Brevi cenni sulla Famiglia Latini
La storia della famiglia Latini di Mogliano, nelle Marche, fu già studiata tempo fa da alcuni autori, di solito interessati per lo più ad uno solo dei suoi personaggi, Angelo, Gaetano o Cesare, mai a tutti e tre i membri delle due generazioni ottocentesche, che invece ho ritenuto opportuno rimettere insieme durante il mio lavoro di tesi, riprendendo questa storia familiare per la sua importanza e per la sua rappresentatività. Districandosi nella fitta rete di relazioni che questa famiglia ebbe con la storia nazionale e locale, con le istituzioni politico-militari dello stato pontificio e degli altri stati italiani, con alcuni dei protagonisti di quel periodo, credo si manifesti la misura e le difficoltà di quel trapasso politico nella vita del nascente stato italiano così come nelle vicende familiari dei Latini. Svelando il mutamento ideale e politico dell’ultima generazione della famiglia, rispetto a quello paterno, ci viene mostrato l’endorsment totale avvenuto all’interno dei Latini nel solo arco di due generazioni. Un cambio radicale che muta questa famiglia della piccola nobiltà rurale fedelissima al pontefice, in un’agiata famiglia liberale di indole mazziniano-garibaldina fedele ai Savoia. All’interno della storia dei tre personaggi indagati si emblematizza il passaggio storico dal sistema politico e valoriale preunitario alla volontà di Unità, simboleggiata dalla frattura familiare che si consuma tra il 1848 e il 1860 all’interno della famiglia Latini.
Le fonti che mi hanno permesso di affrontare la ricerca sono in parte frutto della sedimentazione archivistica familiare del ramo riconducibile a Cesare Latini, ed in parte il risultato della consultazione degli Archivi Comunali di Mogliano e di Sarnano, nel maceratese. Alla notevole mole documentaria inedita conservata prevalentemente nell’Archivio familiare ed in quello di Mogliano, ho affiancato la storiografia esistente che nei diversi decenni del Novecento ha trattato i membri della famiglia. Durante la ricerca ho avuto modo di verificare come, all’iniziale cospicuo interesse storiografico di alcuni autori del primo Novecento, si siano susseguiti diversi decenni di silenzio sulla famiglia, per poi rifiorire negli anni novanta del secolo scorso, ad opera di Vincenzo Angeletti (1991). Questa storia familiare ci introduce nello spaccato di storia marchigiana a cavallo tra antico e nuovo regime; inoltrandoci nella frattura intercorsa al suo interno ci è possibile riconoscere i tratti emblematici di quel trapasso storico che rompendo il passato status quo apriva una nuova stagione storica per l’Italia, in chiave regionale e nazionale. La loro partecipazione al risorgimento a lungo dimenticata risulta decisiva per i singoli percorsi dei soggeti della famiglia Latini, nello specifico nell’ultima generazione, quella di Gaetano e Cesare, la quale seppe farsi le ossa, suggerisce lo storico Spadoni (1909), con i sacrifici spesi per l’Unità, ripagati poi con il riconoscimento del loro operato solo molti anni più tardi, nel 1860/61, dalle associazioni nazionali unitarie, mazziniane e piemontesi. I fratelli Gaetano e Cesare entrarono così in quella nuova classe dirigente, laica e borghese, formatasi tra le battaglie e le trame risorgimentali, che acquisì un importante funzione di tramite tra la società, l’opinione pubblica e la nuova amministrazione. Prima di loro Angelo, l’austero padre dei giovani Latini seppe far tesoro delle proprie capacità e della propria devozione, attestandosi in trentaquattro lunghi anni di onorata carriera come ufficiale pontificio fino al grado di maggiore, ebbe la gestione delle maggiori piazze del regno e del carcere politico più importante dello Stato. Seppe distinguersi sui campi di battaglia di Cesena da capitano dei granatieri, divenne comandante di piazza a Rieti, Perugia, Ancona, Benevento ed infine a Civita Castellana. L’audacia mostrata contro i ribelli a Cesena, fruttò ad Angelo l’onore della medaglia d’oro dei Benemerenti, aiutando la sua fama di fedele e devoto servitore del papa.
Il prestigio acquisito dopo il 1832 fanno di Angelo un valido interlocutore per le più alte sfere dello stato pontificio, oltre ad uno degli ufficiali di maggior pregio tra le file papali. Una parabola ascendente che da aiutante del forte di Castel S. Angelo lo porta alla direzione della piazza e della prigione di Civita Castellana. Qui lo trovarono molti dei personaggi più noti del risorgimento, papalini e democratici, lasciandone traccia nella copiosa bibliografia degli Orsini, Armellini, Montecchi, Zambianchi, poi Loevinson (1902), Farini, Ghisalberti (1955). La vera svolta nella storia familiare, quella che stravolge una volta per tutte i valori e le scelte di campo dei Latini, fu la prima guerra d’Indipendenza. Sui campi di Vicenza si consuma lo strappo e la frattura familiare, i tre Latini, partiti unitamente a sostegno delle Venezie sotto le insegne papali, tornarono infatti divisi da quell’esperienza bellica. Il padre Angelo rispose al richiamo del papa mentre i figli restarono oltre il Po con gli altri volontari italiani, rimanendo a svolgere l’incarico datogli. Cesare rimase a guerreggiare con Durando nella difesa di Vicenza, distinguendosi. Questa frattura importante significò il voltafaccia di Gaetano e Cesare verso l’autorità papale e paterna; i giovani Latini preferirono ascoltare le sirene delle idee nazionali a quelle papali. Da quel momento i destini del padre e dei due figli si scostarono; si aprì una nuova stagione di cospirazioni, di sacrifici e slancio patriottico per i due fratelli, che dal tragico 1849 alla trama mazziniana di Ancona del 1853, fino al biennio 1860-61, vide costantemente i Latini impegnati nella breccia politica preunitaria. Nonostante le divergenze rimasero comunque legati nei loro destini. Il 1849 rappresentò uno snodo essenziale, Angelo dovette lottare per uscire illeso dall’esperienza rivoluzionaria, che lo aveva fatto incontrare anche con Garibaldi e con Zambianchi, suo carcerato, mentre i figli divisi tra Roma e le Marche dovettero combattere fianco a fianco proprio con alcuni degli ex carcerati del padre di Civita Castellana.
