di Sebastiano Giordani
Prosegue nel cuore dell’Emilia la riflessione, giunta ormai alla terza tappa, sul cosiddetto “modello emiliano”. Dopo il convegno Bologna Futuro. Il modello emiliano alla sfida del XXI secolo, tenutosi nel dicembre del 2010 a Palazzo d’Accursio (gli atti sono stati recentemente pubblicati a cura di Carlo De Maria, nella collana Clueb diretta da Patrizia Dogliani), e il primo seminario sul Modello emiliano nella storia d’Italia, svoltosi sempre a Bologna nell’ottobre del 2011 (un resoconto è stato pubblicato nello scorso numero di “Storia e Futuro”), ha avuto luogo a Modena, il 18 maggio 2012, presso la Facoltà di Economia “Marco Biagi”, una nuova sessione di lavori sull’articolato modello economico, politico e sociale che ha caratterizzato l’intera regione e che da essa ha preso nome. L’organizzazione scientifica della giornata di studi è stata curata da Carlo De Maria, Andrea Giuntini e Marzia Maccaferri. Il titolo ha ripreso esattamente quello del precedente appuntamento di Bologna, a indicare nel modo più chiaro una ulteriore tappa sul medesimo percorso di ricerca: Il modello emiliano nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche amministrative (1889-2012).
In una fase in cui, nell’ambito della ricerca storica, pare emergere l’esigenza di avviare una nuova stagione di studi sul secondo dopoguerra, il workshop sul modello emiliano ha inteso sottolineare la valenza euristica degli studi territoriali per una migliore comprensione della storia repubblicana e, nel contempo, non ha abdicato alla vocazione “pragmatica” che anima il gruppo di studiosi ideatori delle diverse iniziative, sempre tese a promuovere una riflessione problematica sul passato che sia capace di gettare luce anche sui problemi del presente.
Questo approccio costruttivo ha caratterizzato anche l’andamento della giornata modenese. È da sottolineare infatti, prima di tutto, la felice scelta degli organizzatori di far seguire ad ogni relazione l’intervento immediato di un discussant, circostanza che ha permesso agli astanti di mettere a fuoco efficacemente i temi salienti e le principali implicazioni di ciascun contributo. Ed è degno di nota, inoltre, il fatto che, al termine del seminario, il desiderio di mantenere vivo il legame tra studi specialistici e vita concreta abbia animato l’iniziativa che ha concluso la giornata, e cioè una “tavola rotonda” tra esponenti delle diverse realtà politiche, economiche e sociali del territorio (istituzioni, cooperazione, sindacato, centri di ricerca).
Ma diamo ora conto dei diversi contributi dei relatori.
Carlo De Maria ha introdotto i lavori presentando il seminario come ennesimo passo di un percorso avviato nel 2010, quando, in occasione del centenario della morte di Andrea Costa, fu allestita a Imola, con la direzione scientifica di Renato Zangheri, una mostra storico-documentaria dedicata al municipalismo popolare (Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare, a cura di C. De Maria, Diabasis, Reggio Emilia, 2010). A quella iniziativa seguì, nello stesso anno, l’organizzazione a Forlì di un ulteriore dibattito sulla figura del leader socialista, dal titolo Andrea Costa e le città future, con la partecipazione tra gli altri di Roberto Balzani, Maurizio Ridolfi, Thomas Casadei e dello stesso De Maria. Da quelle esperienze presero avvio i convegni dedicati al modello emiliano, dei quali elemento motore è stata l’associazione di ricerca storica Clionet, nata su impulso di una generazione di giovani studiosi di età compresa tra i 30 e i 40 anni.
De Maria ha proseguito quindi la sua introduzione richiamando l’utilità di una riflessione sul modello emiliano nell’ambito di un auspicabile, generale sviluppo della storia delle aree regionali, stante la innegabile carenza di studi sulle specificità territoriali nel panorama storiografico. E, volendo individuare alcune possibili linee di indirizzo per le ricerche, ha proposto una riflessione su alcune parole-chiave. Prima di tutto la “cultura”, intesa anche come relazione tra élites politiche e mondo della ricerca. Poi la “partecipazione”, pensata soprattutto come intreccio “tra autonomie locali e autonomie sociali” e come risorsa per il futuro. Quindi la “programmazione”, che ha perso appeal nel corso degli anni Ottanta lasciando però spazio ad una certa crisi della progettualità politica. Ed infine le connessioni tra la cooperazione, il mutualismo e il cosiddetto non profit, evocative di un “ruolo sussidiario dell’associazionismo e dell’economia sociale” in una prospettiva di “welfare cooperativo” che pare delinearsi come l’unica realistica possibilità di salvaguardia dello stato sociale su scala locale.
