di Andrea Girometti
Le ricorrenze, come quest’anno i duecento anni della nascita di Karl Marx e lo scorso anno i centocinquant’anni trascorsi dalla prima edizione del primo libro del Capitale, sono una buona occasione per tornare a riflettere sul lascito di autori che si considerano ‘classici’, la cui opera, pertanto, non si è esaurita in un arco temporale determinato continuando ad interrogarci e, forse, anche ad inquietarci. Ciò è ancora più vero per un autore che sarebbe riduttivo classificare solo come ‘classico’, tanto che nel suo percorso esistenziale teoria e prassi non sono mai state scisse proponendosi l’obiettivo – forse smisurato e facilmente manipolabile da troppi epigoni (non a caso Marx dirà di non essere marxista…) verso gli esiti più impensati e distanti dalle aspirazioni originarie – di tenere insieme produzione scientifica e azione politica. Segnando letteralmente la storia, qualsiasi giudizio si esprima in merito a ciò che è stato chiamato marxismo.
Se poi la politica si è declinata come azione rivoluzionaria, la teoria non poteva che rimandare ad una rivoluzione epistemica, ad una coupure épistémologique, se volessimo utilizzare un lessico caro Gaston Bachleard (Bachelard 1995). Insomma, l’intreccio – esplosivo – di teoria e politica che il nome Marx (ma non andrebbe dimenticato l’apporto del compagno Friedrich Engels) ha rappresentato per milioni di uomini e donne nel corso del «lungo ventesimo secolo» (Arrighi 20102) si presta ancora ad una miriade di interrogazioni, tanto più in una congiuntura come quella odierna in cui, dalla teorizzazione della fine della storia (Fukuyama 1992), in seguito all’implosione dei cosiddetti “socialismi reali”, in cui si prefigurava un progressivo e diffuso sviluppo di una democrazia liberale già allora, a veder bene, sotto scacco di un economicismo riduzionistico (l’equivalente dell’affermazione di un pervasivo processo di valorizzazione del capitale, per utilizzare una terminologia marxiana), ci si risveglia – oggi – in uno scenario di generale regressione democratica, senza un’alternativa anche blandamente progressista incentrata sulle soggettività dei subalterni. Per questo motivo, ci pare ancora più urgente tornare ad interrogare le opere di autori che si era scelto di riporre in qualche polveroso scaffale o, al massimo, che sembrava utile ri-leggere solo in termini tendenzialmente spoliticizzati come precursori di un’inevitabile, lineare e progressiva “globalizzazione” – termine quanto mai privo di forza concettuale come oggi dovrebbe apparire più chiaramente.
Evidentemente, l’irrazionalità che abita la storia, che necessita di un soggetto capace di razionalizzarla – secondo una lettura cara a Marx e allo stesso tempo polemica con il lascito hegeliano che non vede nell’irrazionale un ostacolo per il cammino della ragione nella storia –, presenta il conto, lasciando sul campo domande inevase e soggettività concrete quantomeno ambivalenti.
In tal senso, l’incipit del bel testo Marx: la produzione del soggetto (Derive Approdi, 2018), curato da Luca e Michele Basso, Fabio Raimondi e Stefano Visentin – dedicato all’«amico e compagno Alessandro Pandolfi», docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Urbino recentemente scomparso – non può essere più chiaro negli intenti richiamando la non diffusa presenza del termine “soggetto” (inclusi i suoi derivati) nell’opera marxiana e allo stesso tempo scommettendo «sulla specificità e sull’operatività politica [di tale] parola». Si tratta, peraltro, di un termine denso e ridondante nel dibattito filosofico-politico, e non di meno fantasmatico, come ribadiscono gli autori. È dunque sul «significato storico, teorico e politico che il concetto di soggetto svolge in alcune opere di Marx» che ruotano gli interventi dei diversi autori, sulla base del comune assunto che il marxiano «lessico della soggettività si presenta intrecciato e talvolta sovrapposto a una serie di altri termini significativi».