Così avvenne per Cesare con Felice Orsini nell’ascolano e per Gaetano a Roma, con Zambianchi o Montecchi. L’interessante storiografia oltre all’importante materiale d’archivio ci raccontano una storia inedita dello spaccato carcerario sotto il comando di Angelo Latini, con protagonista la figura dannata del romagnolo Callimaco Zambianchi, sterminatore di preti e fedelissimo di Garibaldi. Da detenuto sventò un complotto di omicidio a carico di Angelo nei mesi di fine 1848, insieme ad altri giovani bolognesi lì detenuti. Questa come altre vicende rilevanti di quei mesi sono emerse dalle ricerche nell’Archivio di Mogliano, ricco di molti documenti inediti. Gaetano e Cesare confluirono dopo il 1848 in quel notabilato di provincia, che su scala nazionale nel centro nord del paese fu valido strumento per il nuovo regime unitario. Questo nuovo ceto laico, libero da legami di filiazione papale fu vissuto dai fratelli Latini con nuovo slancio; da ex militari e possidenti, questi rientravano in quella folta schiera di aristocratici e notabili avvezzi agli ideali nazionali che affiancavano l’etorogenea composizione del nuovo ceto politico. La rottura familiare dei Latini si consumò a seguito dell’emancipazione politica dei figli, generata dalla delusione del 1848 italiano e portata a compimento durante la Repubblica romana; entrambi gli eventi vissuti sulla propria pelle dai due Latini ne segnarono definitivamente orientamento e credo politico. Gaetano e Cesare come moltissimi altri giovani marchigiani, scelsero con forza la via rivoluzionaria, credendo fino in fondo nell’esperienza romana; esponendosi sempre in prima linea per l’Unità nazionale, i due fratelli acquisirono una notevole esperienza politica e cospirativa, andando da un’iniziale adesione al mazzinianesimo verso posizioni più vicine al mondo garibaldino, ammorbidito nella sua carica eversiva.
Così si susseguono nei documenti i nomi e le sigle delle diverse associazioni che i due Latini calcarono per tutto il periodo dal 1849 al 1861, passando dall’Associazione nazionale italiana di Mazzini, all’Associazione emancipatrice italiana di Genova. Di enorme importanza fu allora per Cesare l’amicizia con Concetto Procaccini, uno dei primi mazziniani, esule marchigiano e vicino a Garibaldi stesso. Dal 1856 la Società nazionale italiana diede nuova linfa ai comitati marchigiani, preparandoli al settembre 1860 alla formazione dei Cacciatori delle Marche, quattrocentocinquanta giovani volontari delle migliori casate marchigiane. La storia della famiglia da antiche tradizioni plurisecolari, percorse la sua più importante frattura, nel passaggio tra queste due generazioni, vivendo con drammatica vicinanza e coinvolgimento tutto il 1848 italiano ed europeo, vera data spartiacque per i Latini. Era finita un’epoca, tanto gloriosa e stabile per l’austero padre Angelo quanto opprimente e liberticida per i due figli, che invece da quel momento abbracciarono la causa italiana, condividendone successi e fallimenti. Per decenni seppero farsi trovare al loro posto di uomini di azione e di spirito, di patrioti.
Angelo Latini, carriera e prestigio nello Stato Pontificio da Pio VIII a Pio IX
Angelo Latini si arruolò come cadetto di fanteria di linea a Roma nel 1814, dove rimase fino al 1822. Viene da subito promosso aiutante sott’ufficiale, con dispaccio della Congregazione militare del 29 giugno 1815 a firma generale conte Bracci e segretario Contini (Archivio Comunale di Mogliano, da qui: ACMo, busta Angelo Latini), dando così inizio alla sua carriera militare segnata da un susseguirsi di promozioni nei successivi trentaquattro anni. Nella seconda parte della sua carriera militare Angelo si era recato a Frosinone ed è in questa città che conobbe sua moglie, Livia Scifelli. Questa era di antica e nobile famiglia frusinate, ricchissima, era figlia di Giacinto Scifelli, massone, cospiratore ed amico intimo di Luigi Angeloni, cospiratore anch’esso (Angeletti 1991; Fortuna 1910, 6). Le date e gli eventi che più significarono per la carriera di Angelo, furono i fatti d’armi del 1832 di Cesena ed il successivo biennio 1848/49. Durante questo lasso di tempo sappiamo che Angelo continuò a prestare servizio a Roma ed ebbe il primo figlio Gaetano nel 1818.
Nel 1831 Angelo è promosso capitano del 2′ battaglione granatieri (ACMo, busta Angelo Latini), con nomina del 17 giugno a firma del segretario di stato cardinal C. Bernetti, poi a maggiore dei granatieri pontifici, infine alla soglia dei cinquant’anni promosso maggiore onorario per divenire poi solo nel 1840 con comunicazione del 20 ottobre del cardinal Lambruschini maggiore effettivo nello stato maggiore di piazza (ACMo, busta Angelo Latini). Nel mezzo di queste promozioni sta forse il fatto più significativo della carriera di Angelo in quegli anni, i fatti d’armi della Madonna del Monte di Cesena del 20 gennaio 1832, nei quali si distinse per coraggio e audacia, procurandosi quella consistente dose di sovrana fiducia che gli permise poi di passare ai gradi militari successivi. Angelo allora era sotto gli ordini del col. Barbieri a Rimini. Il 20 gennaio del 1832 Barbieri con più di quattromila uomini e con otto cannoni assalì duemila volontari male armati e male addestrati, che forniti di tre cannoncini si erano radunati presso Cesena, sulla collina detta Madonna del Monte. Si combatté per circa due ore furiosamente, alla fine, sopraffatti dal numero, i volontari romagnoli furono travolti e sbandarono. Allora i soldati pontifici, distrutte le porte a colpi di cannone (ACMo, busta Angelo Latini), penetrarono a Cesena. I fatti d’armi di Cesena significarono una rilevantissima nota di merito nello stato di servizio di Angelo Latini; l’attestarsi come uomo di fiducia del maggiore Rinaldi e fidato interlocutore anche del colonnello Barbieri, così come del generale Resta, comandante generale delle truppe, fanno di Angelo uno degli ufficiali di maggiore spicco tra le file pontificie. Angelo fu decorato con la medaglia d’oro di Benemerenza mentre stanziava a Bologna, con attestato del 4 febbraio 1832 (ACMo, busta Angelo Latini), per la pacificazione delle Legazioni.
Questa onoreficenza gli fu rilasciata dal colonnello Barbieri, comandante della colonna di Rimini su iniziativa del segretario cardinale Albani. Angelo mantenne il grado di capitano dei granatieri pontifici dal 1831 fino al 1838 per poi, divenire maggiore effettivo solo il 20 ottobre 1840, aveva sessanta anni (ACMo, busta Angelo Latini). Fino al 1840 Angelo prestò servizio a Castel S’Angelo, per poi fare un salto e ritrovarlo a capo della piazza di Benevento nel 1841, infine mandato ad Ancona, già da prima del settembre 1842. Dopo Ancona nel 1843 a Civita Castellana, con il comando della prigione, del forte e della piazza. Lungo la sua trentennale carriera ebbe modo di conoscere e frequentare molti personaggi noti, ad Ancona divenne intimo del cardinale Gioacchino Pecci (poi papa Leone XIII) ed è ricordato da Felice Orsini nelle sue memorie, detenuto a Civita Castellana, residenza penitenziaria dei detenuti politici del pontefice. Questi lo descrive così nelle sue memorie: “Il governo papale stabilì, che nella fortezza di Civita Castellana fossero rinchiusi i prigionieri di Stato ad espiarvi la pena. A tempo mio il maggiore Latini n’era il comandante: uomo severo, sospettoso, ed affezionatissimo al pontefice. Vi si trovavano da centoventi prigionieri: quaranta appartenevano alla causa di Viterbo del 1837 (…) Rivolgemmo perciò il pensiero alla istruzione: e tra il giorno si insegnava a leggere e scrivere, il disegno, l’aritmetica, la geografia ecc. In tal foggia si veniva per noi ad oddolcire la sventura, e a trarre partito in vantaggio dell’umanità. Per quanto sicuri fossimo, non avevamo però l’animo sgombro da diffidenze per parte del governo: e ciascuno di noi andava armato degli istrumenti di legnajuolo e di calsolajo, ridotti a pugnali. Il comandante sapeva un tal fatto, ma non se ne dava pensiero” (Orsini 1858, 36). Altre notizie storiografiche e fonti su quel periodo di comando della prigione di Civita Castellana, nello specifico i mesi di fine 1848, le possiamo trovare accennate nel volume dell’autore Mario Costa Cardol (1986, 176), il quale riporta integralmente il periodo che ci interessa, in cui viene menzionato Angelo Latini, tratto da Farini (1851, 58): “Ai signori delle piazze tenevano bordone personaggi come il Latini, comandante del forte di Civitavecchia, dov’erano rinchiusi i malandrini di Bologna. Vecchio ufficiale dell’assolutismo pontificio, Latini era adesso molto comprensivo. Egli li lasciava uscire a diporto e a caccia e quando seppe ucciso il Rossi, e trionfante la sollevazione, scrisse parole di congratulazione al nuovo ministro, e di vituperio al morto. Ed anche costui non era un giovane ufficiale dal favor popolare levato in grado, ma un vecchio soldato del Papa!”.