Fabio Montella (Amministrazione e cittadinanza ai tempi della crisi. Politiche sociali, sanitarie e scolastiche a Modena e provincia dal XIX al XXI secolo) ha indagato sulle origini del welfare nel Modenese e sulla sua evoluzione.
Il ragionamento è partito dalla constatazione che lo sviluppo del “municipalismo popolare” avvenne, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, nel segno di una competizione tra due progetti politici differenti, quello liberal-democratico e quello socialista riformista. Come dimostrano le vicende di Concordia e San Possidonio, le due diverse culture politiche, pur seguendo percorsi distinti, portarono ad esiti simili, caratterizzati dall’attivismo e dalla comune ostilità verso le posizioni più conservatrici.
In effetti, l’inizio del Novecento fu un periodo di grande rinnovamento per i municipi, ai quali lo Stato, non rinunciando ad un controllo stringente, attribuì nuovi compiti di regolazione del mercato locale dei beni, del capitale e del lavoro. In questa situazione, se alcuni municipi governati da maggioranze clerico-moderate – come ad esempio quello di Modena – furono caratterizzati da un certo immobilismo, altri comuni, soprattutto quelli guidati dai socialisti (magari in coalizione con i liberali progressisti) mostrarono una certa insofferenza per la morsa del centralismo statale – come accadde a Mirandola e a Carpi. In generale, comunque, in quel periodo le esperienze di governo locale furono estese a numerosi settori, e tendenzialmente travalicarono i consueti ambiti di intervento delle municipalità nella regolazione della vita sociale ed economica.
Su questa situazione, la Grande guerra innestò elementi di crisi ma anche di novità. In generale, le gravose esigenze derivanti dall’attività bellica enfatizzarono il ruolo dei comuni in molti ambiti. In particolare, nei comuni socialisti della provincia modenese queste circostanze rappresentarono una occasione per accentuare la tutela sociale dei ceti popolari e la realizzazione di opere pubbliche. Di certo tali politiche si rivelarono piuttosto dispendiose, anche per la gravità degli oneri di ogni tipo causati dalla guerra. Ma tutti i comuni, e non solo quelli retti da maggioranze di sinistra, furono spinti ad assumere, in quel frangente, un protagonismo che stimolò l’adozione di politiche innovative. Il primo dopoguerra delineò così un dibattito nuovo tra centro e periferia, nel quale gli enti territoriali divennero punti di raccordo tra il sistema centralista e le spinte provenienti dal basso.
Le aspre conflittualità della fase post bellica e l’instaurazione del regime fascista posero fine all’esperienza del municipalismo popolare. Ma quando, nel secondo dopoguerra, le maggiori aspettative per la ricostruzione ricaddero nuovamente sulle amministrazioni locali, la nuova fase di espansione delle politiche sociali trovò un valido punto di riferimento proprio nell’esperienza degli anni a cavallo della Grande guerra e nella capacità innovativa che aveva caratterizzato quella stagione.
Mirco Carrattieri (Il bipartitismo imperfetto… allo specchio. Il sistema dei partiti nell’Emilia-Romagna del dopoguerra) ha invitato ad una riflessione sulla necessità di colmare le lacune esistenti nel panorama storiografico circa la storia regionale del Pci e del sistema dei partiti. Lacune alle quali, peraltro, dovrebbe cominciare a porre rimedio un progetto di ricerca in corso di elaborazione da parte della rete degli istituti storici emiliano-romagnoli aderenti alla rete Insmli.
Il relatore ha esordito richiamando il modello politico del “bipartitismo imperfetto”, elaborato da Giorgio Galli nel 1966. La tesi fondamentale del modello era che il sistema politico italiano fosse “bloccato” dalla presenza di due partiti egemoni (Dc e Pci) e dall’esistenza di una serie di vincoli che impedivano al più debole dei due (il Pci) di raggiungere la maggioranza. In queste condizioni, la Dc, che era il partito più forte ma non riusciva a raggiungere la maggioranza assoluta, era costretta ad allearsi con i partiti minori, dei quali subiva però l’influenza; e il sistema democratico nel suo complesso finiva per presentare gravi problemi di inerzia, inefficienza e sottogoverno.
