di Alberto Malfitano
Le aree interne della nostra penisola sono diventate, negli ultimi anni, un oggetto di studio maggiormente visitato dagli storici rispetto al passato. Giunge ora opportuno il denso volume di Augusto Ciuffetti, docente di Storia economica al Politecnico di Ancona, che ricostruisce le vicende dell’Appennino centrale utilizzando la categoria della lunga durata, con uno sguardo ampio che dal Medioevo giunge ai nostri giorni. In tal modo l’autore ricompone la complessa evoluzione delle società ed economie montane (il plurale è d’obbligo per questo tipo di territori), mostrandone la centralità che per secoli hanno avuto nei sistemi commerciali e viari della Penisola, e sottolineando come solo nel corso del Novecento siano entrati in una fase di crisi che li ha spinti nella categoria della “aree depresse”, emarginate rispetto al modello industriale che nel XX secolo ha interessato l’Italia.
La dinamicità di questi spazi è, infatti, venuta meno dopo la Seconda guerra mondiale, quando una migrazione epocale ne ha di fatto spopolato ampie porzioni, nel contesto delle trasformazioni economiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Sono cambiamenti che hanno coinvolto anche la dimensione socio-culturale, come è avvenuto quando la percezione di una vita migliore e più attraente in città, o sulle coste, è divenuta un richiamo irresistibile, specie per i giovani montanari, indotti ad abbandonare la dura esistenza sulle terre alte e a trasferirsi.
E’ venuta così rapidamente a decadere una civiltà che aveva chiare peculiarità, come la pluriattività, indispensabile per integrare lo scarso reddito agricolo, oppure la mobilità stagionale, che prevedeva la partenza degli uomini verso le “maremme”, nei mesi di minore attività agricola, per fornire braccia alle opere di bonifica, mentre le donne rimanevano sui monti, spesso ricoperti di neve, a gestire la casa e il resto della famiglia. A questo proposito, una storia di genere legata alla vita delle popolazioni femminili montane, così come le risposte, quando sono avvenute, all’aggravarsi del dissesto idrogeologico durante e dopo la fase ottocentesca di forte antropizzazione, o per effetto dello spopolamento, sono percorsi di ricerca in parte esplorati ma che forse possono fornire ulteriore materiale di indagine per gli storici.
Al di là di queste considerazioni, Ciuffetti descrive in maniera solida un quadro ricco di chiaroscuri, con un rigore che non nasconde la passione per terre che nel corso delle epoche hanno certo conosciuto fasi migliori, ma che non possono rassegnarsi a un destino di radicale emarginazione. La ferita inferta dai terremoti dell’agosto 2016 e gennaio 2017 all’Italia centrale induce l’autore, che ha frequentato assiduamente queste zone negli ultimi anni e le popolazioni che tenacemente continuano ad abitarle, a riflettere sul loro futuro: dalla tragedia può venire la definitiva marginalizzazione oppure, come nel passato, può scaturire la spinta per ripartire e scrivere un nuovo patto territoriale, che non escluda, innanzitutto, un rapporto stretto con le terre della costa, quelle economicamente più dinamiche. La finalità non può essere che quella di ripristinare un dialogo che è sempre stato vivace nei secoli passati come, per citare una zona contigua a quella esaminata, lo è stato il rapporto con la Pianura padana da parte delle popolazioni dell’Appennino settentrionale.
Di certo, la via suggerita deve in primo luogo venire dall’interno e non dall’esterno di questi territori, il cui peso politico oltretutto è scarso e la capacità di incidere sulle politiche governative assai relativa. In definitiva, la risposta non può essere quella dell’adozione di modelli preconfezionati altrove e calati su queste valli, ma solo quella che rispetti e riprenda le peculiarità storiche delle società appenniniche, esaltando la loro diversità e utilizzando strumenti che permettano di offrire un futuro alle loro popolazioni. Da ciò i suggerimenti di puntare, per esempio, sui prodotti di qualità delle economie locali, quello di costituire cooperative di comunità, di ripartire dagli usi civici e dai beni comuni senza, naturalmente, dimenticare la dotazione di infrastrutture di base che permettano di rinsaldare il dialogo con i territori limitrofi. Un obiettivo ambizioso, ma forse l’unico che può rilanciare “l’osso” della Penisola e toglierlo dalla marginalità in cui lo ha condannato il tipo di sviluppo economico che il nostro Paese ha conosciuto nella seconda metà del Novecento.