Troviamo testimonianze del comando della prigione esercitato da Angelo anche nelle memorie di un altro eminente personaggio della prossima Repubblica romana, Mattia Montecchi, egli stesso come l’Orsini condannato a scontare una pena a Civita Castellana, con gli altri detenuti politici. Cito: “Il mese di novembre trovò Montecchi all’ergastolo di Civita Castellana, ove era stato condotto per scontarvi la pena di detenzione a vita. Ai tempi di Gregorio XVI, sebbene la condotta della galera perpetua portasse con se l’obbligo da trascinare la catena al piede, non usavasi applicarla ai prigionieri politici, salvo il caso di grave infrazione al regolamento carcerario, o di malevolenza dei preposti al penitenziario. Il Forte eretto da Alessandro VI, fu più tardi destinato a carcere per condannati politici. Di questi nel 1845 ve n’erano 120. Aveva il comando del Forte il maggiore Latini, uomo severo, sospettoso ed assai affezionato al Pontefice” (Montecchi 1932, 25). Anche l’opera di Ghisalberti risulta una fonte importante, l’autore nella descrizione della reclusione del patriota romagnolo, si cimenta in un giudizio piuttosto affrettato sulla condotta del maggiore Angelo Latini, definendolo “rozzo e severo comandante del Forte” (Ghisalberti 1955, 41), dedito a mantenere l’ordine tra quelle diverse componenti di uomini, patrioti, diversi in tutto, per indole e classe. Un utile spaccato sulla vita di quel forte ci viene anche dall’autore Giovanni Spagnoli, in grado di prefigurare l’atmosfera di quella costruzione, la sua vita interna, le regole, insieme a tutto ciò che invece la circondava all’esterno. Prima di descrivere la cella dell’Orsini, Spagnoli (2007, 42) dice: “I prigionieri erano soggetti a continui controlli da parte di carcerieri rozzi e abbruttiti dal mestiere, che non avevano alcun rispetto per la dignità umana”, una nota che stride un po’ con alcune delle nostre fonti precedentemente illustrate, che ci palesavano una dimensione comunque rispettabile all’interno della prigione e del forte. L’autore continua: “Sopra la cella di Orsini c’era la conforteria, ossia la stanza in cui i condannati a morte passavano l’ultima notte camminando con passi pesanti, o piangendo disperatamente, mentre dalla finestra della sua cella egli poteva vedere il palco della ghigliottina”. Infine aggiunge: “Il penitenziario di Civita Castellana era considerato il peggior luogo di pena dello stato pontificio, chi vi entrava da detenuto difficilmente usciva con le proprie gambe. Comandava la guarnigione della rocca Angelo Latini, papalino sfegatato, uomo”. Immagini ed atmosfere del tutto diverse danno le ricostruzioni di Alfredo Venturi, che usando le memorie dell’Orsini rammenta la sua detenzione in quel forte. Il Venturi (2009, 51) scrive: “Nel nuovo carcere, sotto la tutela del duro comandante Angelo Latini, il giovane passa le lunghe giornate a leggere e discutere di politica con i compagni di prigionia”. In ultimo per chiudere il resoconto storiografico su Angelo Latini, occorre menzionare l’opera di Giorgio Manzini, sempre sulla figura dell’Orsini, per noi importante al fine di conoscere le impressioni dei contemporanei e degli storici su quel comandante del forte e della prigione di Civita Castellana, da lui descritto come “devoto papalino, aveva una sola preoccupazione, impedire le fughe” (Manzini 1991, 93). Il decennio 1840/1850 racchiude l’ultima parte della lunga carriera di Angelo Latini, iniziata nel 1814 all’età non tenerissima di trentaquattro anni e che senza una precisa preparazione militare o scuola ufficiali alle spalle, seppe comunque assicurargli un susseguirsi di promozioni, onori e riconoscenze fino a chiudersi nel 1850, quando riuscì ad ottenere definitivamente la Giubilazione, in data 13 aprile 1850 (ArPM). Angelo in quegli anni sicuramente conobbe i pontefici regnanti, ossia papa Gregorio XVI e poi il conterraneo Pio IX, divenendone uomo fidato, altrimenti per quanto riguarda il periodo gregoriano, non gli sarebbe mai stato possibile vedersi assegnato il ruolo di aiutante comandante del primo forte di Roma, Castel Sant’Angelo, residenza militare dei pontefici da secoli. Tantomeno sarebbe stata anche solo pensabile un’intercessione del papa in vicende giudiziarie riguardanti il figlio di Angelo, Gaetano, come invece avvenne tra il 1853 ed il 1856.
1848: Gaetano e Cesare, figli devoti ma non troppo
Il servizio militare obbligò Angelo a far nascere a Roma i suoi due figli: Gaetano, il primogenito nato nel 1818 e futuro patriota, distintosi durante la Repubblica romana e da cospiratore della trama mazziniana del 1853; e poi Cesare, il secondo figlio, nato a Castel Sant’Angelo dieci anni dopo nel 1828. Anch’egli patriota e protagonista delle successive vicende cospirative fino all’annessione delle Marche allo stato italiano. Il figlio Gaetano percorse tutti i gradi fino a luogotenente, decorato per azioni di merito con la medaglia d’oro. Prestò servizio nel 1835 a Rieti, nel 1846/1847 a Civita Castellana, poi Perugia e Foligno nel 1847, come comandante di tutte le colonne mobili diramate nell’Umbria e nella Sabina. Quando, nel 1848 l’esercito del papa marciò per l’Alta Italia, Gaetano, già distintosi per le sue doti di polso e di mente, ricopriva il grado di tenente della 2′ compagnia del 2′ dei cacciatori pontifici, mentre il fratello Cesare era cadetto d’artiglieria nella 2′ compagnia battaglione cacciatori. L’origine della frattura familiare vera e propria si concretizza a seguito del richiamo papale delle sue truppe dal Lombardo-Veneto; richiamo a cui per fedeltà e devozione verso il pontefice, il padre Angelo rispose prontamente tornando al suo incarico a Civita Castellana, a differenza dei due figli che rimasero a guerreggiare nel Veneto. Il secondogenito Cesare, si distinse persino nella battaglia del Monte Berico, nei pressi di Vicenza. La conquista di Vicenza eliminò dal Veneto le truppe del generale Durando e portò alla successiva caduta di Padova e Treviso e poi di Palmanova. Fu una grave perdita in termini di uomini e di prestigio per la causa italiana (Scardigli 2011; Meneghello 1898). Ritornati nello stato pontificio non più da militari ormai, i due fratelli rimasero uniti in quei tumultuosi mesi, almeno fino alle soglie del 1849.