Nonostante tale modello abbia ricevuto, ad opera di altri politologi, numerose critiche nel corso degli anni, lo schema interpretativo del “bipartitismo imperfetto” ha mantenuto una certa freschezza nella pubblicistica e ha consentito a Carrattieri di sviluppare la sua riflessione su scala regionale.
In Emilia-Romagna, infatti, il dualismo tra i due maggiori partiti, anche se con un rapporto di forza rovesciato, è risultato analogo a quello di ambito nazionale; ma il sistema, nel suo complesso, si è orientato verso l’efficienza piuttosto che il contrario. Questa constatazione ha portato Carrattieri a ripercorrere la storia delle relazioni tra i due maggiori partiti in Emilia-Romagna, individuando le possibili periodizzazioni e richiamando l’attenzione sul dibattito riguardante la cosiddetta “Repubblica conciliare”. Avviato da Giovanni Spadolini nella seconda metà degli anni Sessanta, e ravvivato dalle aperture della sinistra democristiana emiliano-romagnola verso la politica comunista, tale dibattito mantenne la sua vitalità anche nel corso degli anni Settanta, quando trovò alimento nella proposta politica del compromesso storico. La difficoltà “a cogliere la concorrenza competitiva con il Pci avviata in questa regione dalla sinistra Dc” – ha osservato il relatore – è forse il tratto più caratteristico delle diverse voci di quel dibattito, le quali hanno sostanzialmente perso di vista “quella che è invece una caratteristica saliente del “modello”“. Il modello emiliano, in altre parole, si caratterizza – secondo Carrattieri – proprio per l’innesco, all’interno del gioco tra i livelli di potere in ambito regionale, di un circolo virtuoso. E questo circolo virtuoso è stato capace di far uscire il Pci da una ristrettezza ideologica che avrebbe impedito lo sviluppo di strategie rivolte al futuro ma anche capace di pungolare la Dc a proporre un progetto politico migliore di quello comunista, con un risultato di legittimazione su scala locale in grado di influenzare il quadro politico nazionale.
Alberto Rinaldi (Il sistema delle piccole imprese) ha tratteggiato un profilo dell’industrializzazione in Emilia-Romagna e ha ripercorso il dibattito svoltosi tra gli studiosi sul ruolo delle imprese minori nell’economia regionale e nazionale.
Rinaldi ha innanzitutto puntualizzato che in Emilia-Romagna l’industrializzazione fu non tanto “lenta” quanto, piuttosto, “tardiva” e che la regione, nel secondo dopoguerra, è stata caratterizzata da una rapida crescita industriale e reddituale, dalla presenza trainante della metalmeccanica e dell’industria alimentare – cui si sono affiancati numerosi altri comparti produttivi – e da un tessuto industriale costituito in massima parte da piccole e medie imprese.
Il relatore ha passato poi in rassegna le principali linee interpretative, storicamente determinatesi a partire dal secondo dopoguerra, sul ruolo delle imprese medio-piccole in ambito economico, seguendo di pari passo il dibattito interno alla cultura di sinistra circa le acquisizioni che via via si andavano definendo tra gli studiosi.
Durante un lungo periodo l’idea prevalente tra gli economisti era che le piccole aziende fossero arretrate e inefficienti, e pertanto destinate a scomparire nel corso del processo di sviluppo. In questa interpretazione, la sopravvivenza delle piccole imprese rimaneva legata alla loro funzione di ammortizzatori per le fasi di crisi o al loro insediamento in settori interstiziali di scarso interesse per le imprese maggiori.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si fece strada una diversa visione, nella quale la tendenza in atto da parte delle grandi industrie ad affidare all’esterno alcune fasi di lavorazione (cioè la tendenza al cosiddetto “decentramento produttivo”) fu individuata come una delle cause di espansione delle piccole imprese.