Si pensi, come sottolineano i curatori, alla concezione del comunismo come realizzazione degli «individui come individui», degli «individui sociali», dei «liberi produttori associati». E ancora, si consideri quanto significativo fosse il fatto che Marx utilizzasse il termine Individuum (e non Subjekt) «in quanto portato del modo di produzione capitalistico» (pp. 7-8) o al tentativo, presente fin dai primi scritti, di superare la dicotomia soggetto individuale/soggetto collettivo. In ogni caso, la scelta di utilizzare «la locuzione produzione del soggetto» rinvia all’ambivalenza intrinseca al termine in quanto indicante – insieme – un ente assoggettato e un ente autonomo, dunque la persistenza dei caratteri passivi e attivi che sempre lo connotano.
In altri termini, non si dà emancipazione che possa prescindere da limiti, presupposti e circostanze date. L’azione, individuale e collettiva, è sempre situata e sempre eccedente ogni determinismo nei suoi possibili risultati. Nulla è scritto per sempre, nulla si può dare prescindendo dagli incontri/scontri che strutturano la trama del presente-passato. Il testo si struttura in tre sezioni: la prima è dedicata allo statuto del soggetto, soffermandosi su politica, diritto e genere; la seconda considera il soggetto preso tra ideologia e critica dell’economia politica; la terza ha come centro gravitazionale il rapporto tra lotta politica e trasformazione del soggetto. Proveremo di seguito a soffermarci sui passaggi più significativi.
Lo statuto del soggetto: politica, diritto e genere.
La prima sezione si apre con il saggio di Stefano Visentin in cui l’autore mette in relazione due testi marxiani – l’Ideologia tedesca e il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte – con l’intento di (di)mostrare la continuità teorica e politica che vi è tra la critica alla filosofia della storia post-hegeliana condotta nella prima e l’analisi degli eventi francesi post-48 contenuta nel secondo. Di fatto, secondo Visentin, emerge una nuova, sovvertitrice, metodologia d’indagine storica tanto che nella connessione tra la scienza storica marxiana e l’azione politica del proletariato in lotta verrebbe meno «qualsiasi rapporto gerarchico tra il piano della conoscenza e quello dell’intervento sulla realtà» (p. 24). Carattere congiunturale e determinato del pensiero e «parzialità epistemica», rispetto ad un’impossibile neutralità che rinvierebbe ad un punto di vista simil-metafisico, diventano, così, la matrice di un materialismo storico che intende piegare «l’analisi teorica» su un versante «concreto, materiale, politico» (in consonanza con autori “maledetti” come ad esempio Machiavelli) e che si configura come approccio irriducibile ad ogni “filosofia della storia”. Anche se, paradossalmente, il marxismo canonizzato ed egemonico sarà accusato proprio di questo, e non senza ragioni.
Ad ogni modo, nella visione marxiana viene meno «la fantasmatica priorità ontologica dell’interiorità», e l’individuo è sempre preso e proiettato in una serie di relazioni, cooperative e concorrenziali, in cui estrinseca la sua potenza produttiva e da cui è allo stesso tempo determinato. Nell’Ideologia tedesca diventa centrale, dunque, la questione della divisione del lavoro, la sua storicità e dinamicità, quale indice di classificazione di una formazione sociale che si riverbera su un piano più prettamente politico nel 18 Brumaio nel momento in cui Marx afferma che gli uomini fanno la propria storia, ma in forme storicamente determinate, cioè articolando permanentemente libertà e necessità. Non di meno, come opportunamente sottolinea Visentin, «il potere reale dell’astrazione» proprio dell’egemonia borghese non si limita alla creazione di plus-lavoro nella produzione esercitandosi, parallelamente, sul campo del dominio politico.
E qui, nel teatro della politica “democratica” che fa perno sulla “comunità illusoria” dello Stato, Marx affila le armi della critica per disvelare il carattere immaginario dei concetti politici borghesi – popolo, repubblica, costituzione – intenti a neutralizzare e/o catturare il fuori di un’autonoma politica proletaria che altro non è che lotta di classe quale perpetuo movimento che abolisce lo stato di cose presenti.
