di Alberto Malfitano
Luigi Cadorna e Luigi Albertini, due esponenti di primissimo piano nell’Italia di un secolo fa, sono i protagonisti di questo bel volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera e recentemente pubblicato sulla scorta delle lettere, comprese tra il 1915 e il 1928, conservate nel fornito archivio del quotidiano milanese. Il lavoro esce oggi in un’edizione curata da Andrea Guiso e con la prefazione di Simona Colarizi, che del Corriere della Sera diretto da Albertini è, assieme a Lorenzo Benadusi, la studiosa più esperta avendone ripercorso la storia in un recente volume. E di grande valore è questa opera che riporta una parte almeno dell’epistolario intercorso tra il direttore e il generale, rivelandone le ansie e le speranze del tempo di guerra e il ruolo che essi vi svolsero consapevolmente, di punto di riferimento del frammentato fronte intervista: nel campo militare, Cadorna; da opinion leader che si era arrogato il compito di svolgere una funzione pedagogica nei confronti della classe dirigente liberale, Albertini.
I due, per quanto molto diversi nel carattere e in molte convinzioni, condividevano infatti un’idea di fondo, che la guerra potesse e dovesse diventare la prova suprema per formare finalmente un popolo italiano e dargli un ceto politico all’altezza della gravità del momento. Per creare la nazione e per mantenerla capace di confrontarsi con le sfide che le relazioni internazionali le ponevano davanti occorreva un salto di maturità che solo l’intervento avrebbe potuto causare, come una sorta di prova decisiva che il paese doveva affrontare per poter considerarsi degno di sedere al tavolo delle nazioni che decidevano le sorti del mondo. D’altronde il mito del conflitto era molto diffuso nella borghesia dell’epoca, che anelava alla prova suprema ma al contempo la viveva con ansia, non solo per i comprensibili timori che uno scontro epocale come quello già scoppiato nel resto d’Europa poteva suscitare, ma per i dubbi che il fragile ordito nazionale potesse reggere sotto la pressione di quella suprema e mortale competizione. E’ noto che colui che era riconosciuto come il rappresentate più in vista del fronte neutralista, Giovanni Giolitti, temeva che l’Italia non sarebbe sopravvissuta alle tremende difficoltà di una guerra che aveva previsto sarebbe durata almeno tre anni, contro ogni illusione degli interventisti, compresi Salandra e Sonnino, che credevano a un confronto non più lungo di sei mesi dopo il proprio ingresso. Giolitti fu il bersaglio degli interventisti, specie in seguito al celebre articolo del ‘molto’ (o ‘parecchio’) che era stato pubblicato sulla Tribuna nelle prime settimane del 1915, e divenne il bersaglio di tutti coloro che erano favorevoli all’intervento, in primo luogo il Corriere albertiniano.
In effetti, Albertini concepiva l’entrata in guerra, come fa notare nella sua accurata introduzione Andrea Guiso, come una rivoluzione antigiolittiana, e solo anni dopo avrebbe avuto nei confronti dello statista di Dronero parole meno aspre; nella contrapposizione, che giunse sulla soglia della guerra civile tra interventisti e neutralisti, la scelta del conflitto serviva al Corriere della Sera non solo in funzione pedagogica, verso la nazione e la sua classe dirigente, ma anche per chiudere definitivamente con l’età giolittiana, un pericolo agli occhi di Albertini ancora non sventato del tutto perchè, se Giolitti non era più al governo dal marzo 1914, la Camera dei deputati gli era ancora in buona parte devota, come dimostra il famoso episodio dei circa trecento biglietti da visita inviatigli nel maggio 1915, nel momento delle dimissioni di Salandra dal governo.
La guerra, dunque, come strumento d un’operazione pedagogica, ma guerra anche pronta a scatenare il mito antinazionale del popolo imbelle, come avviene dopo Caporetto, che sembra rivelare agli inguaribili pessimisti, a partire da Cadorna, la vera natura degli italiani. Da qui il grave episodio del celeberrimo bollettino del 27 ottobre 1917, con gli austro tedeschi che avevano già sfondato il fronte e il comandante supremo che addossa la colpa alla presunta viltà delle truppe della II armata. A testimoniare la vicinanza tra Albertini e Cadorna, il direttore del Corriere era presente quando fu redatto il bollettino, ed è interessante lo scambio epistolare avvenuto nel dopoguerra tra lui e il generale per precisare quella circostanza, che nel clima avvelenato del 1919, in cui si cercava un colpevole della rotta, rischiava di travolgere tanto Cadorna quanto Albertini, che aveva legato la sua sorte, e quella del giornale, alla guerra e alla difesa della vittoria come eredità che non andava sprecata nel clima infuocato postbellico.
Il carteggio, fitto soprattutto negli anni seguenti al conflitto rivela, oltre al sempre più consolidato rapporto di amicizia, la vicinanza tra il Corriere e il generale, la volontà del primo di difendere la vittoria acquisita con ogni sforzo ma anche di sfruttare l’amicizia di Cadorna per combattere al meglio la battaglia giornalistica che difendesse lo stesso ex comandante supremo e le scelte del Corriere stesso nei confronti del conflitto. Dall’altra mostra un Cadorna insofferente, se non furioso, per il ruolo di capro espiatorio, di certo avvalorato dalla sua posizione di comandante supremo come dagli errori militari che stanno alla base della rotta di Caporetto (su cui non manca una stilettata dello stesso generale nei confronti delle mancanze di Badoglio, comandante delle forze dislocate nel settore cruciale di Tolmino), e deciso a far valere le proprie ragioni a tempo debito, fino al momento del trionfo, suo e anche di Albertini, con la nomina a maresciallo d’Italia, il 4 novembre 1924, con cui Mussolini chiudeva polemiche che non gli giovavano più.
Il corposo apparato di note ha il merito di accompagnare e spiegare con ricchezza di particolari la lettura delle lettere e di far comprendere la solidità di questa amicizia, ma anche il ruolo di due uomini che giocarono una parte di grandissimo rilievo nelle sorti dell’Italia del 1915 e degli anni seguenti, gettando una luce importante sulla gestione della memoria della Prima guerra mondiale, a partire da Caporetto, nell’Italia che si dibatteva nelle convulsioni sociali e politiche del dopoguerra.