Tito Menzani
Il dibattito storiografico sulla “natura” del fascismo ha avuto di recente un importante ritorno di fiamma, che ha comportato innanzi tutto la crescente marginalizzazione di interpretazioni riduttive, che tendevano a descrivere il fascismo come un “regime da operetta”, che sbandierava programmi a cui non seguivano fatti concreti, o anche come una strumentale risposta reazionaria contro il movimento operaio, a vantaggio delle classi sociali che detenevano il potere economico. Al contrario, si sono rafforzate quelle posizioni storiografiche che insistono sulla complessità del fascismo come fenomeno politico e istituzionale, e che pertanto tendono ad individuarne più anime o più tensioni endogene. All’interno di questo paradigma, viene comunque confermata una certa discrasia tra i proclami di Mussolini e le effettive realizzazioni, ma anziché limitarsi a sottolineare il carattere propagandistico di certe campagne, si preferisce indagare nel merito dei provvedimenti adottati, perché – pur se sottodimensionati rispetto alla retorica che li aveva animati – hanno spesso avuto un ruolo tutt’altro che trascurabile.
All’interno di questo filone metodologico, possiamo collocare anche Alessio Gagliardi, giovane studioso del fascismo che svolge attività di ricerca presso gli atenei di Roma “La Sapienza” e dell’Aquila. Il volume qui recensito – dal titolo secco e inequivocabile – rappresenta un contributo di grande interesse, che dà conto di un lungo e laborioso lavoro di ricerca su fonti di prima mano, in parte anticipato da articoli su riviste scientifiche e saggi su volumi miscellanei.
Il corporativismo fascista è stato a lungo al centro del dibattito storiografico, anche perché appare uno degli aspetti cruciali della politica socio-economica del regime, che – nelle intenzioni – avrebbe dovuto rappresentare quella terza via, alternativa al socialismo e al capitalismo, in grado di ricomporre gli interessi particolari nel quadro del più importante interesse nazionale. In questo contesto di ricchezza storiografica, il volume di Gagliardi è importante per due motivi. Innanzi tutto sintetizza con grande chiarezza e in meno di duecento pagine un tema complesso e denso, senza per questo rinunciare a lavorare su fonti archivistiche. Secondariamente, si concentra su tre piani distinti, tutti ugualmente importanti per l’oggetto di studio, e cioè le origini culturali dell’idea corporativa, il dibattito teorico sul corporativismo, e l’applicazione concreta dello stesso.
All’interno di questa architettura, si dà naturalmente conto di quella distanza fra proclami e attuazioni di cui si diceva prima, ma anche degli effetti concreti che il corporativismo ebbe una volta che poté entrare in funzione. È proprio quest’ultima parte che riveste maggior interesse, dato che la storiografia aveva già sondato il quadro teorico e l’azione legislativa, ma non si era mai convintamente soffermata sul funzionamento reale del corporativismo fascista. In particolare, l’autore si concentra sul rapporto tra istituzioni e organizzazioni di rappresentanza, con alcune ricostruzioni a campione di carattere esplicativo.
Senza dubbio, quindi, il volume di Gagliardi – ospitato nell’importante collana Quadrante, della casa editrice Laterza – si propone come un punto di riferimento imprescindibile per qualunque ulteriore studio sul corporativismo. Dispiace un po’ che venga citata solamente di sfuggita l’impresa cooperativa, che in età fascista fu sottratta dagli alvei ideologici che l’avevano partorita – liberale, socialista e cattolico – per essere condotta in un limbo teorico, cui corrispondeva, però, un funzionamento pratico. Dato che anche nelle cooperative si tentarono esperimenti per comporre gli interessi dei “produttori” con quelli dei consumatori, poteva essere interessante mettere in relazione questo approccio con quello utilizzato nel corporativismo. Anche perché, soprattutto negli anni trenta, una serie di convegni e pubblicazioni furono dedicati alle modalità di coniugazione fra cooperazione e corporativismo.
In sintesi, la ricerca di Gagliardi pare idealmente chiudere una ricca stagione storiografica dedicata al corporativismo. E naturalmente pone le fondamenta per nuove piste di ricerca, ad esempio incentrate sulla percezione che i singoli gruppi sociali ebbero di questa pratica politica, oppure sui confronti internazionali, visto che – come ha contribuito a mettere in luce una curatela di Matteo Pasetti – il corporativismo non rimase confinato al caso italiano. Più in generale, la monografia fornisce un contributo ulteriore allo studio del fascismo, e aiuta a comprendere come, in tema di lavoro, il regime avesse ambito a valorizzare globalmente le energie economiche del Paese, ma avesse poi finito per appiattirsi su posizioni filodatoriali, con sempre più rari slanci di matrice sindacale.