Secondo la ricostruzione di Attilio Latini (figlio di Cesare) Angelo venne messo in pensione di autorità o in punizione, per il fatto che i figli Gaetano e Cesare non credettero obbedire all’ordine di richiamo fatto dal papa, delle truppe che prima aveva spedito per la liberazione del Veneto. Da uno studio più attento sappiamo come egli abbia, in realtà, chiesto la giubilazione (ACMo, busta Angelo Latini) e sospensione dal servizio attivo subito dopo i fatti del 16 novembre 1848. Nonostante fosse desideroso di ritirarsi a vita privata, Angelo fu costretto per qualche mese a mantenere la sua posizione in quanto, seppur libero di congedarsi dal servizio militare con la giubilazione concessagli, dovette mantenere il suo posto in attesa di un sostituto alla direzione della prigione. Angelo fece questa scelta che possiamo definire d’onore non essendo motivata da alcun interesse personale, per una responsabilità morale e politica che avvertiva come necessariamente sua e di nessun altro, essendo stato il comandante del forte per più di sette anni. Questa condizione di incertezza per Angelo si protrasse nei mesi successivi, fino al 1849 compreso, avendo però una fase di particolare criticità già sul finire del 1848. Nel mese di dicembre, infatti, le porte del forte e della piazza di Civita Castellana vennero aperte dalle truppe della legione garibaldina, condotte dal generale Garibaldi. Una preziosissima testimonianza sulla posizione di Angelo Latini ci viene da Ermanno Loevinson, il quale cita lo stesso Latini quale comandante del forte e della prigione di Civita Castellana, seppur commettendo un errore nella dicitura del cognome. Infatti il Loevinson (1902, 75) lo chiamò “comandante Angelo Casini”, non Latini. L’autore scrisse anche alcune pagine sull’arrivo di Garibaldi a Civita Castellana, dopo il 21 dicembre 1848: “Qui il Generale aveva suscitato grandi timori nel comandante di quel forte, Angelo Casini. Mentre costui trovavasi a letto, Garibaldi dai modi franchi e animato sempre dall’idea di aiutare i disgraziati, era infatti entrato senz’altro nel forte, dove, fra gli altri, erano detenuti per delitti politici 44 bolognesi ed avea loro lasciato sperare di poter essere accolti nelle file della sua legione”. Loevinson cita anche in nota un’interessante memoria di quel giorno, relativa ad Angelo, il quale a suo dire, temeva per l’avvicinarsi della legione un’evasione dei suoi detenuti, tanto da fargli scrivere il 23 dicembre una lettera al ministro dell’Interno, “per ovviare qualunque sinistro” di traslocarli immediatamente altrove.
La risposta che ricevette il Latini dal ministero fu indicativa sull’esito di quelle operazioni, il ministro Galletti tentò infatti di tranquillizzare Angelo, nell’adempimento del suo incarico, reputando ormai inutile qualsiasi misura di precauzione, onde evitare a Garibaldi di far quello che voleva con i detenuti politici di quel forte. Prima del dicembre 1848, grazie all’opera di Giuliano Oliva, possiamo ricostruire l’accennato complotto dello scrivano del forte a danno del Latini. Callimaco Zambianchi fu arrestato a Bologna il 19 settembre 1848 (Oliva 1981, 41), aveva 37 anni e ricopriva l’incarico di capitano civico del corpo del genio di Bologna, e fu detenuto a Civita Castellana sotto l’occhio vigile del Latini. Come riporta anche Carlo Farini (1851, 58): “Un Latini, il quale comandava il forte di Civitavecchia, dov’erano custoditi non pochi di Bologna, e lo Zambianchi con essi, li lasciava a diporto e a caccia”. La liberazione avvenne naturalmente in forza di un cambio di equilibri politici, seguiti al 16 novembre, che giocarono a favore dello Zambianchi, il quale interrogato a Genova l’anno successivo racconterà come: “Il Galletti, ministro dell’Interno fece avvertire il Comandante del Forte per istaffetta di mandarmi a Roma onde prendere il comando di una colonna mobile…” (Oliva 1981, 48). A meno di un mese dalla fuga di Pio IX a Gaeta, il forte ed il suo comandante Angelo erano oggetto di un complotto eversivo, a loro danno, escogitato dallo scrivano Cennerelli, riuscito comunque nella fuga e sventato grazie all’intervento di Zambianchi e di alcuni “bravi giovani bolognesi” (ACMo, busta Angelo Latini). Merita una piccola parentesi questa figura appena incontrata dello Zambianchi, Callimaco (Isnenghi 2011), figura maledetta dalla storiografia tradizionale e di eccezionale complessità, militare esperto e maggiore dei finanzieri di Roma, tra il 1848 ed il 1849. In un brevissimo lasso di tempo proprio tra Roma e Civita Castellana sembrano intrecciarsi le vicende dei due Latini, Angelo e Gaetano e dello Zambianchi: l’uno un padre legatissimo all’autorità papale in fuga ma nonostante questo ancora in servizio e Gaetano suo figlio, ardentemente dedito nei mesi successivi alla causa repubblicana che si stava preparando, proprio insieme allo Zambianchi, detenuto nel forte comandato dal padre e persino responsabile di aver sventato a suo danno un attentato. Salvato quindi dai suoi stessi detenuti, fatto se non inaudito, almeno inusuale. Angelo prima di essere definitivamente giubilato dovette difendersi dalle calunnie che potevano macchiare la sua credibilità, inoltre vi era un altro fattore che le autorità pontificie non potevono ignorare, il contemporaneo schieramento politico e militare che i due figli, Gaetano e Cesare, adoperavono per la causa repubblicana. Basti accennare al contemporaneo impegno durante il 1849 nelle battaglie di Velletri, al Casino dei Quattro Venti e Porta S. Pancrazio di Gaetano, ed alla partecipazione nella lotta al brigantaggio nell’ascolano di Cesare con la colonna mobile di Fabriano e Felice Orsini. Il progressivo allontanamento dei due figli dal sentiero politico tracciato dal padre, di fedeltà e devozione al pontefice, già iniziato con le fibrillazioni e le delusioni dell’appena concluso 1848, arrivò ad un punto di non ritorno nella primavera ed estate 1849. Abbracciando la causa nazionale italiana, Gaetano e Cesare scelsero di cambiare definitivamente il proprio campo politico ed ideale, rinnegando quello paterno essi si cimentarono con passione nella realizzazione di una differente idea di Stato, repubblicana e democratica. Alcune pagine di questa storia poco conosciuta, consumatasi tra Roma, Ceccano e Mogliano nelle Marche, furono a più riprese scritte da vari storici, dai già citati Vincenzo Angeletti, a Carlo Cristofanilli, a Domenico Spadoni ed in principio prima degli altri, dal breve volumetto del frosinate Alessandro Fortuna. Dal febbraio 1849 furono separati anche i due fratelli, divisi tra Roma e l’ascolano, dal momento che sappiamo Gaetano essere in servizio a Roma dal primo giorno della Repubblica romana, il 9 febbraio e Cesare invece lo ritroveremo nei territori della vecchia delegazione di Ascoli, impegnato nella lotta al brigantaggio. Utili a riguardo gli studi di Galanti (1990). Cesare si trovò poi dopo l’aprile 1849 sotto il comando di Orsini nelle Marche, sotto di lui i suoi uomini riuscirono a sbaragliare le bande di rivoltosi e assassini degli ammazzarelli nell’anconetano e dei sanfedisti nel sud della regione (Severini 2002; 2010; 2011). Un ceto composito si insediò ai vertici della vita pubblica, in virtù di una lunga militanza nell’associazionismo segreto o da esordienti nel nuovo clima di aperture e speranze aperto dall’elezione di papa Mastai.