Il contributo di Antonio Scalone, a sua volta, mettendo in relazione diritto e processi di soggettivazione, ha innanzitutto il merito di sottolineare quanto sia infondata «ogni concezione riduzionistica del ruolo svolto dal diritto nel pensiero di Marx» (p. 49). Tale aspetto è abbastanza scontato nel giovane Marx, in cui si assiste a prese di posizione nette, ad esempio, sulla libertà di stampa e ad una «difesa della legge in quanto misura ed espressione di un principio razionale» (dunque difesa dell’uomo e della legge in generale, all’opposto di un positivismo giuridico che non vede alcuno scarto tra reale-esistente e razionale), fino a giungere a pensare – certo in modo non privo di problemi – la democrazia come “autodeterminazione del popolo” (dove i rappresentanti hanno una funzione meramente simbolica e dipendente dal “popolo” in quanto soggetto concreto immediatamente presente).
Tuttavia, il successivo abbandono di una prospettiva di emancipazione puramente politica e la scoperta di un soggetto concreto nel processo di produzione capitalistico – il proletariato – quale artefice di una (potenziale) emancipazione universale rischiano di ridurre il diritto ad un epifenomeno dei rapporti di potere socio-economici. È ciò che si può evincere da alcuni passaggi delle opere marxiane, ma sarebbe errato assolutizzarne la portata. In tal senso, è sufficiente considerare, osserva Scalone, quanto l’autonoma efficacia della norma giuridica venga valorizzata nel Capitale quando si tratta di analizzare le (pre)condizioni giuridiche su cui si regge lo scambio tra possessori di merci e la forma particolare che assume il contratto che consente di acquistare forza-lavoro o, ancora, il ruolo – centrale – giocato dallo Stato e dal diritto nella cosiddetta accumulazione originaria in cui si separò violentemente il produttore dai mezzi di produzione e da cui seguì «la legislazione sanguinaria sul vagabondaggio», il disciplinamento del lavoro e la conflittuale legislazione sulla giornata lavorativa, dove la legge statale può, come dirà Marx, diventare «una barriera sociale potentissima», a condizione che gli operai si percepiscano ed agiscano come classe.
Infine, nota Scalone, le opere marxiane di carattere storico mettono in luce la possibilità stessa di condizionare dall’interno, eccedendole, le istituzioni borghesi strappando conquiste come il suffragio (quasi) universale (che ha in sé un potenziale costituente), i cui effetti non si limitano alla sola sfera politica (un voto può condizionare la proprietà), e che verranno radicalizzate nell’esperienza comunarda quale forma espansiva della politica, ma che allo stesso tempo – come afferma l’autore – «non è l’ultima parola in tema di organizzazione politica», né sembra presentarsi come la forma politica caratteristica della futura società socialista (p. 67).
Il saggio di Tania Toffanin, che conclude la prima sezione, si concentra sul limitato interesse marxiano per le relazioni di genere e il lavoro riproduttivo, riconoscendo, tuttavia, come tale silenzio non si è tradotto nell’occultamento della condizione di vita e di lavoro delle donne. Ciò che giustamente stupisce l’autrice è la sostanziale assenza di una riflessione maschile su questa parte del lascito marxiano e su quanto in realtà la dimensione riproduttiva conti nel conflitto capitale-lavoro. Il punto focale dell’intervento di Toffanin è già ben chiaro nella parte iniziale del suo contributo: «la scarsa attenzione riposta da Marx alla divisione sessuale del lavoro è addebitabile al fatto che egli considera la lotta contro il patriarcato e l’emancipazione femminile parte, indistinguibile, della lotta contro il capitalismo e dell’emancipazione della classe operaia.
Una tensione universalista […] che ha impedito allo stesso Marx di riconoscere le linee di divisione presenti all’interno della classe operaia» (p. 78). Tale approccio, tuttavia, non impedì al Moro, nelle sue opere giovanili, di comprendere il carattere mistificante della famiglia borghese, strettamente correlato con la proprietà privata capitalistica, e di contrapporsi al familismo patriarcale, ma la relazioni di genere e la loro riconfigurazione rimangono pur sempre un aspetto di un mutamento più generale che ha il suo centro nei luoghi della produzione (industriale) – in cui i corpi messi al lavoro sono alienati –, prima che della riproduzione, senza approfondire adeguatamente l’intreccio tra le due dimensioni e il processo di liberazione dai ruoli sessuali come aspetto di una necessaria e più vasta «liberazione del corpo» quale indicatore decisivo della condizione di liberazione dell’uomo in una società di orientamento socialista (Parinetto 2015). Di fatto, «l’analisi marxiana non guarda alla produzione domestica [perché] considerata ancillare alla produzione industriale svolta all’interno della fabbrica» (p. 85). In tal senso, il Marx maturo dedicherà analisi attente al lavoro femminile di fabbrica ma senza riuscire a pensare quanto «il lavoro riproduttivo avrebbe costituito un limite all’estorsione di plus-lavoro da parte del capitale» (p. 87). Ed è forse qui che troviamo uno degli aspetti più problematici dell’analisi marxiana riprodottosi nella storia del movimento operaio e progressista e dunque la necessità di una riformulazione, nella prospettiva di un incontro tra marxismo e femminismo, del concetto di lavoro eterodiretto che si estenda al di là del lavoro produttivo strettamente inteso.
