Apparato produttivo e interessi industriali a Napoli tra inizi Novecento e Grande guerra

Francesco Dandolo

Si pubblica, con un essenziale apparato di note, la relazione tenuta in occasione del convegno di studi Roma e la sua “megaprovincia” nella crisi del sistema liberale. Progettualità, politica e gestione del territorio (1914-1922), promosso dal Dipartimento di Studi storici geografici antropologici dell’Università degli Studi “Roma Tre”, 15-16 ottobre 2009.

Abbreviazioni archivistiche utilizzate:

Accn: Archivio della Camera di commercio di Napoli

Asen: Archivio storico Enel di Napoli

L’evoluzione del territorio agli inizi del ventesimo secolo

Nei primi decenni del Novecento, all’interno del più vasto contesto nazionale, assume rinnovata centralità la questione napoletana. Con questa definizione non si vuole intendere l’ambito territoriale – per quanto stratificato e problematico – della sola provincia partenopea, quanto piuttosto un’area decisamente più estesa che va da Caserta a Salerno, il cui tratto distintivo è costituito da una sostanziale omogeneità economica e sociale. Si tratta della fascia tirrenica che addensa da secoli gran parte della popolazione della regione e che costituisce ancora oggi uno dei poli urbani più rilevanti a livello europeo. La novità, dunque, non è tanto nell’egemonia che questa area esercita sulla Campania e che vuole continuare a svolgere sull’intero Mezzogiorno d’Italia, quanto piuttosto nel fatto che questo contesto territoriale diviene fonte di una rinnovata riflessione di matrice meridionalista che sembra comprendere, con maggiore profondità che nel passato, le cause del brusco ridimensionamento che dall’Unità in poi l’area metropolitana ha vissuto nel passaggio da capitale a città regionale. Il riferimento d’obbligo è al pensiero di Francesco Saverio Nitti che, nei suoi scritti di inizio Novecento, riconosce esplicitamente la legittimità e la specificità della questione napoletana come aspetto distinto e dirompente della più generale questione meridionale1. Ma si tratta anche dell’area che in prospettiva sembra maggiormente propensa a svilupparsi: a tal proposito, risulta ancora tutt’oggi pertinente la felice espressione di Manlio Rossi Doria, secondo cui la provincia napoletana in senso lato è identificata con la polpa, mentre le aree interne, afflitte da condizioni territoriali avverse, sono associabili all’osso (cfr. Rossi Doria 2005). La fascia tirrenica è dunque sede della “Campania felix”, anche se in questa congiuntura vanno aggiunte almeno due variabili alla definizione appena richiamata: si dilatano i confini geografici dell’area, estendendosi ben al di là di Terra di Lavoro alla quale è tradizionalmente abbinata; oltre che l’agricoltura, l’area più ferace della regione è largamente coinvolta nel processo di irrobustimento industriale. Si abbandona dunque la tradizionale vocazione agraria – così come evidenzia nei suoi studi Oreste Bordiga, docente tra i più apprezzati della Scuola di Portici di quegli anni (Villani 1990, 48-50) – tanto che a livello regionale la prevalenza di forza-lavoro impegnata nel settore primario tende vistosamente a diminuire proprio laddove la terra è più fertile. In questa zona, dunque, trova spazio un progetto di matrice industrialista, che caratterizzerà larga parte del Novecento (Nitti, De Masi 2005). Anche se è opportuno precisare che l’uso di tale definizione risulta più giustificabile per le potenzialità che vi sono connesse, piuttosto che sulla base della reale condizione in cui versa la grande provincia partenopea agli inizi del Novecento (Frascani2004).