Questi anni furono quelli che maggiormente influenzarono i loro impetuosi caratteri, definendone le amicizie, i contatti ed inoltrandoli nel mondo di segreti, astuzie, accorgimenti, spie e delatori che segnarono tutta la loro vita fino all’Unità d’Italia. Entrambi appresero a fondo le dinamiche vigenti in quell’incerto clima politico, in territori lontani dall’impeto di Roma, in un ambiente di sperimentata fedeltà papalina (Severini 2011, 74). La premura della famiglia nel conservare e tramandare il materiale documentario di quelle generazioni ottocentesche ha di fatto preservato molte lettere della fitta corrispondenza di Cesare Latini, che vanno dal 1849 al 1911, l’anno della sua morte (Archivio Famiglia Pettinelli-Montesi, da qui: ArPM). Gaetano trascorse i mesi repubblicani sempre a Roma, col grado di capitano: “che servì dal 9 febbraio al 6 luglio 1849 fedelmente nel Corpo Reggimento la Repubblica Romana”, come riportato dal suo foglio di congedo (Cristofanilli 1995) rilasciato dalla Repubblica romana, 3′ regg. fanteria di linea 1′ compagnia cacciatori, il 7 luglio ed a firma del comandante del battaglione magg. Antonio Volponi e dal comandante del reggimento colon. E. Marchetti, controfirmato dall’aiutante di piazza francese. Roma fu assaltata dai francesi all’alba del 3 giugno in una terribile giornata di combattimenti, il primo obiettivo era la conquista del Gianicolo, poi il casino dei Quattro Venti (Eleuteri 2001), al centro di Villa Corsini fuori porta San Pancrazio. I Latini insieme a molti italiani dell’ex stato pontificio, si catapultarono a Roma, con garibaldini, avventurieri a piede libero e cittadini di un’Europa per larga parte ancora non libera e oppressa, ma soprattutto molti giovani, appartenenti alla generazione risorgimentale per antonomasia (Severini 2007). Per l’impeto dimostrato nelle battaglie di Velletri, del Casino dei Quattro Venti e di fuori Porta San Pancrazio, il capitano Gaetano Latini venne insignito della medaglia d’argento il 4 luglio 1849, come si può rilevare dal suo stato di servizio, riportato dall’Angeletti (1991, 9): “Dichiarato dal Governo della Repubblica benemerito della Patria per il suo grande valore addimostrato in ogni incontro per cui gli venne conferita la medaglia d’argento al valore militare”. L’esperienza romana di Gaetano e quella marchigiana di Cesare contro il brigantaggio del 1849, terminarono con la caduta di luglio del governo repubblicano, alla quale seguì il rientro dei due fratelli al paese natale di Mogliano. Cristofanilli (1995, 9) nello specifico sostiene in maniera piuttosto generale, come i Latini segretamente: “si tenevano in contatto con i principali fautori del Risorgimento, che facevano capo all’Associazione Nazionale Italiana”, fondata dal Mazzini, con comitato nazionale a Londra e con direzione centrale interna tenuta segretamente a Roma e diretta dall’avvocato Giuseppe Petroni. Il Petroni fece sorgere nelle varie province italiane vari corpi armati militari, pronti ad intervenire alla prima occasione propizia ed ai quali ciascuna città o paese doveva dare il proprio contributo di uomini (Fortuna 1910). I Latini si misero a lavoro anima e corpo, pienamente convinti del valore della causa abbracciata e dei compagni scelti. Militando nelle fila del comitato mazziniano i due giovani presero a congiurare contro il restaurato regime pontificio. Gli anni dal 1849 al 1852, furono senza dubbio pericolosi e pieni di insidie, il sospetto di un delatore doveva significare una preoccupazione costante per i membri dei vari comitati sui territori. Dalla consistente documentazione d’archivio e familiare è possibile accennare ad una comprovata militanza di Cesare e Gaetano in quei comitati, al punto da divenirne figure di spicco, stimate e conosciute nell’intera Associazione nazionale.
Gaetano in particolare a dimostrazione di tali anni di abnegazione e sacrificio venne nominato nel febbraio 1853 Commissario di guerra durante il periodo insurrezionale per tutte le provincie della Marca, con nomina dello stesso avvocato Petroni da Roma, sotto lo pseudonimo di “Marco”, per la direzione centrale italiana rispondente a Mazzini. Le parole del Petroni delle missive dirette a Gaetano, ci confermano un personale attaccamento tra i due e ci testimoniano il valore che questi doveva avere assunto in quel lasso di quattro anni, tra la Repubblica romana e la congiura marchigiana del 1853, all’interno della macchina organizzativa mazziniana. Furono gli anni centrali dell’esperienza politica e cospirativa dell’allora trentenne Cesare, i quali gli permisero di affermarsi in quella particolare parte politica, fino a divenire una colonna di quel panorama politico e territoriale. Mai troppo esposto da destar pesanti sospetti e allo stesso tempo mai troppo inoperoso da non destar alcun sospetto o fare notizia (svariati esposti anonimi contro l’attività di Cesare). Giovanni Maioli nel suo saggio (1960), cerca di esporre nella maniera più lineare possibile la posizione delle Marche nel frammentario decennio 1849/1859. Nel 1852 Cesare fu tra quelli che ospitarono e condussero in salvo, per trafila, fino a San Marino, il frate agostiniano Giuseppe Frigeri: “uno dei condannati del processo carbonaro di Corinaldo, fuggiasco dal convento di Montelpare, ove loco carceris era stato rinchiuso” (Angeletti 1991, 10; ArPM). La notizia risulta dal Ristretto informativo della Causa Anconetana di Lesa Maestà (Spadoni 1909), in cui compare il nome di Cesare come colui che tenne occultato per più giorni il “settario frate domenicano”, consegnandolo poi, per ordine del comitato centrale di Ancona, a Concetto Procaccini di Pausula, che per trafila lo consegnò allo jesino Giacomo Acqua, che lo consegnò a sua volta al conte Adolfo Spada di Pesaro, finchè rifugiatosi a San Marino poté evadere in Inghilterra.