Il soggetto tra ideologia e critica dell’economia politica
La seconda sezione si apre con il saggio di Luca Basso e Fabio Raimondi incentrato sul ruolo e il rapporto che i concetti di ideologia e feticismo svolgono nell’opera marxiana. L’intervento, che tenta di smarcarsi dalle letture contrapposte di stampo lukasciano e althusseriano, intente a sopravvalutare o sottodimensionare l’impatto del feticismo nell’opera marxiana, ricostruisce cronologicamente l’approccio di Marx, dunque ponendo in rilevo in prima istanza lo scarto tra il giovane Marx e l’approccio hegeliano, da cui emerge come ideologia indichi «assenza di logos» e dove l’irrazionale, a differenza di Hegel, rappresenti un ostacolo per il cammino razionale della storia. A sua volta, la ragione non è eterna ma ha la possibilità di svilupparsi conoscendo ed intervenendo sull’irrazionale. In altri termini «il soggetto materialistico» può trasformare la realtà, pur non astraendosi dalla storia e al contempo lavorando per «razionalizzare la storia» (p. 108) mentre, come sottolineano gli autori, «la filosofia idealistica è il prototipo dell’ideologia in quanto proiezione della propria esperienza come senso del mondo [e] il feticismo è l’adorazione di questa ipostasi, immaginata esistente indipendentemente da chi la produce e dotata di vita e poteri autonomi».
Pertanto, da un punto di vista materialistico, seguendo l’approccio del giovane Marx, «un soggetto emancipato può essere solo l’effetto di un soggetto assoggettato» e «la sola trasformazione storica che può aggiustare il rapporto tra pensiero e realtà è una rivoluzione in cui il proletariato, abolendo sé stesso, abolisca la miseria e, così facendo, generi un mondo giusto e per questo razionale» (pp. 110-111). Gli autori si soffermano dettagliatamente sul processo di oggettivazione (l’ideologia come un elemento costitutivo delle relazioni umane astratto dal contesto che l’ha prodotto), ipostatizzazione dell’oggetto (la credenza nella sua autonomia, dunque il suo carattere feticistico) e riproduzione della separazione che ha prodotto il feticcio tramite un mediatore/fantasma (la filosofia, Cristo, il denaro), che ricavano dalla prima riflessione marxiana. Esso è consustanziale al capitalismo. In tal senso il feticismo è «l’effetto necessario dell’oggettivazione (ideologia)» ed «è l’esito della divisione interna della produzione stessa» dove il lavoro resta esterno all’operaio» in quanto «cosa non sua ma di un altro». (p.114).
La successiva disamina della riflessione marxiana sottolinea il carattere spettrale che assumono via via ideologia e feticismo, dove l’ideologia tende a mostrarsi come «spontanea e inevitabile»: essa può scomparire solo se scompare la struttura produttiva, con i rapporti di dominio che la connotano, che la promuove, ma in un quadro irriducibile ad una mera azione volontaristica (pp. 118-119). La critica marxiana precipita, infine, nell’elaborazione matura del Capitale, non riducibile alla parte iniziale del primo libro, in cui si dispiega il feticcio della merce tra realtà e mistificazione (pp. 122-126) e il feticcio del capitale che occulta la centralità del lavoro operaio e la produzione di plusvalore (126-135). In questo ambito Marx preciserà che il suo punto di partenza è la merce come forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nella società data, senza scivolare in una concezione integralistica e insuperabile del feticismo mercantile in quanto proprio della formazione sociale capitalistica: la sfera della circolazione entro cui sembra esaurirsi il processo di valorizzazione, rinvia alla dimensione “profonda” della produzione, alle asimmetrie di libertà e uguaglianza che lì regnano sovrane.