Nel 1977 fu Arnaldo Bagnasco a notare lo sviluppo della cosiddetta “terza Italia”, avente connotati diversi da quelli del “triangolo industriale” e del Sud arretrato, e caratterizzata da una maggiore incidenza delle imprese di piccole dimensioni, operanti in settori tradizionali o interstiziali, e da un reddito pro capite meno elevato rispetto a quello del triangolo Torino-Milano-Genova. Quasi contemporaneamente, però, sul finire degli anni Settanta, l’attenzione degli studiosi si spostò sui sistemi di piccole imprese, e in particolare sul “distretto industriale”, cioè un territorio dotato di propri caratteri geografici e storico-culturali, in grado di promuovere lo sviluppo produttivo attraverso l’interpenetrazione tra sistemi valoriali e comunitari. In questa nuova prospettiva, fu soprattutto Sebastiano Brusco, nell’ambito di un dibattito di risonanza internazionale, a confutare la tesi di Bagnasco circa la preferenza delle piccole e medie industrie per i settori interstiziali e a sottolineare l’elevato grado di innovazione e specializzazione raggiunto dalle imprese dell’Emilia-Romagna.
A cavallo tra il XX e il XXI secolo si sono verificate profonde trasformazioni nella struttura del capitalismo italiano. È emersa così la tendenza alla crescita di un gruppo di medie imprese in grado di sviluppare ramificazioni all’estero raggiungendo livelli di eccellenza rispetto ai principali parametri di analisi economica. Si tratta del cosiddetto “quarto capitalismo”, che mantiene, comunque, caratteri non lontani da quelli dei distretti industriali e che si espande particolarmente in alcune regioni, tra le quali proprio l’Emilia-Romagna. Anche in questo nuovo scenario, comunque, si conferma la tenacia delle piccole industrie, la cui sopravvivenza è assicurata dalla tendenza alla formazione di gruppi in cui un’impresa leader è affiancata da un numero talvolta elevato di aziende piccole, in grado di realizzare subforniture specializzate ma anche servizi alle imprese e spin-off tecnologici.
Vanni Bulgarelli (Urbanistica e modello emiliano) ha posto in evidenza come nella storia del Novecento l’evoluzione delle strutture urbane e le politiche di governo del territorio siano state strettamente legate con i processi economico-sociali.
Dopo l’unità d’Italia la governance locale seguì il faticoso affermarsi dello Stato unitario. L’assenza di grandi poli industriali e la scarsa rilevanza delle classi professionali cittadine lasciarono spazio al tradizionale assetto fondiario. Pur in questo contesto, a Modena i fenomeni di immigrazione determinarono l’affermazione di nuove istanze sociali e, dunque, anche urbanistiche: si trattò, comunque, di fenomeni tutto sommato limitati.
In epoca fascista le linee di sviluppo si mantennero sostanzialmente inalterate, anche se, dalla metà degli anni Venti, nella distribuzione abitativa si registrò una impronta classista, consistente nell’esclusione degli insediamenti popolari dalle aree di pregio.
Nel secondo dopoguerra le autonomie locali, soprattutto in Emilia-Romagna sperimentarono “le forme concrete di una democrazia urbana progressiva”: l’idea trainante era che la città fosse figlia di una idea di società, e che da quella idea la città dovesse essere modellata. L’urbanistica e l’architettura si orientarono così verso la qualità dell’ambiente urbano e l’erogazione di servizi sociali e assistenza sanitaria, mentre con l’espansione del secondo dopoguerra la rendita fondiaria assumeva una rilevanza notevole. Negli anni in cui si attuava, a livello nazionale, l’accordo tra Dc e Psi che apriva la stagione dei governi di centro-sinistra, l’amministrazione comunista di Modena rispondeva alla sfida con la realizzazione dei Piani per l’edilizia economico-popolare. Così, da un lato si realizzò lo “scambio dichiarato” tra l’attuazione dei piani urbanistici e la crescente rendita immobiliare, dall’altro lato si realizzò la politica dello spazio pubblico, della “casa per tutti” e delle zone per gli insediamenti produttivi. Nel frattempo, le politiche urbanistiche tendevano a rallentare lo sviluppo del capoluogo e a favorire il policentrismo dell’area modenese, limitando, di conseguenza, i fenomeni migratori interni al sistema. Questo tipo di politiche si giovarono dei rapporti tutto sommato positivi tra comunisti e democristiani. Infatti la Dc, pur criticando la programmazione – vista tendenzialmente come una forma di soffocamento della libertà – dimostrò tuttavia di comprenderne il valore fondamentale e arrivò ad approvare, mantenendo una ostilità di principio, i singoli provvedimenti attuativi degli strumenti urbanistici.