La trama mazziniana di Ancona del 1853, ruolo di Gaetano e processo
La frammentaria storiografia tradizionale di inizio Novecento trattò gli eventi della trama mazziniana del 1853 nelle Marche in una chiave interpretativa celebrativa, essendosi pressoché costituita durante gli anni del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia; numerose furono infatti in quegli anni le pubblicazioni dello storico marchigiano Domenico Spadoni (1909a; 1909b; 1910a; 1910b), di Alfredo Comandini (1899), del laziale Fortuna (1910) e di altri. La bibliografia storica sui fatti del 1853 si è arricchita ulteriormente negli ultimi venti anni, specialmente grazie ai lavori dello storico marchigiano ed ormai ex professore dell’Università di Macerata, Michele Millozzi; autore della biografia del patriota anconetano Antonio Giannelli. Ad esse un ulteriore valido contributo venne da Piero Giustozzi (2007; 2011), autore di due pubblicazioni sulla figura di Saverio Grisei. Il fulcro del materiale che la storiografia tradizionale usò per l’interpretazione di quei fatti, risiede nella ricostruzione realizzata da Domenico Spadoni (1909a); il saggio ripercorre passo passo i mesi a cavallo tra il finire del 1852 ed il 1853. La storia di Gaetano Latini torna ora con forza al centro della trattazione, proprio per mano di questa Direzione romana della Ani, che a firma di Marco (ossia l’avvocato Petroni) nel novembre 1852, scrive a Gaetano, domiciliato a Mogliano. Questa lettera che lo Spadoni (1909a, 10) riporta gli fu consegnata dallo stesso Cesare Latini, così: “come altre segrete corrispondenze immediatamente posteriori, scritte dalla stessa Direzione, e salvate, in quel periodo periglioso, sotterra, entro un tubo di piombo, come ci ha attestato l’ottantunenne egregio fratello Cesare, tuttora vivente di una balda vecchiezza”.
Questa lettera come le altre di quella corrispondenza, dovevano restare segrete ed inviolabili alla polizia pontificia, così venivano cifrate in modo da celarne i contenuti più importanti. La serie di numeri e virgole che ne usciva, doveva risultare del tutto inutile ai servizi di spionaggio papale, se priva della chiave cifrata che ne svelasse il contenuto. Una di queste chiavi venne di lì a poco svelata al grande pubblico, ancora una volta proprio grazie a Cesare Latini che la fornì allo Spadoni. Questi (1909a, 11) a riguardo in nota aggiunge: “Che Gaetano Latini fosse nel 1853 Commissario dell’Associazione Nazionale, si rileva dal ristretto processuale della causa Anconetana, ossia II parte della processura ascolana di gravissime delinquenze comprese tutte nel titolo di Lesa Maetà (Roma, Tip. Cam. Apost. 1861), dove a pag. 24 è detto che il Mazzini, per mezzo dei Commissari Franceschi e Latini, fece credere ai rettori di Ancona che la rivoluzione era certa pel febbraio 1853”. Intanto il lavoro del Petroni, per fornire ogni provincia e paese del suo comitato, andava creando veri e propri corpi militari: a tal scopo arrivò la nomina a Commissario di guerra per Gaetano Latini, nascosto sotto lo pseudonimo di Decio Bruti. Il Latini svolse questo suo nuovo incarico con alacrità ed impegno, non esitando di fronte al pericolo e mettendo a rischio la sua stessa vita per la causa italiana, che tanto ardentemente aveva abbracciato. I comitati avevano predisposto tutto nelle province, per assicurare militarmente l’estendersi dell’insurrezione da Milano alle altre regioni italiane; l’attesa di buone notizie dal capoluogo lombardo costrinse i comitati ad uno stallo nervoso e trepidante, destinato ad assopirsi velocemente alle prime notizie della sventata insurrezione di Milano. Ben presto seguirono i primi arresti, il primo fu l’anconetano Giannelli. La ricostruzione dello storico Spadoni, coadiuvata dalle memorie del vecchio Cesare Latini, arriva a ventilare delle imprudenze commesse dall’anconetano Giannelli, considerato allora l’eterno congiurato. In nota lo Spadoni scrive che Cesare gli disse di ricordare: “che in un’osteria vicino ai Tre Archi fu poi stilettato un tale che i liberali supponevano fosse stato causa dell’arresto del Giannelli”. L’ipotesi che venne allora formulata, era il 1909, fu che la polizia arrivò sulle loro tracce dalla venuta di Luigi Neri da Bologna, mandato ad Ancona dal Mazzini stesso e fornito del proclama di Kossuth per i soldati ungheresi della fortezza di Ancona, per unirsi a loro nell’insurrezione (Spadoni 1909a). Il 3 marzo 1853 avvennero gli arresti di A. Fantini e Pallotta, poi di J. C. Fabbri. Vi furono arresti anche tra i soldati ungheresi. Dopo questi primi arresti ne seguirono altri, tra cui quelli dello stesso Gaetano Latini, arrestato il 26 marzo dal tenente Perfetti della gendarmeria di Macerata e del conte Saverio Grisei di Morrovalle, i principali sospettati per caratura politica e militare. Escluso il Giannelli tutti gli altri patrioti arrestati erano del territorio maceratese, “la cui rilevanza è stata trascurata inspiegabilmente dagli storici” (2011, 26), sostiene giustamente il Giustozzi. Alle prime perquisizioni seguirono le delazioni, alla prospettiva della forca molti se non tutti i detenuti confessarono, arrendendosi alle arti inquisitorie dei loro carcerieri. Gli arrestati erano imputati di alto tradimento dalle autorità austriache, inoltre veniva a cadere su di loro anche l’accusa riguardo l’accertato tentativo insurrezionale, prontamente scoperto e impedito. Una cospicua serie di personaggi, più o meno noti si spesero per queste persone; lo Spadoni scrive come ad Ancona i primi a muoversi furono gli amici del Giannelli, che coinvolsero alcune nobili signore, tra cui Emma Gaggiotti, personaggio dal profilo assolutamente singolare. Questa era nota per la sua straordinaria