Infatti, il capitale non diventa tale senza che il denaro possa comprare quella merce particolare capace di creare valore: la forza-lavoro. Pertanto, rendere visibile, dunque de-feticizzare, la «guerra civile» tra le classi, la frattura interna al modo di produzione capitalistico, diventa un’operazione di disvelamento irrinunciabile anche se rimane aperta la questione di un processo di trasformazione sociale e politica, con il suo necessario ancoraggio storico (dunque senza alcuna pretesa di giungere alla costruzione di rapporti sociali trasparenti, come una certa inclinazione marxiana tende ad avvalorare), che non può non riconoscere anche il carattere produttivo e non solo mistificante di ideologia e feticismo, nonché l’articolazione con la pratica scientifica.
Il saggio di Michele Basso è invece dedicato al denaro e alla sua importanza nel dare forma alla specificità dei rapporti sociali tra uomini e cose all’interno del modo di produzione capitalistico. In particolare, l’autore analizza alcuni passaggi dei Grundrisse e del Capitale confrontandosi con ciò che Marx, in alcune occasioni, chiama «soggetto-denaro» preannunciando quanto sia rilevante, nella marxiana critica dell’economia politica, il ruolo da esso giocato nel favorire la genesi del sociale e della socialità del mondo moderno.
In tal senso, l’autore sottolinea la peculiarità che il denaro assume con la costituzione del modo di produzione capitalistico e dunque con la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, il processo d’individualizzazione del singolo lavoratore che ciò comporta e il carattere di merce dell’oggetto prodotto, tanto che «è solo nel contesto capitalistico che scambio e mercato diventano il luogo cruciale delle relazioni sociali». Un luogo connotato dall’estraneità in cui «merci, possessori e produttori di merci si presentano isolati e separati [e in cui] il denaro appare qui fin da subito uno strumento di relazione e di mediazione tra estranei» (p. 145), diversamente dalle formazioni sociali di carattere “comunitario” in cui il denaro occupava un luogo di confine finalizzato a scambi necessari tra gruppi. L’autore osserva come Marx critichi alcune similitudini che accostano il denaro al sangue o al linguaggio, evidenziando quanto in realtà esso promuova disuguaglianze e una riproduzione della separazione, non una circolazione uniforme in tutto il sistema, né forme di reale accomunamento.
In tal senso, Basso, con Marx, sottolinea come «il denaro non è fondamento del rapporto sociale, ma è una specifica espressione del modo che gli uomini hanno di rapportarsi reciprocamente e nei confronti della natura, al fine di produrre quanto è necessario per la loro vita: in altri termini, la matrice del denaro dev’essere rintracciabile all’interno dei rapporti di produzione» (p. 148). È qui che vengono ad occupare la scena quelli che appaiono come singoli individui – persone – ma in condizioni strutturalmente antagoniste: il lavoratore e il proprietario dei mezzi di produzione, ovvero chi deve vendere la propria forza-lavoro in cambio di un salario e chi può comprarla (ed usarla). Il denaro diventa l’elemento di mediazione di questo rapporto, ma soprattutto è «il segno che quantifica la mole di lavoro espressa» (p. 150), saldando così il rapporto tra lavoro e denaro e innescando un processo di universalizzazione e «astrazione reale» che tende a trasformare tutti quei rapporti immediati che sfuggono alla sfera del controllo del denaro e, non di meno, a «rendere l’insieme delle attività lavorative sempre più omogenee, sempre più qualificabili come lavoro sans phrase» (p. 155). Si tratta di un processo tutt’altro che irenico e necessario, in realtà inscindibile dalla disuguaglianza sociale su cui si fonda e che il denaro deve contribuire a riprodurre. Pertanto, come conclude Basso, solo la capacità di rimettere in discussione la separazione tra lavoratori e mezzi di produzione, e non una riforma monetaria, potrà incidere sul «problema del denaro».