“L’avvenire industriale”

Ed è proprio perché suscettibile di miglioramenti, in questa fase storica l’area napoletana appare tutt’altro che statica: vi si configurano, infatti, trasformazioni strutturali di grande significato che si richiamano a una visione moderna, già applicata in altri importanti contesti urbani a livello europeo. In questa prospettiva, la legislazione speciale del 1904 – scaturita anche grazie all’apporto della riflessione di Nitti che così assume un importante valore pragmatico – e l’allargamento della base produttiva a livello nazionale cui anche Napoli partecipa durante la Prima guerra mondiale, contribuiscono a fornire un volto nuovo dell’area metropolitana, cercando allo stesso tempo di sconfiggere antichi mali – materiali e morali – che ne pregiudicano grandemente le opportunità di sviluppo (De Benedetti 1990). Napoli, dunque, va mutando la sua fisionomia, nel disegno di dare “un avvenire industriale” all’area che abbraccia gran parte della fascia tirrenica campana che abbia in qualche modo anche una funzione di catarsi (Russo 2004). E lo Stato, in entrambe le occasioni, esercita un ruolo di primo piano nel forzare i tempi dell’industrializzazione mediante investimenti diretti, commesse e scelte strategiche più complessive su come orientare lo sviluppo.

Alcune questioni alla vigilia della guerra

Emergono, dunque, nuovi settori, nuove industrie e nuovi imprenditori, così come si va a configurare, con tratti distinti, la fisiologia del conflitto tra gruppi sociali contrapposti fra loro, tipica di una società industrializzata. In questo contesto, sulla scia di una palese evoluzione in chiave industrialista, si precisano e si mobilitano interessi economici che necessitano di essere rappresentati e tutelati. La sede istituzionale entro la quale si possono riconoscere i tentativi di aggregazione e di capacità di fare pressione è senz’altro la Camera di commercio della provincia di Napoli (Russo 1985; Camera di commercio 2008). Gli anni che vanno dalla vigilia della Prima guerra mondiale all’ascesa del fascismo sono tutt’altro che agevoli per l’istituto camerale; pur all’interno dei compiti di governo dell’economia locale, la vita associativa è sempre più orientata a privilegiare la difesa degli interessi che in modo netto vanno rafforzandosi. Insomma, l’ente camerale è chiamato a esercitare un ruolo di supplenza, prima che tali interessi possano maturare e convergere nell’ambito di una raffigurazione propria in un distinto organismo professionale di rappresentanza.

In questa ottica, il discorso di insediamento del nuovo presidente della Camera di commercio Giovanni Battista Mauro – figura di primo piano anche a livello nazionale perché ricopre la carica di vicepresidente dell’Unione delle Camere di commercio del regno d’Italia – è di grande rilievo2. Nell’assumere la presidenza nel gennaio del 1914, oltre a esaltare le funzioni dell’ente camerale, evidenzia con orgoglio che le sorti di Napoli coincidono con quelle del Mezzogiorno:

La prosperità di Napoli è prosperità del Mezzogiorno d’Italia. Noi possiamo col nostro lavoro contribuire a dare una più florida vita al Paese. La Camera di commercio è un organo importantissimo della economia nazionale: ad essa è riservato il compito di tutelare i traffici e le industrie del Paese, garantendoli anche contro le concorrenze illecite e possibili frodi. L’opera della Camera, fatta di consigli, d’incoraggiamenti, d’iniziative, svolgentesi sempre in cordiale collaborazione col Governo e col commercio, non conosce alcun limite (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Affiora in modo chiaro il ruolo egemone che la città – pur in presenza di un quadro meridionale che va marcatamente disarticolandosi con lo sviluppo di importanti poli urbani – continua apertamente a rivendicare. Così come si ribadisce l’esigenza di adeguare le istituzioni – e quindi nel caso specifico l’ente camerale – all’esigenza dei tempi nella prospettiva di rivestire la funzione di rappresentante sempre più fedele delle attese e istanze degli industriali e commercianti della provincia:

Le istituzioni cambiano, o di significato o d’indirizzo col mutare dei tempi e dell’ambiente in cui vivono. Lo sviluppo che il commercio e l’industria hanno oggi raggiunto anche nella nostra regione richiede che la Camera di commercio sia un organismo forte e vitale, molto più che non sia stato finora (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Il diritto a rappresentare lo stratificato universo produttivo dell’area partenopea vuol dire innanzitutto fare i conti con l’urgente revisione delle liste per eleggere gli organismi direttivi della Camera, che invece appaiono ancora eccessivamente ristrette. Insomma, l’autorevolezza che deve essere propria dell’ente camerale non può che essere frutto di un’estesa rappresentanza, che a sua volta presuppone un allargamento della base associativa mediante un pieno coinvolgimento di tutti coloro che operano nei settori ormai nevralgici dell’economia napoletana, l’industria e il commercio.