In linea di massima nella regione le iniziative urbanistiche furono caratterizzate dal governo attento del territorio, dall’uso razionale e sociale del suolo a fini insediativi, dalla lotta alla rendita fondiaria e dal ricorso al deficit spending. Si trattava, evidentemente, di scelte aventi un forte valore simbolico, che resero la politica urbanistica “parte integrante e coerente dell’insieme delle culture e delle prassi che [concorsero] a definire un “modello emiliano” sociale, economico e politico”.
Oscar Gaspari (Il modello emiliano e l’associazionismo degli enti locali. Il ruolo della Lega dei comuni democratici-Legautonomie, 1916-1966) si è occupato di quella che egli stesso ha definito una “particolare declinazione” del modello emiliano, e cioè il tentativo di far convivere lo Stato e i comuni – due soggetti sostanzialmente antagonisti – a vantaggio sia delle comunità locali che dell’intera nazione.
Parlando delle varie forme di associazionismo tra enti locali, all’interno delle quali le città dell’Emilia-Romagna hanno sempre avuto un ruolo da protagoniste, il relatore si è soffermato particolarmente sul fenomeno delle leghe costituite tra le amministrazioni di sinistra.
La Lega dei comuni socialisti, nata nel 1916 nel capoluogo emiliano, era animata dalla volontà di proporre agli altri comuni italiani il modello di welfare praticato a Bologna da Francesco Zanardi (soprannominato “il sindaco del pane”) ma era anche pervasa dalla cultura del socialismo riformista. L’associazione si pose quindi in attrito con la direzione del Psi, controllata dai massimalisti, e questa tensione portò addirittura alla sua soppressione, operata dai vertici nazionali socialisti nell’ottobre del 1922.
La Lega risorse nel secondo dopoguerra, con il nome di Lega dei comuni democratici, vantando una continuità rispetto all’esperienza prefascista. Tale continuità era, però, soltanto un mito. Innanzitutto perché nel periodo repubblicano l’associazione rinacque come risposta all’estromissione, avvenuta nel maggio 1947, di socialisti e comunisti dal governo De Gasperi – e non per una iniziativa “dal basso” degli amministratori locali, come era accaduto originariamente. Inoltre perché la Lega fu ricostruita nel segno dell’ambiguità, in quanto fu sottaciuta da tutti la reale paternità della soppressione della originaria Lega dei comuni socialisti – soppressione non attuata dai fascisti, come attestava la vulgata corrente, ma operata invece, come si è già detto, dai socialisti stessi.
Comunque sia, la Lega rinacque, e il sindaco bolognese Giuseppe Dozza, anche se non assunse mai una posizione apicale nell’organizzazione, ne fu il leader indiscusso. Da tale posizione il sindaco di Bologna esercitò una attività di protezione e assistenza agli amministratori locali di sinistra che subivano i controlli rigorosi e soffocanti del Ministero dell’Interno. Ma Dozza seppe anche proporre, attraverso la Lega, un nuovo modello di democrazia partecipativa, che si realizzò principalmente attraverso due nuovi istituti: i consigli tributari e le consulte popolari, poi divenute consigli di quartiere. La capacità di ricorrere all’utilizzo delle più moderne tecnologie e anche la disponibilità a utilizzare i contributi offerti dagli avversari politici (come il Libro bianco di Giuseppe Dossetti) furono alla base del successo di un modello destinato in seguito ad espandersi su scala nazionale. La struttura provinciale della Lega dei comuni democratici fu però anche uno strumento per limitare la partecipazione e l’autonomia dei comuni associati, ai quali talvolta vennero imposte scelte ispirate da ragioni di partito – o attraverso la Lega stessa o attraverso le federazioni locali.
Dunque, se è possibile affermare che la vocazione associativa del territorio emiliano fu certamente un modello di riferimento molto importante per le amministrazioni locali, è anche vero che spesso i comuni e le leghe non riuscirono a esercitare un reale protagonismo e dovettero subordinarsi alle ragioni della politica.
Matteo Troilo (Origini e sviluppo del welfare emiliano. Un’analisi comparata nel panorama nazionale) con il suo contributo ha continuato il discorso sul welfare avviato al primo seminario di Bologna. Benché consapevole della preminenza – soprattutto nel campo assistenziale – del ruolo esercitato dalle componenti municipali, Troilo ha ripercorso la storia delle politiche sociali su scala regionale, individuando alcuni tornanti fondamentali.
