Paolo Sorcinelli, Storie dell’otto settembre, Bologna, Biblioteca Clueb, 2020.
8 settembre 1943. Una data drammaticamente piantata al centro del più intricato crocevia della nostra storia del ‘900.
Crocevia politico, militare, diplomatico, economico, morale, finanche antropologico, tanto da proporsi ancora quale irrisolta cartina al tornasole del nostro stesso essere appartenenti ad una comunità nazionale; dei vincoli sociali che ci legano quali cittadini e ci pongono in rapporto con le forme e l’autorità dei gruppi dirigenti; del senso stesso del nostro costituirci come entità di popolo omogenea legittimata da ben identificabili radici culturali e da una vicenda secolare di comuni, spesso insanguinati e dolorosi, destini.
Tanto si è scritto in merito. Tanto si è inteso decifrare i convulsi passaggi di quei momenti di trapasso da consolidate, anche se fallaci, certezze – realizzatesi lungo un ventennio di illusioni di grandezza imperiale, crescita materiale, ordine sociale – verso un baratro di smarrita resa dei conti per tutte le coscienze, mentre eserciti stranieri percorrevano e dominavano la penisola, facendoci ripercorrere memorie antiche di soggezione e di soprusi.
Tanto si è discusso attorno alle responsabilità dei numerosi protagonisti, alle loro inadeguatezze, alle loro scelte di debolezza, non meno che di viltà; ed ancor più si è andati ad incontrare la gente di quel tempo, per coglierne l’inevitabile disorientamento, la preoccupazione per un futuro impossibile da individuare, il disagio di una condizione materiale miserevole resa angosciosa dalla paura per il crepitio delle armi e per le piogge devastanti delle bombe.
Ecco che su quest’ultimo versante conoscitivo, dell’interpretazione dei sentimenti più veri ed istintivi delle persone, d’improvviso sbattute in un gorgo di difficoltà pratiche e di convulsioni emotive imprevedibili, si è esercitato Paolo Sorcinelli rincorrendo (in questa edizione rivista del volume uscito nel 2013 presso la Bruno Mondadori), con partecipata immersione critica nelle successive fasi della vicenda, diari, memorie, ricordi via via venuti alla luce negli anni successivi, miscelando saggiamente testimonianze di donne e uomini delle più diverse provenienze sociali e condizioni lavorative od economiche, con quanto allora percepito da rilevanti personalità del mondo culturale, che poi vi hanno dedicato le loro attenzioni letterarie, come, fra i tanti presi in considerazione, Giuseppe Berto e Luciano Bianciardi, Raffaele La Capria e Beppe Fenoglio, insieme a Rosetta Loy e Luigi Meneghello, e pure Paolo Monelli, Iris Origo e naturalmente Nuto Revelli, Rigoni Stern ed Ardengo Soffici.
Certo, in tal modo non si è inteso rianalizzare i grandi “nodi” che continuano ad avvolgere quei mesi del ‘43 in un groviglio di azioni e di contraddizioni poste in atto da tutti gli attori operanti allora sul palcoscenico delle pubbliche ed istituzionali responsabilità. Su questi si è del resto a lungo esercitata – come detto – la critica storica con esiti per altro non esaustivi e sovente debitori di precostituite visioni ideologiche.
Le incertezze delle trattative per uscire dall’alleanza coi tedeschi, la pessima gestione della destituzione di Mussolini, le meschine paure e le inutili furbizie delle scelte di Badoglio con i tedeschi liberamente dilaganti dal Brennero alle nostre caserme, la mancata difesa di Roma nonostante l’appoggio fornito dagli alleati, la precipitosa fuga del Re e di parte del governo, la mancanza di ordini e di indicazioni al paese, e soprattutto a quello in divisa dislocato sui vari fronti di guerra: restano tutti questi temi di un dibattito non solo e non tanto storiografico, quanto piuttosto di un impietoso esame di coscienza sui limiti di un paese ancora incapace, a tanti decenni dall’epopea risorgimentale, di definire una propria compiuta fisionomia unitaria gestita da una classe dirigente consapevole di sé e dei suoi doveri verso una società altrimenti frammentata e scoordinata.
Obbiettivo della ricerca intende essere, invece – avverte l’autore – quello di “calare il lettore in una dimensione più profonda. Quella delle passioni e delle reazioni che hanno contrassegnato un momento storico del tutto particolare”.
Ecco, allora, che incontriamo le lunghe file degli Italiani del “tutti a casa” in movimento da nord a sud e da sud a nord, che l’allora sergente Luigi Meneghello avrebbe così ricordato molti anni dopo: “due file praticamente continue di gente, di qua andavano in su, di là in giù, […] molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete […] Le due colonne si salutavano allegramente, da una parte in veneto, in piemontese, in bergamasco, dall’altro nei dialetti di segno contrario”.
Ma pure i drammi degli sconfitti sul fronte africano imprigionati a Tunisi, come Giuseppe Berto; non meno che la catastrofe degli alpini dislocati sul Don e nelle steppe ghiacciate della Russia ( tra essi il sottotenente Nuto Revelli e il sergente Mario Rigoni Stern); e pure le lacerazioni di uomini e cose delle nostre città bombardate e trasformate in cimiteri di macerie punteggiate da cadaveri smembrati; l’agonia della Sicilia incapace di reggere l’urto degli anglo-americani; le condizioni degli internati nei campi alleati e di quanti furono avviati a lavorare forzosamente in Germania, insieme a quella senza requie degli ebrei.
Furono quelli i giorni, culminati con l’8 settembre e le settimane seguenti, in cui dominarono nelle nostre strade – come ben evoca l’autore – “confusione e speranze, sogni e stanchezza, illusioni e avvilimento, paura e incoscienza[…] era tutto un popolo ad essere in moto per scampare ai pericoli o per cercare notizie di qualcuno, per fuggire da qualcosa o per capire il da farsi, per trovare da mangiare o per salvare la pelle”.