Il saggio di Giuseppe Antonio Di Marco, che chiude la sezione, parte dall’assunto che per lo sviluppo della produzione capitalistica di merci, diversamente da una semplice produzione di merci, è necessario che «il lavoro astratto [diventi la] fonte della ricchezza in generale». Ciò significa che deve comparire come merce la forza-lavoro, cioè la capacità lavorativa, il cui valore d’uso crea valore, e più valore di quanto ne abbia essa stessa. Infatti: «il capitale è un processo di valorizzazione [corsivo mio] cioè non soltanto di creazione di valore ma di plusvalore ossia di più valore di quanto servirebbe a reintegrare il valore dei mezzi di sussistenza della forza-lavoro ovvero a pagarne il valore di scambio» (pp. 172-173). D’altro canto, nel movimento dialettico in cui il lavoro diventa presupposto del capitale (in quanto è «la possibilità generale soggettiva della ricchezza» p. 177) e allo stesso tempo presuppone il capitale (in quanto separato dai mezzi di produzione), poiché vi è una tendenza del capitale a prolungare in maniera indefinita la giornata lavorativa oltre il tempo di lavoro necessario, la determinazione della «giornata lavorativa normale» è il risultato e la posta in gioco di una lotta intesa come una «guerra civile», più o meno latente, tra l’intera classe dei capitalisti e l’intera classe dei lavoratori salariati.
Una lotta che si svolge, dunque, a livello mondiale e che, come sottolinea opportunamente Di Marco, «dura e durerà fino a che esiste il modo di produzione capitalistico» (p. 182). Ed è da questa lotta che esce o può scaturire una soggettività politica capace di avviare «la soppressione rivoluzionaria del valore di scambio come misura del valore d’uso», in cui, cioè, la soppressione del lavoro eterodiretto e lo sviluppo della libera attività onnilaterale dell’individuo potrà avvenire tramite il lavoro stesso che – conclude Di Marco – sarà «distribuito tra tutti i membri della società, sul presupposto di una distribuzione dei mezzi di produzione diversa che nella società borghese, dove la distribuzione di tali strumenti crea l’aumento del lavoro individuale e la distruzione fisica e mentale del lavoratore. Solo in tal modo, ossia mediante la generalizzazione del lavoro sociale, si ha la progressiva e durevole riduzione della giornata lavorativa individuale» (pp. 191-192).
Lotta politica e trasformazione del soggetto
La terza sezione intensifica la trattazione della dimensione politica marxiana e si apre con il saggio di Fabio Raimondi che evidenzia quanto il percorso politico di Marx risulti impensabile senza tener conto delle problematiche introdotte dalle macchine nella produzione capitalistico-industriale. L’autore s’interroga, in prima istanza e da un punto di vista critico, quindi operaio, sulla possibilità di un «contro-uso» della tecnologia e non di una mera appropriazione e ri-orientamento della medesima. Già in Engels, acuto osservatore del lavoro di fabbrica, c’è la convinzione che una rivoluzione proletaria, propedeutica ad una «vasta riforma sociale», non possa che contemplare un uso operaio delle macchine (e dunque anche delle tecniche e delle scienze), mentre Marx parlerà della macchina dello Stato che non può essere semplicemente presa. Tuttavia «il silenzio di entrambi» sull’esigenza di trasformare le macchine «è il sintomo di una difficoltà politica, scientifica e tecnica» (p. 203). Peraltro, come sottolinea Raimondi, è proprio la questione delle macchine, nociva ma potenzialmente liberatrice e la cui «autonomia è illusoria ma effettuale quanto il potere di dio e del denaro» (p. 209), che induce Marx a criticare il concetto di «lavoro» – che «può essere scisso in «astratto», e così equiparato a una macchina, e in un «ventre», ossia in ciò che è necessario all’uomo per vivere» (p. 204) – e dunque anche quello di «forza-lavoro», fino ad utilizzare, seppure per metterla in discussione e mostrare ciò che non vede o non può vedere, la «teoria del valore» che l’economia politica classica impiega per la costruzione delle proprie teorie economiche, politiche e sociali. In definitiva, l’emancipazione passa per la necessaria ri-appropriazione da parte del lavoro vivo dei mezzi di produzione e della scienza indispensabile a produrli da cui segue la capacità di «inventare nuove macchine che cambino la base».
