di Alberto Malfitano
In occasione di una delle più importanti rassegne nazionali dedicate alla montagna, il Trento Film Festival, si è tenuta nel 2016 una fitta giornata di studi dedicata alla figura di Michele Gortani, senatore e costituente originario di Tolmezzo, a cinquant’anni dalla scomparsa. Il convegno, di cui pochi mesi fa sono stati pubblicati gli atti, è stato l’occasione per ricostruire la figura di un politico poco conosciuto al di fuori dei confini friulani, ma che svolse un ruolo importante per la sorte dei territori montani italiani in genere e non solo dell’amata Carnia, da cui proveniva. Durante i lavori della Costituente, infatti, alla quale partecipò tra le fila della Democrazia cristiana, Gortani riuscì nell’intento di inserire un contributo, breve nella forma ma fondamentale nel contenuto, che vincolava la Repubblica all’impegno di migliorare le condizioni di una parte del territorio nazionale tanto vasta quanto da tempo sofferente e trascurata, la montagna. Quel comma, inserito nell’articolo 44 della Carta, recita che «La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane» e ispirò le successive iniziative parlamentari. Pochi anni dopo, la legge 991 del 1952 dava sostanza a quella affermazione di principio, con l’intento di riprendere il concetto di bonifica integrale già teorizzato da Serpieri e mal realizzato dal fascismo, per tamponare la crisi delle “terre alte” italiane; a quella legge altre sarebbero seguite, fino all’ultimo provvedimento, risalente al 1994, di cui fu promotore Gerardo Bianco, presente alla giornata di studi.
La crisi della montagna italiana affondava le sue radici nel passato. Fin dall’Ottocento un evidente squilibrio tra risorse disponibili e pressione antropica aveva provocato sui monti italiani palesi problemi di tenuta sia dal punto di vista fisico, con frane e alluvioni sempre più frequenti e disastrose, sia dal punto di vista sociale, con una larga fetta di popolazione che faticava a trovare di che sopravvivere. La crisi sarebbe stata aggravata dalle distruzioni e dai lutti provocati dal Secondo conflitto mondiale, dalle stragi nazifasciste, dal persistere del fronte su zone di collina e montagna (si pensi ad esempio alla Linea Gotica e al suo stazionare su buona parte dell’Appennino settentrionale tra il 1944 e ’45), e avrebbe accelerato l’emigrazione della popolazione verso i fondovalle o la pianura, peraltro già iniziata negli anni Trenta nonostante le leggi contro l’urbanesimo del fascismo. La legge del 1952 fu uno dei primi provvedimenti dello Stato repubblicano per venire incontro ai bisogni alla popolazione montana e disciplinò l’intervento pubblico per i successivi decenni, ma non fermò l’esodo che, a distanza di pochi anni, cambiò gli ambienti alpini e appenninici, segnati dall’abbandono da parte di molti dei propri abitanti, in cerca di una vita meno difficoltosa nelle città di pianura, e destinati a un futuro in cui i ruoli tradizionali svolti da quel tipo di territori, a partire da quello di fornitori di risorse (si pensi all’acqua) sarebbe stato solo in parte accompagnato dalle nuove vocazioni turistico-ambientali.
La figura di Gortani, un uomo dai molteplici interessi ma tutti legati al territorio da cui proveniva e che amava – geologo, geografo, speleologo – e che sulle “sue” montagne carniche aveva pure combattuto durante la Grande guerra come ufficiale degli alpini, rappresenta in tale contesto una di quelle figure centrali che, fin dall’inizio del Novecento, animarono il dibattito sorto per difendere i monti dal dissesto, dal taglio indiscriminato delle selve, dall’emarginazione cui sembravano inevitabilmente destinati. Era un problema che fino a quel momento la classe dirigente postunitaria non aveva saputo affrontare con provvedimenti efficaci. Fu il movimento di opinione sorto a cavallo dei due secoli, e già studiato da Luigi Piccioni alcuni anni fa, a porre il tema della montagna all’attenzione dell’opinione pubblica e del Parlamento, come una delle grandi questioni nazionali che lo Stato giolittiano non poteva permettersi più di ignorare o affidare solo al pur benemerito associazionismo privato. Il giovane Gortani fece parte di quelle prime esperienze che propugnavano la tutela e l’intervento pubblico sui monti italiani, partecipando attivamente agli incontri che – negli anni precedenti la Grande guerra – si rivelarono fondamentali per fissare le linee dell’azione pubblica nei confronti di Alpi e Appennini e per proseguire nella lotta per la loro tutela negli anni successivi.
Oscar Gaspari, che fin dagli anni Novanta ha percorso questi sentieri di ricerca storiografica, di fatto aprendo un filone di studi che si è rivelato indispensabile per meglio comprendere il rapporto tra classe dirigente e territorio nazionale nell’ultimo secolo e mezzo, ha ricostruito sapientemente l’opera di Gortani seguendone le orme fin dai suoi primi passi all’interno di quel variegato movimento che a inizio Novecento cominciò a occuparsene. Al suo interno vi militarono altri personaggi di rilievo, provenienti da diverse esperienze e ideologie politiche, ma tutti accomunati da un’acuta sensibilità nei confronti dei sacrifici quotidiani cui le popolazioni alpine e appenniniche si sottoponevano e dell’obbligo da parte della comunità nazionale di venire loro incontro, anche per limitare i gravi problemi che finivano per interessare l’intero territorio italiano, come il dissesto idrogeologico e le conseguenti alluvioni che colpivano anche città e terre di pianura.
Gaspari è anche il curatore del volume che raccoglie tutti gli interventi della giornata, che attorno al ricordo di Gortani e della sua azione ha raccolto le voci, di chi, dal mondo dell’associazionismo, della politica, dell’accademia, pone i territori montani al centro della propria analisi e azione. Ne emerge lo stato dell’arte nel settore, con contributi di livello sia di associazioni storiche (a partire dal Cai), sia di politici e amministratori che si sono occupati del tema oppure operano in zone di montagna, sia di studiosi da tempo impegnati ad interrogarsi sulla particolare natura dei problemi di questo tipo di ambienti e sulle possibili vocazioni che nel terzo millennio sono adatte a queste terre. Tra le altre, risultano di particolare interesse le considerazioni di Antonio Ciaschi, che da anni studia l’argomento e propugna la nascita di nuove figure professionali che riconoscano la complessità dei rapporti territoriali, nello specifico tra aree urbane e montuose, e che siano in grado di individuare strategie di sviluppo sostenibile adatte alla natura di queste ultime, e le esperienze già avviate nel campo della ricerca e della formazione di esperti: dall’Università di Milano con il centro studi di Edolo, al corso di laurea avviato dall’Università della Tuscia, all’azione della Fondazione Angelini, iniziative che fanno sperare in un futuro in cui la salute della montagna torni a essere considerata una preoccupazione di tutta la comunità nazionale e dell’azione di governo, e possa trovare una nuova classe di giovani preparati a intervenire sul territorio con politiche adeguate ai loro bisogni. La consapevolezza, che già emergeva nelle considerazioni degli osservatori più attenti fin dalla seconda metà dell’Ottocento, dello stretto legame dei monti con le altre aree, spesso più sviluppate, del variegato territorio nazionale, è stata ribadita da più di un intervento, a partire da quello di Vincenzo Torti, presidente del Cai, ed è la chiave per ridare slancio a territori che, almeno in parte, ancora lottano per uscire dalla marginalità.