Per molti anni l’Emilia-Romagna mostrò “un fortunato equilibrio fra l’economia, la società e la politica”. Ciò consentì di porre il welfare locale alla base del cosiddetto modello emiliano, caratterizzato da un benessere diffuso e da una società con poche divisioni: ancora oggi, infatti, la regione Emilia-Romagna è, tra le regioni a statuto ordinario, quella che sostiene le maggiori spese per interventi e servizi sociali.
A partire dagli anni Settanta la situazione cominciò a cambiare. Nei principali paesi occidentali lo Stato sociale e i suoi meccanismi furono messi in discussione e si sviluppò una tendenza alla privatizzazione di alcuni servizi. In Emilia-Romagna, anche in anticipo rispetto ad altre regioni, si manifestò un abbassamento della natalità e della mortalità, oltre ad un generale invecchiamento della popolazione. Nel frattempo si svilupparono le politiche rivolte alla primissima infanzia e agli anziani: le prime divenendo sempre più servizi educativi cui la popolazione tendeva, quando possibile, a ricorrere; le seconde orientandosi sempre più verso l’assistenza dell’anziano nel contesto familiare piuttosto che in strutture di accoglienza.
Negli anni più recenti un elemento di novità è stato introdotto nello scenario dalla comparsa del volontariato, parte del più ampio “terzo settore” o “non profit”. Con la legge n. 328 del 2000 è stata sancita la centralità delle istituzioni comunali nella gestione dell’assistenza sociale e il ruolo autonomo, in tale campo, dei soggetti non profit, stimolando nuove modalità di gestione del welfare attraverso la partecipazione di soggetti pubblici e privati. Legislazioni successive hanno ulteriormente contribuito a ridefinire e regolamentare le organizzazioni del terzo settore, che sono molto diffuse in Emilia-Romagna e che, nell’ambito di un processo nazionale di riforma del welfare, si profilano come partner indispensabili nella gestione delle politiche sociali per il domani.
Troilo ha infine indicato alcuni spunti per futuri approfondimenti sul welfare emiliano, individuando due principali linee di sviluppo nel metodo comparato, basato sul confronto tra realtà diverse anche fuori dai confini nazionali, e nell’approccio multicausale, in grado di tenere conto dei diversi fattori che compongono le politiche sociali.
Fin qui si è riferito del lavoro dei relatori.
Ma il convegno di Modena è stato arricchito da ulteriori contributi, sia nella parte strettamente seminariale, per la quale si segnala l’incisività della dialettica tra relatore e discussant, sia nella già citata “tavola rotonda” finale, che ha visto la partecipazione tra gli altri dell’assessore regionale alla cultura Massimo Mezzetti, del presidente di Coop Estense Mario Zucchelli, dei docenti Franco Mosconi e Giovanni Solinas e ancora di rappresentanti del sindacato e delle professioni. La complessità e l’articolazione del modello emiliano sono così apparsi ancora più evidenti, come del resto ha testimoniato la tendenza, che è apparsa del tutto naturale, ad affrontarne l’analisi secondo una prospettiva multidisciplinare.
Da più parti si chiede oggi se il modello emiliano sia ancora attuale e operante. Di certo, la molteplicità degli approcci e la varietà degli stimoli emersi durante il convegno di Modena ne hanno confermato la vitalità come oggetto di interesse, premiando l’intuizione degli organizzatori e la loro inclinazione a promuovere studi di storia “locale ma non localistica” (l’espressione è di Stefano Magagnoli, uno dei discussant del convegno; gli altri sono stati Emanuele Bernardi, Tito Menzani, Marzia Maccaferri, Carmelo Elio Tavilla e Tindara Addabbo).
Ma c’è qualcosa in più. Proprio negli stessi giorni del convegno, nelle elezioni amministrative tenutesi in vari comuni del nostro paese si è imposto, come forte elemento di novità, un movimento che – di là da ogni altra considerazione politica – ha fatto dell’autorganizzazione civica e della partecipazione popolare la propria bandiera. Non è certo il caso di compiere forzature o istituire nessi frettolosi. Ma non si può fare a meno di notare che uno degli eventi fondativi del Movimento cinque stelle, il V-day, si è tenuto a Bologna; e che il primo importante sindaco espresso da quello stesso movimento è il sindaco di Parma.
“Post fata resurgo”: che la Fenice, o meglio una sua mutazione, stia rinascendo dalle ceneri?