Data la larghezza con la quale concepisco la funzione della Camera, è necessario che questa sia la vera espressione di tutti i commercianti e gl’industriali del distretto. Anche le ultime elezioni sono state fatte in base a liste contenenti solo una minima parte degli esercenti che avrebbero dovuto trovarvisi iscritti, se le amministrazioni comunali avessero meglio provveduto alla revisione delle liste precedenti. A tale grave inconveniente sono certo che vorrete porre sollecito riparo; spinto in ciò dal pensiero che un Collegio eletto dalla universalità dei commercianti avrebbe in sé maggiore autorità di quanta non ne abbia un eletto con suffragio molto ristretto (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Ed è anche per questo motivo, che la Camera di commercio si occupa – in modo più costante e ravvicinato che nel passato – di questioni centrali connesse allo sviluppo in chiave industrialista. Tra questi, un rilievo particolare assume la funzione dell’erogare credito alle imprese. L’impossibilità a livello locale di ricorrere allo sconto presso gli istituti di emissione nazionali, perché la legge prevede che le cambiali possono essere scontate soltanto quando si presentano due firme di nota solvibilità, fa sì che le imprese industriali siano costrette a ricorrere a banche minori, che pongono condizioni assai difficili da poter sopportare:

A voi sono note le gravi difficoltà in cui si dibattono le imprese industriali, nella ricerca dei capitali loro occorrenti. La legge che attualmente regola in Italia lo sconto presso gl’Istituti di Emissione stabilisce che le cambiali possono essere scontate solo quando portino due firme di nota solvibilità. Questa disposizione mette le imprese industriali, che non hanno una larga circolazione commerciale, nella condizione di dovere ricorrere, per i capitali loro necessari durante il ciclo produttivo, a banche minori, che fanno naturalmente condizioni più gravose di quelle degli Istituti di Emissione. Il ricorso alle banche minori provoca, di conseguenza, una eccessiva immobilizzazione dei depositi di queste, turbando tutto l’andamento del mercato dei capitali. A questo vizioso ordinamento dei nostri Istituti di Emissione può in gran parte attribuirsi lo stato di crisi latente in cui attualmente versano alcune fra le maggiori industrie italiane (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Nel tentativo di trovare un’efficace soluzione alla sostanziale assenza di capitali da investire, Mauro propone la fondazione di un istituto di credito industriale da costituirsi con i depositi delle casse di risparmio degli istituti di emissione, e che avrebbe lo scopo prioritario di anticipare alle sane imprese industriali i capitali di cui esse hanno bisogno durante il periodo di fabbricazione del prodotto: “istituto che sarebbe circondato dalle necessarie garanzie, ed alla cui fondazione dovrebbero poter concorrere anche i privati capitalisti” (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Allo stesso tempo, si dà grande risalto al crescente rilievo che il porto di Napoli dovrebbe avere nell’economia regionale: in realtà la centralità è presto spiegata con la caratteristica eminente dell’apparato industriale partenopeo, che è un’industria spiccatamente di trasformazione:

Al traffico portuale, in costante incremento, è necessario apprestare maggiori facilità di svolgimento; e la Camera dovrà quindi chiedere che siano messe a disposizione del commercio tutte indistintamente le banchine disponibili; che non sia più procrastinata l’istituzione di un vero proprio porto franco; che siano costruiti capannoni per le merci di esportazione; e che, a tutti i costi, sia affrettato il completamento dei lavori portuali in corso dei esecuzione o di progetto. La nostra Camera deve energicamente volere che Napoli sia dotata di un grande porto, fornito di tutti i mezzi richiesti dalla tecnica moderna. Il porto che abbiamo attualmente è affatto insufficiente ai bisogni del traffico (Accn, seduta del 13 gennaio 1914).