bellezza, “che molto poteva sull’animo del Generale Austriaco” (Spadoni 1909b). Per il nostro Gaetano Latini, la storiografia tradizionale di Spadoni e di altri, riconobbe l’intervento del monsignore Giuseppe Berardi, fratello di Apollonia, moglie di Gaetano, il quale fu cardinale molto influente nella corte di Pio IX e futuro ministro. Egli perorò vivamente presso il papa la causa in favore del cognato, intercedendo per la grazia: Cesare raccontò allo Spadoni che Pio IX inviò appositamente a Verona un monsignore dal Generale Radetzky, ottenendo quella riduzione della pena, che salvò la vita dei condannati. Importantissime risultano le lettere tra il padre del detenuto, Angelo Latini ed il cavalier Gaggiotti, intendente generale dell’esercito pontificio, nonché padre della nobildonna Emma, pittrice ed affermata personalità delle corti di mezza Europa. Questi nuovi importanti documenti ci permettono di ipotizzare una lunga conoscenza tra i due distinti ufficiali pontifici durante le loro carriere, tornata poi molto utile a partire dal febbraio 1853. Il figlio del maggiore in pensione Angelo Latini, Gaetano fu incarcerato e detenuto con gli altri a Santa Palazia poi al Lazzaretto di Ancona, qui solo grazie all’azione congiunta dell’ ufficiale militare Gaggiotti, della figlia e del cardinale Giuseppe Berardi ebbe salva la vita, grazie ad un lungo lavoro di pressione su Pio IX affinchè intercedesse per lui e per gli altri detenuti. La sentenza venne emessa il 17 febbraio 1854, in mancanza dell’intero fascicolo processuale, misteriosamente sparito dal luogo predisposto per la sua conservazione, ci risulta nota tramite una lettera del delegato apostolico di Ancona, Camillo Amici, indirizzata al direttore generale della Polizia di Roma, il 26 gennaio 1855 e pubblicata dallo storico Alfredo Comandini (1899). La pena più aspra spettò al nostro Gaetano Latini condannato a sei anni ai ceppi, così come sei anni di lavori forzati in ceppi leggeri (Giustozzi 2011) spettarono al Castelletti. Gli altri ebbero solo uno o due anni. La storiografia moderna del Millozzi (1988; 2004) in testa, ha ritenuto poco influenti tali intercessioni ai fini della pena, sostenendo come essa sia stata conseguenza della sottile tattica politica del Radeztky, il quale si mostrava inflessibile e spietato con i cospiratori del Veneto e della Lombardia, clemente invece con i sudditi del papa. La tentata insurrezione marchigiana del 1853, il relativo processo, le condanne a morte ed infine la commutazione delle pena al carcere duro, rappresentano eventi storici di rilevanza più che territoriale data la portata dei personaggi e degli eventi transnazionali e politici. Gaetano scopriremo sfuggì alla pena per il diretto intervento del papa Pio IX il quale inviò al Radezky il commissario straordinario di Ancona, monsignor Amici, incaricato di chiedergli la grazia. Tale intervento venne dalle pressioni esercitate sul pontefice dal monsignor Berardi di Ceccano, fratello della sposa del malcapitato e influentissimo personaggio della curia romana (Cristofanilli 1995). L’innegabile coinvolgimento politico e militare di Gaetano nell’Associazione, di conseguenza nella trama del 1853, fecero temere il peggio ai suoi cari, tanto da indurli a perorare in ogni modo la sua causa. Da qui gli interventi del Berardi e dei Gaggiotti, aggiungo io, padre e figlia. A differenza della storiografia finora conosciuta, mi sembra di poter affermare con sicurezza che in favore del Latini, e non o non solo per il Giannelli, la bellissima oriunda romana Emma Gaggiotti, così come l’austero padre, intervennero presso le autorità austriache (ArPM). A riprova di tale tesi stanno alcune interessanti lettere tra il padre della Gaggiotti ed il nostro Angelo Latini. Il Gaggiotti lo metterà in contatto poi con lo stesso Gentilly, uditore militare, il quale intervenne di persona la mattina della programmata esecuzione, accorrendo alla spianata della fortezza di Ancona con ordini di sua maestà l’imperatore: la pena era stata commutata nel carcere duro. Gaetano ricevette comunque il massimo della pena tra quei detenuti, sei anni di carcere ai ceppi, da consumarsi nella fortezza di Ancona, che se paragonati alla paventata forca, immaginiamo come essi siano in realtà ben poca cosa. Queste due eminenti figure tornarono molto utili alle sorti di Gaetano Latini, il quale rimase rinchiuso per quasi cinque anni nella fortezza di Ancona di S. Pelagia (o Palazia). Solo in ultimo le pressioni esercitate dalle famiglie Latini e Berardi verso la S. Sede e l’Austria fecero sì che nel dicembre del 1856 la detenzione di Nino fosse mutata in domicilio coatto a Ceccano, paese natale della moglie. Gaetano Latini rimase poi cieco dal 1861 dopo un incidente a Ceccano, nel quale partì un colpo di moschetto al suo interlocutore e vecchia conoscenza, il marchigiano Luzzi. Si parlò di incidente nei verbali ma la famiglia pensò ad una vendetta del mondo cospirativo marchigiano (ArPM; Angeletti 1991; Cristofanilli 1985). Sulla sua tomba una lapide ricorda: Gaetano Latini volontario garibaldino con il grado di Capitano nato 15 maggio 1818 morto 6 novembre 1882 Medaglia d’argento (1849) al valore eroe del Risorgimento italiano. Lo Spadoni (1909a, 13), scrisse: “Dalla prigione Gaetano Latini, con la fibra scossa dalle terribili emozioni provate, si ritrasse nel paese materno di Ceccano, dandosi tutto alle pratiche religiose, né più occupandosi di politica. In sua vece, nella piccola Mogliano, rimase ognora sulla breccia della cospirazione il suo fratello Cesare, sempre pronto a compiere il suo dovere di liberale, come ancora oggi, nella sua vecchiezza gagliarda, serba intatto il carattere”, era il 1909 e Cesare aveva 81 anni.