Da tale mutamento, dunque, potrà scaturire «la possibilità di costruire macchine con finalità diverse da quelle del capitale: macchine diverse, non solo estrattive né sempre più veloci, ma, ad esempio, più sicure, meno inquinanti, rigenerative ecc. [Pertanto], il fine ultimo dei comunisti è costruire macchine d’altro genere che non abbiano lo scopo di aumentare la produttività congiuntamente alla diminuzione del lavoro socialmente necessario». Per fare ciò, sottolinea Raimondi, «non si può puntare sul valore né vagheggiare il ritorno al valore d’uso, ma bisogna abolire il lavoro salariato e, di conseguenza, entrambe le forme del valore» (p. 210). In questo percorso accidentato e a lungo termine, che necessita di una politica nuova non ripiegata su se stessa o intenta ad appropriarsi di ciò che già c’è per amministrarlo meglio, diventerà dunque dirimente l’emancipazione delle scienze congiuntamente con il superamento del modo di produzione capitalistico, dato che solo il loro libero sviluppo potrà «contribuire alla costruzione del comunismo attraverso una produzione per l’individuo sociale e non contro di esso» (p. 213). Infatti, una futura società in cui davvero ognuno dia secondo le capacità e riceva secondo i bisogni, «senza dipendere dalle misurazioni scientifiche né dall’arbitrio della politica», necessiterà di una capacità produttiva che vada ben oltre le forme di produzione precapitalistiche e lo stesso modo di produzione capitalistico. In tal senso l’uomo – conclude Raimondi – «non ha disposizione altro strumento che le scienze, gli unici processi auto-critici e non dogmatici che possono condurre verso il “regno della libertà”» (p. 217).
Il contributo di Marco Rampazzo Bazzan verte su un concetto centrale e al contempo tra i più soggetti a slittamenti semantici, sintomo della rilevante posta in gioco politica che vi era (e vi è) impressa: la dittatura del proletariato. L’autore ricostruisce e sottolinea, utilizzando criticamente una solida prospettiva althusseriana (di cui è oggi disponibile anche per il lettore italiano l’intervento più esaustivo in merito [Althusser 2018]), l’aspetto enigmatico di tale concetto. In tal senso, il sintagma dittatura del proletariato, contrapposto alla dittatura della borghesia e suo smascheramento, con la tensione tra due termini confliggenti (dove il secondo dovrebbe negare il primo servendosene in una prospettiva di emancipazione, con tutte le dicotomie che, storicamente, si rischia d’incontrare nei processi d’istituzionalizzazione), è caratterizzato dalla sporadicità con cui Marx ne tratta e, non di meno, da improvvise, quanto dirimenti, riapparizioni nel suo percorso di elaborazione e lotta. Rampazzo Bazzan mette in rilievo la centralità politica più che epistemologica del sintagma, ritornando, da un lato, sulla sua genealogia, dunque sul rapporto inscindibile con la Rivoluzione Francese e la novità/parzialità che istituiva l’universalizzazione del dominio borghese; dall’altro, sull’effetto distintivo giocato dal sintagma nella proposta marxiana: la centralità rivestita nel Manifesto del Partito Comunista, la sostanziale assenza nelle opere più propriamente scientifiche come il Capitale, la rielaborazione dettata dalla contingenza politica rinvenibile nei testi di carattere storico fino ad intravedere nella Comune di Parigi, come ribadirà Engels, l’esempio storicamente dato di governo operaio in-azione. Infine, tale concetto, diventava paradigmatico per smontare il programma socialdemocratico di Gotha e in generale l’illusione riformista che sfociava nel divenire parte, tentando di trasformarle, delle istituzioni democratico-liberali che (lentamente e in modo tutt’altro che lineare ed universale) sarebbero andate ad affermarsi. Proprio la crisi attuale della rappresentanza, richiamata dall’autore, richiederebbe una ricerca delle soggettività capaci di ridare senso, al netto dell’obsolescenza nominale, al concetto di dittatura del proletariato in termini di riappropriazione diffusa della politica coniugata con il mutamento dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Prospettiva alquanto ardua da affrontare, per quanto necessaria, in tempi di sdemocratizzazione della democrazia se volessimo riformulare in senso negativo una terminologia cara all’ultima riflessione di Étienne Balibar (2010).