Da qui l’esigenza di dover costantemente incrementare le relazioni commerciali internazionali, sia per il reperimento delle materie prime, sia per la collocazione sui mercati esteri del prodotto finito e la constatazione che allo stato attuale il porto di Napoli appare del tutto inadeguato a tale crescita.

La guerra: la divaricazione degli interessi industriali

La partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale determina nell’area partenopea l’accentuarsi – già da tempo palese – della conflittualità degli interessi industriali. Tale conflitto si può sintetizzare – con una qualche semplificazione – nell’ambito di due dualismi:

  • industrie che producono per l’esportazione – che sono la gran parte dell’apparato produttivo regionale – e industrie che si rivolgono al mercato interno;
  • il dualismo dimensionale: piccola-media impresa da una parte, e grande impresa dall’altra.

Risulta dunque evidente che l’esistenza di tali dualismi pregiudica di gran lunga le possibilità di trovare un terreno comune su cui dialogare e stabilire alcuni comuni punti programmatici di tutela e rappresentanza degli interessi industriali. Con la guerra, però, il confitto tende di molto ad accrescersi: come è noto, il governo attua una politica programmatoria nell’economia – si parla infatti di Stato massimale – con il dicastero della Guerra che pianifica la produzione (Caracciolo 1969a). In tal modo sono istituiti gli stabilimenti ausiliari, che anche a Napoli hanno un peso di rilievo e sono per lo più identificabili con l’industria pesante. Questo elemento dirompente infrange i già assai precari equilibri. In particolare, già alla vigilia della guerra, sono palesi le forti ripercussioni negative a causa della sostanziale paralisi del commercio internazionale. Ne soffre grandemente l’apparato agro-alimentare, che con il suo distretto che ha sede fra Gragnano e Torre Annunziata è uno dei punti di forza qualificanti dell’intera struttura produttiva della regione, producendo quasi esclusivamente prodotti di esportazione:

Il divieto di esportazione delle paste alimentari – riferisce il presidente Mauro – ha colpito in modo gravissimo i pastifici di Gragnano e di Torre Annunziata, che producono quasi esclusivamente il tipo di esportazione, e che per il mancato smercio hanno visto paralizzato il loro lavoro. La gravità della situazione è aumentata dal fatto che quegli industriali si sono trovati, al momento del divieto, con un forte stock di prodotti in magazzino, che non può essere assorbito dal consumo interno (Accn, seduta del 14 agosto 1914).

Si propongono vari rimedi ma gli ostacoli, soprattutto nei mesi successivi l’entrata in guerra dell’Italia, tendono a divenire più marcati3. Analoghe difficoltà sono vissute dal comparto conserviero – “un’altra industria che ha da noi grande importanza” – anche se in questo caso l’auspicio è che gli interventi del governo siano volti ad alleggerire i costi dei trasporti ferroviari (Accn, seduta del 14 agosto 1914). Con il trascorrere dei mesi il malessere si accresce sensibilmente:

Il recente provvedimento governativo, col quale è stata ridotta da 60 a 30 Kg la quantità di pasta che può esportarsi per ogni 100 Kg di grano immesso in temporanea importazione nel Regno, ha dato origine a una grave agitazione degli industriali esportatori, che si vedono grandemente danneggiati dall’applicazione del provvedimento stesso. L’agitazione si è principalmente manifestata nelle nostre regioni a Gragnano, Torre Annunziata, Nocera, ecc. che per essere le più forti esportatrici dell’articolo sono le maggiormente interessate nella questione (Accn, seduta del 20 novembre 1914).

Nella sede camerale si succedono riunioni dei produttori di pasta e proprietari dei molini delle province di Napoli e Salerno che chiedono con insistenza il varo di misure idonee al fine di incrementare le importazioni di grani, al momento del tutto insufficiente per le elevate potenzialità della produzione (Accn, seduta dell’11 febbraio 1915). Nasce anche un consorzio per l’approvvigionamento di grano cui aderiscono molti produttori delle due province (Accn, seduta del 2 marzo 1915). Ma, poi, con lo stabilizzarsi dell’economia di guerra, le pressioni di tutela dell’apparato produttivo si fanno più incalzanti. Il problema, però, è trovare i modi affinché vi sia una linea di condotta collettiva che possa essere condivisa dalle diverse anime che compongono la produzione regionale. Così si accresce il malessere oltre che dei piccoli produttori, anche di quelli che fanno parte del comparto pesante che contribuisce alla produzione bellica nazionale. Sollecitata da tali istanze, la Camera di commercio riunisce i piccoli produttori a livello regionale che non hanno potuto usufruire delle commesse statali, con l’intento di dare vita a una cooperativa in modo da accrescerne il peso contrattuale (Accn, seduta del 4 settembre 1915).