Il lungo decennio di cospirazioni, la Società nazionale ed i Cacciatori delle Marche
A cambiare un poco l’atmosfera e il clima politico e morale, dal 1856 in avanti, sorse, per opera di Daniele Manin e di Giuseppe La Farina, la Società nazionale italiana, la quale estese la sua propaganda ed il suo proselitismo anche nelle Marche (Maioli 1960). L’organizzazione era necessariamente segreta e la corrispondenza dei comitati tra loro e con la presidenza centrale era per linguaggio cifrato. La Società nel 1860 fu capace di animare una serie di micro insurrezioni filopiemontesi nei territori controllati dai pontifici, non grandi rivoluzioni certo ma sufficienti a sgominare le poche difese di quei territori, non in grado di resistere a lungo o opporre resistenza senza l’aiuto degli austriaci (Isnenghi 2011). Tutti i comitati avvertiti per tempo misero in moto i loro gregari: aspettando pronti ed attenti, tra le Marche e l’Umbria, il via. Si preparavano colonne di volontari, comprendenti Marchigiani, Umbri ed altri da ogni luogo, per precedere le forze piemontesi e dare man forte alle popolazioni insorgenti (Maioli 1960). Un ruolo di primo piano nella sollevazione del Piceno venne svolto dal corpo dei volontari, denominato Cacciatori delle Marche, diretto e guidato dai patrioti maceratesi. Si poteva contare, con certezza, soltanto su un gruppo di circa cinquecento volontari provenienti da vari comitati cittadini, privi di armi ma disposti a battersi. I Cacciatori si concentrarono nei dintorni di Ascoli, e non essendo arrivate in tempo le armi loro promesse, passarono il Tronto, ed al momento delle operazioni ripassarono il fiume, e parteciparono onorevolmente, alla liberazione del fronte meridionale delle Marche, armandosi con le armi degli avversari. Questi scontrati già in fuga a seguito della battaglia di Castelfidardo, li scompigliarono, catturarono un buon numero degli stessi ed un gran numero di cavalli ed altro bottino. Tra questi volontari spiccava anche la figura del nostro Cesare Latini, allora designato capitano della prima compagnia: comandati da Saverio Grisei di Morrovalle e da Francesco Frisciotti di Civitanova Marche. Numerosi storici hanno trattato la vicenda dei Cacciatori delle Marche, componendo una copiosa bibliografia sull’argomento, alcuni vissuti all’epoca dei fatti, Alessandrini (1910), Finali, Fucili, Leti, Marchetti, Maioli, Paolini, Poli, Righi, Giovanni e Domenico Spadoni, Speranza (2011) e Sinigallia. Nell’esporre tale vicenda partiremo dallo studio di questi autori e dall’esauriente e dettagliata opera dello storico e colonnello Attilio Vigevano (1913), riconosciuto da gran parte degli autori come la fonte più attendibile. A Martinsicuro affluirono volontari da ogni dove, fatto che nelle intenzioni avrebbe confuso i pontifici sulle reali intenzioni degli insorti. Nei giorni 14 e 15 settembre affluirono da Macerata, Camerino, Fermo ed Ascoli. Erano quasi tutti giovani disarmati, vestiti: “come abitualmente usavano per meglio sfuggire alla vigilanza dei Pontifici e alla osservazione della gente”. Erano accorsi più di quattrocentocinquanta giovani: “tutti appartenenti alle migliori famiglie, sia per censo, sentimento e cultura”. La loro scelta di sacrificio era stata premiata da un pubblico proclama di lode nei loro confronti, emesso dai due commissari, per la loro disponibilità e lo spirito di sacrificio: “sprezzanti del pericolo al grido viva Vittorio Emanuele re d’Italia, viva Garibaldi” (Giustozzi 2007, 115). L’azione venne il 18 settembre, giorno indicato per un’incursione nel territorio ascolano e di lì, con una marcia forzata si sarebbe trattato di prendere Fermo, facendo prigioniero il potente cardinal De Angelis. Andava impedito il ricongiungimento delle truppe papali in rotta da Castelfidardo (Poli 1932), con quelle di Chevigné e quelle napoletane stanziate a Civitella del Tronto. Vigevano (1913) descrive l’incontro tra quaranta Cacciatori, tra questi “alcuni provvisti di solo bastone”, con una colonna di cinquecento pontifici (ArPM). La retroguardia si diede alla macchia, mentre il grosso si arrese ad un colpo di cannone in lontananza. Questo fatto del colpo di cannone da Grottammare si trasforma ben presto in un aneddoto, che potremmo ben usare ad idel tipo di tutta la vicenda breve ed intensa dei Cacciatori delle Marche, per la natura sostanzialmente fortuita del suo accadimento e per l’enorme conseguenza che comportò: l’arrendersi senza colpo ferire di un contingente regolare pontificio, dodici volte più grande di quello dei Cacciatori, ben armato e dotato persino di cavalleria, a 40 uomini con pochi cavalli, pochissimi vecchi fucili da caccia e senza alcun cannone naturalmente. Inoltre secondo alcuni storici, tra i quali T. Possenti (2000): “il rombo di un vecchio cannone che si sparava a Grottammare era per solennizzare la festa di una Madonna e non per festeggiare la riconquistata libertà e la liberazione dall’esoso giogo papale”, un’interpretazione dei fatti da ritenere sicuramente più probabile alle parole del Frisciotti. I pontifici dopo aver deposto le armi, arrendendosi ai loro nemici, vennero ben presto presi dallo sconforto e dalla vergogna “di aver abbandonato le armi avanti un pugno di uomini” (Giustozzi 2007, 117). Quella dei Cacciatori delle Marche è una storia durata appena nove giorni, nei quali non ci furono feriti, nè morti, non avevano sparato un solo colpo di fucile, riuscendo comunque a dimostrare di possedere le doti di fermezza ed audacia, proprie dell’ottimo combattente. Gli storici sono concordi nell’affermare che la loro attività insurrezionale concorse ad indebolire l’organizzazione militare pontificia e ad impedire agli sbandati e fuggitivi dell’esercito pontificio di riorganizzarsi. L’esperienza dei Cacciatori si concluse in fretta, lasciando Cesare in una posizione di rilievo; già reduce e combattente, si sarebbe poi dedicato all’opera di unificazione nazionale, non sottraendosi mai al proprio dovere di patriota e di cittadino. Nella sua Mogliano si continuò a dedicare alla collettività, fu poi indicato per decreto sindaco per il triennio 1864/66, a margine di una serie di pubblici incarichi che ottenne dal 1862 (ArPM). Il 1861 presenta diverso materiale sulla partecipazione di Cesare ad un’altra importante associazione nazionale, l’Associazione dei comitati di provvedimento, nel cui comitato centrale di Genova si trovava anche Procaccini. L’attività ormai decennale di Cesare Latini ricevette un primo formale riconoscimento, in quei primi mesi del 1861, quando il 21 marzo ad Ancona (AcMo), Girolamo Orsi per il comitato centrale certificava e garantiva sulla figura del Latini, come fervente patriota, concedendogli un pieno attestato di stima. La partecipazione di Cesare Latini alle vicende dell’Associazione dei comitati di provvedimento, divenne sempre più attiva nei mesi successivi, tracciando per il 1862 una progressiva parobola, un intensificarsi di corrispondenza con il Procaccini che ci lasciano supporre la volontà di Cesare di partecipare ai fatti d’armi che si stavano preparando in quei mesi nelle file garibaldine, la giornata dell’Aspromonte del 29 agosto 1862. Fatto che traspare in una lettera scritta privatamente all’amico Cesare, nel tentativo di coinvolgerlo, testimoniato anche nel documento curato da D’Angiolini (1964). La serie contraddistinta col nome di “Biografie” contiene notizie di persone sospette al governo per la loro attività politica (D’Angiolini 1964, 5). La voce Concetto Procaccini inserita il 6 ottobre 1863, riporta la professione di “notaio, Genova, Rep.”, aggiungendo per esteso: “Nel ’60 andò in Sicilia nella legione Medici e fu promosso sottotenente. Membro della Società Emancipatrice, prese viva parte ai preparativi del fatto di Aspromonte. Trovasi ora negli uffici del giornale Il Dovere”. Un’analoga schedatura, risulta per l’amico Cesare Latini: “Possidente, Mogliano (Macerata), anni 35, Rep. (14 settembre 1863) Appartenne alla Giovane Italia. Militò come ufficiale nella Repubblica Romana. È consigliere comunale e capitano della Guardia Nazionale” (D’Angiolini 1964, 122). Successivamente anche nella provinciale Mogliano le cose cambiarono, fu così che Cesare Latini divenne sindaco, da consigliere comunale qual’era, riuscendo con l’amico Rastelli ed altri personaggi ad assumere la gestione del comune per i successivi anni. Adoperandosi in prima persona in moltissime inziative per la città, come la Società operaia di mutuo soccorso, il Tiro a segno, la Banda musicale. Segni di un lavorio continuo di quel nuovo gruppo dirigente comunale, formatosi insieme nelle battaglie risorgimentali ed ora impegnato nella difficile riorganizzazione del comune e del suo territorio.
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