Il saggio di Luca Basso, con cui si chiude il testo, si focalizza sulla questione dell’emancipazione, oltre la dicotomia soggetto individuale/soggetto collettivo, sottolineando quanto essa risulti un tema ineludibile di tutta la riflessione marxiana e quanto sfugga ad una lettura superficiale che vorrebbe congiungerla ad «una concezione pienamente lineare e progressiva della storia, che troverebbe la sua attuazione perfetta con il comunismo in quanto risoluzione di tutte le contraddizioni» (p. 252). Così, nella Questione ebraica emerge la differenziazione fra «emancipazione politica», risultato della Rivoluzione Francese, ed «emancipazione umana», che negli intenti marxiani rappresenta un oltre-passamento della prima, «ma a partire dai presupposti che essa apre» nei termini di un’unione dell’«uomo reale» (bourgeois) e dell’«uomo vero ma non reale in quanto astratto» (citoyen), dov’è il primo a contenere il secondo. In questa prospettiva, fondata su una generica estraneità umana, una delle principali criticità del discorso marxiano, come sottolinea Basso, «risiede nella mancanza di un soggetto politico collettivo capace di articolare l’emancipazione umana» (pp. 253-254), ovvero quel proletariato come soggetto asimmetrico e classe-non-classe rispetto alla borghesia che farà la sua comparsa in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Nel contempo, gli scritti successivi sono caratterizzati dall’intensificazione di «un materialismo dell’azione» teso a valorizzare gli «individui come individui» (pp. 255-256), a dispetto di luoghi comuni consolidati dalle stesse esperienze del “socialismo reale”, fino a giungere alle soglie dell’evento epocale del 1848, dove la divisione proletariato/borghesia, che caratterizza in ultima istanza la società borghese, assume un carattere dirimente con il proletariato che incarna «un’universalità di parte» e, in generale, si manifesta una congiunzione sempre più stringente tra pratica e classi, su cui insisterà successivamente l’operaismo richiamato positivamente da Basso (pp. 256-257). Le lezioni tratte, invece, dal vincente bonapartismo complicano la dialettica sociale e politica ed evidenziano una tensione tra movimento e necessità organizzative in un quadro in cui una politica di emancipazione si coniuga sempre più strettamente con la critica dell’economia politica. Tutto ciò precipita nell’«emancipazione economica del lavoro» presente negli scritti sulla Comune, passando attraverso le lotte per la riduzione della giornata lavorativa annotate nel primo libro del Capitale, e la delineazione del comunismo come «regno della libertà» nel terzo libro del Capitale. E proprio sul tentativo di connettere emancipazione e comunismo Basso conclude il suo saggio ricordando il carattere movimentista di quest’ultimo così come la necessità di darsi istituzioni comuniste dove il filo rosso è (e sarà) dato dalla produzione storica di «individui sociali» che in quanto tali non potranno che mettere costantemente in discussione il lavoro salariato e la proprietà privata, radicalmente divergente dalla proprietà individuale. Un percorso ancora aperto, a ben vedere.
L. Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), Mimesis, Milano-Udine, 2018 G. Arrighi, Il lungo XX secolo denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il saggiatore, 20102 G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, a cura di Enrico Castelli Gattinara, Cortina, Milano, 1995 É. Balibar, La proposition de l’égaliberté, Puf, Paris, 2010 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992 L. Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte diavolo analità, Mimesis, Milano-Udine 2015Bibliografia
Sta conseguendo un dottorato in Economia Società Diritto presso il Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università di Urbino “Carlo Bo” con una tesi sul concetto di capitale e la sociologia politica nel pensiero Pierre Bourdieu. Svolge attività di ricerca presso l’Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino (ISCOP) e collabora con il Laboratorio di Studi Politici e Sociali (LaPolis) dell’Università di Urbino e l’Associazione culturale “Louis Althusser”. Recentemente ha pubblicato: La Casa del popolo di Montegranaro, Edizioni Grafiche Editoriali, Urbino, 2018; Per un partito che non rinunci a pensare: la posizione althusseriana al XXII Congresso del Partito comunista francese, «Cahiers du GRM», n. 13/14, dicembre 2018 (in corso di pubblicazione)Biografia