomo” dall’altro costituì l’essenza stessa e la perfetta sintesi del cittadino-soldato tramutatosi in carnefice per ordine dello Stato, legittimato nello sfogo dei suoi impulsi e istinti criminali di violenza, in un continuo inter-scambio e compenetrazione tra virtù civili e valori militari, manifestazione paradigmatica della sapiente e oculata miscela o fusione di e tra senso civico e patriottismo.
Di padre in figlio, di nonno in nipote, i consolidati e tradizionali valori di amor patrio, sacrificio fisico e senso dell’onore furono trasmessi di generazione in generazione al fine di cementificare, e se possibile accrescere, il comune sentire riguardo alla razza e alla stirpe e, indirettamente e forse inconsapevolmente, favorendo e portando a compimento lo stesso processo di unificazione nazionale, incrementando il prestigio dell’Italia sia all’interno, sia al di fuori dei suoi confini geografici.
L’autore è abile nel saper descrivere e cogliere in maniera nitida e lucida, grazie a una fitta serie di materiale bibliografico, archivistico e documentario, gli umori, le passioni, le gioie e i traumi di un’intera schiera di “borghesi in uniforme”, passando in rassegna una lunga trafila di “Ufficiali in grigio-verde”.
Emergono di frequente, dalle testimonianze dirette dei protagonisti, le inquietudini, le gelosie, i dissapori e quel senso di risentimento causato dalla netta separazione, nonché dalla reciproca diffidenza e avversione, tra Ufficiali Superiori (ovvero i militari di professione, più che ben retribuiti, sfornati dalle Accademie di Caserta, Torino e Modena) e gli Ufficiali di Complemento (ovvero coloro che invece non fecero della vita in caserma una questione prioritaria, e non videro nell’“apostolato” una possibilità di carriera, optando generalmente per un posticino tranquillo nel settore burocratico, impiegatizio o delle libere professioni. Essi furono, il più delle volte, mal visti e mal retribuiti, poiché chiamati a ricoprire ruoli di comando senza aver frequentato le scuole militari, e restando comunque subalterni rispetto a coloro che da quelle stesse scuole erano usciti. Di norma, un ufficiale di basso rango poteva ambire al massimo a ricoprire il grado di Capitano, mentre agli ufficiali di alto lignaggio venivano normalmente riservati i gradi dal Maggiore al Generale).
Comunque sia, seppur palesemente denigrati e talvolta persino disprezzati e declassati, questi ultimi, per molti, furono i veri artefici dell’“Unità attraverso la lotta”, gli unici “condottieri” in grado di saldare, in un’unione apparente ma duratura, i supremi voleri, interessi ed “egoismi” nazionali con la rude e maschia “massa”, il popolo, materia di storia: i nostri fanti-contadini2.
Gli “Ufficiali di Complemento” infatti, pur provenendo, chi più chi meno, dai ranghi della piccola e media borghesia cittadina, tendevano per molti aspetti ad assomigliare in tutto e per tutto ai loro sottoposti, condividendone fatiche ed orrori, morte e desolazione, privazioni e vessazioni, con l’aggiunta dell’onere di sopportare il peso della responsabilità, individuale e collettiva, per le decisioni prese sul campo di battaglia, come delle relative punizioni dei tribunali militari nel caso di manifesta e comprovata inettitudine o, nel peggiore dei casi, di codardia.
In poche parole, “un libro tutto d’un pezzo”.
1 VOLPE GIOACCHINO, Storia del movimento fascista, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1943.
2 ORIANI ALFREDO, La lotta politica in Italia: origini della lotta attuale (476-1877), Torino-Roma, L. Roux, 1892; IDEM, La rivolta ideale, Napoli, Ricciardi, 1908.