Andrea Giovannucci
Questa raccolta di saggi – apparsi tra il 1946 e il 2004 su riviste storiche, atti di convegni e volumi collettanei –, mette egregiamente in rilievo uno dei campi di interesse su cui insistono gli studi di Aldo Berselli, uno dei principali storici della pur ricca realtà emiliano-romagnola della seconda metà del Novecento, riferendosi in particolare, come suggerisce anche il titolo della raccolta, alla formazione ed evoluzione del pensiero sul rapporto tra il centro e la periferia nel XIX secolo, con particolare attenzione al periodo che sta a cavallo dell’Unità d’Italia.
È questo un filone di studi, come fanno notare anche i curatori, che Berselli frequenterà per tutta la sua vita di studioso e su cui impegnerà una parte consistente della sua produzione saggistica. La raccolta, ordinata secondo il periodo di pubblicazione dei testi, apre con efficace un’introduzione dei curatori (Alberto Preti e Fiorenza Tarozzi) in cui vengono tratteggiate una breve biografia dell’autore e una presentazione più vasta dell’opera dello stesso.
Aldo Berselli, classe 1916, al termine della Seconda guerra mondiale aveva cominciato ad occuparsi delle vicende relative al problema del rapporto centro-periferia, proprio nel momento in cui prendevano avvio i lavori per la costruzione del nuovo Stato, e all’indomani della fine dell’accentramento amministrativo fascista. Come fanno notare i curatori, “la fine del fascismo lo spingeva a riflettere sugli esiti di un centralismo esasperato e di una radicale negazione delle autonomie scelte, non a caso coincidenti con la fase di perfezionamento della dittatura, che avevano interrotto il pur cauto e anche contradditorio processo di riconoscimento delle autonomie locali che aveva caratterizzato la storia dei rapporti tra centro e periferia […]. È lì il primo nucleo di un interesse di ricerca che lo porterà – nella stagione in cui la nuova storiografia contemporaneistica ‘gramscianamente’ rivolge la sua attenzione non solo al movimento operaio e contadino, ma anche alle classi dirigenti e alle modalità con le quali hanno operato per la costruzione del nuovo Stato e della nazione italiana – a dedicare i suoi studi ai protagonisti della politica italiana negli anni della Destra storica”.
Il discorso relativo all’autonomia che si svolge in quegli anni oscilla tra il richiamo forte del “furore” unitario, che vorrebbe l’unità indiscussa e accentrata di una nazione omologa, e la voce delle autonomie che rappresentano forme consolidate di gestione del potere, frutto di lunghe e progressive stagioni di conquiste.
Il dibattito non è teorico, al contrario esso è fondativo della nascente nazione ponendosi anche come contrasto tra paese reale e stato.
L’amministrazione piemontese, efficiente per un piccolo stato, poteva essere ugualmente valida per uno stato nazionale di ben più vaste proporzioni? E soprattutto, un paese unitario prevede necessariamente l’omologazione amministrativa delle comunità che lo abitano? Sono questi i dubbi davanti ai quali si trovano gli uomini della politica del tempo.
All’interno di questo dibattito, attraversandolo per intero, spicca la figura umana e politica di Marco Minghetti. Formatosi come amministratore – fu consigliere comunale e presidente del Consiglio provinciale –, Minghetti “aveva nel suo passato lottato per riforme dello Stato pontificio, per dare in esso possibilità di espressione, la più ampia, alle forze liberali produttive, al nuovo ceto liberale che egli rappresentava”.
Quando Minghetti nell’ottobre del 1860 sostituì Farini alla guida del ministero dell’Interno, volle dare un forte impulso alla commissione, istituita dal suo predecessore, che si occupava della formulazione di progetti di legge per la riorganizzazione amministrativa e finanziaria del regno.
Il fulcro del programma di Minghetti era un decentramento amministrativo che “doveva attuarsi in due modi, cioè percorrendo due strade parallele: 1) dando ai Comuni e alle Province maggiori attribuzioni e maggiori libertà d’azione di quello che avevano avuto sino allora; 2) delegando alle autorità governative locali molte facoltà che erano di solito tenute dal Governo centrale”.
Minghetti si spingeva anche oltre, sostenendo la necessità di unità amministrative di maggiore ampiezza: le Regioni. “A questo consorzio permanente e obbligatorio di Province il Minghetti attribuiva il compito di provvedere: 1) alla istruzione superiore, alle accademie di belle arti, agli archivi storici; 2) a quei lavori pubblici (strade che allora erano nazionali, dighe ed altre opere necessarie per contenere i fiumi) che non erano retti dallo Stato, né erano propri dei Consorzi facoltativi o delle singole Province”.
I quattro disegni di legge presentati al Parlamento nel marzo del 1861, come risultato dei lavori della commissione presieduta dal Minghetti, incontrarono molti avversatori e non di rado veri e propri nemici, specie nelle parti relative alle Regioni, viste con crescente sospetto durante un periodo in cui l’unità della nazione era l’obiettivo principale e impellente.
È noto che la visione centralistica si impose rispetto a scelte più autonomistiche, sull’onda della impellente necessità unitaria e del timore di un ritorno alla frammentazione; cionondimeno il dibattito dell’epoca svela le diverse posizioni, spesso in modo trasversale rispetto alle appartenenze politiche, riguardo al progetto unitario.
Nel volume di Berselli, sono da segnalare, inoltre, altri interventi che pur riguardando la stessa tematica, allargano l’orizzonte del problema ad altri contesti. È questo il caso ad esempio della formazione dei quartieri a Bologna, in cui Berselli analizza la nascita di queste forme di autonomia alla metà del XX secolo e del breve saggio riguardante l’Inghilterra e l’insurrezione tirolese del 1809.
Il filone di studi che viene raccolto in questo volume, pur rappresentato da interventi redatti in tempi diversi, fornisce al lettore un flusso unico, un percorso all’interno del modo di fare storia di Berselli, che si muove indicando le vie, i sentieri, i punti di svolta nel modo di pensare il concetto di autonomia nel discorso amministrativo italiano. Gli studi di Aldo Berselli non si pongono solo come uno strumento utile per lo studioso di storia amministrativa, ma offrono anche spunti molteplici per riflettere utilmente su questioni attuali, sull’equilibrio tra governo e autonomia, tra centro e periferia, tra omologazione e particolarità.