La preparazione del dopoguerra

Anche a Napoli, che nel complesso è fuori dal teatro di guerra, il conflitto appare lungo e inutile. Di questa percezione se ne ha chiara risonanza anche nelle varie riunioni dell’ente camerale, al di là dell’enfasi retorica che spesso accompagna le discussioni in merito alle vicende belliche. Così come da tempo si va preparando il dopoguerra, non solo per guardare con maggiore fiducia al futuro rispetto alle immani distruzioni determinate dagli eventi bellici, ma anche perché si guarda con viva preoccupazione al fondamentale processo di riconversione produttiva che si dovrà avviare nel passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace. Così nel settembre del 1916 è accolta con grande sollievo, soprattutto perché anticipatore di tempi nuovi, la circolare del ministero dell’Industria in merito all’esigenza di gestire al meglio la conclusione del conflitto, di cui si incominciano a intravedere alcuni incoraggianti, seppure assai flebili, segnali (Accn, seduta del 23 settembre del 1916). Ed ormai la Camera di commercio di Napoli è costretta ad assumere sembianze di sempre più esplicita tutela degli interessi economici4, assumendo a volte insolite posizioni di sollecitazione o addirittura di critica, seppure sommessa, nei confronti delle decisioni che il governo intende adottare nel preparare il dopoguerra, proprio perché è costantemente investita dei forti disagi che provengono dall’apparato produttivo5.Nell’ottica della provincia napoletana, il dopoguerra evidenzia l’esigenza di affrontare due snodi imprescindibili: la preparazione tecnica affinché si raggiunga un soddisfacente grado di maturità intellettuale da connettere strettamente all’esigenza di divenire buoni industriali e amministratori; la preparazione pratica per intrecciare maggiori e più salde relazioni con i Paesi alleati e con le nazioni con le quali i rapporti dell’Italia si stringeranno più intimamente (Accn, seduta del 29 gennaio 1917).

Nel frattempo fra gli industriali, in questo caso fra quelli che hanno maggiormente usufruito delle commesse belliche, emerge un forte malessere sull’eventualità che la fine del conflitto, da un canto, determini il ridimensionamento dello Stato e dunque la brusca perdita di ordinativi, e, dall’altro, un forte incremento delle tasse, soprattutto dei sovraprofitti di guerra. L’ente camerale, di fronte all’accrescersi di tensioni e proteste, manifesta la sua sostanziale inadeguatezza: la sua funzione di interprete e mediatore delle istanze dei produttori da presentare al governo nazionale è pesantemente messa in discussione. In particolare, circa la questione fiscale, il comportamento dell’ente camerale è giudicato dagli industriali eccessivamente timido e incapace di esprimere una posizione autonoma. D’altronde, proprio nel tracciare un bilancio dell’anno appena trascorso, agli inizi del 1917 il presidente Mauro ritiene che si tratta di un “anno burrascoso e agitatissimo alle spalle” (Accn, seduta del 29 gennaio 1917). Nello sforzo di contenere il forte malessere che si va manifestando, l’invito è ancora una volta “avere fede nel Governo e nell’esercito, senza impressionarsi di certe notizie che ad arte sono messe in giro”(Accn, seduta del 9 novembre 1917).

La situazione, dunque, evidenzia un palese capovolgimento: se all’inizio sono le imprese non coinvolte nelle vicende belliche a manifestare con chiarezza disagio, ora, invece, che si inizia a parlare di dopoguerra, anche se purtroppo il conflitto è ben lungi dal considerarsi terminato, sono proprio le grandi aziende che maggiormente sono state beneficiarie dell’economia di guerra a mostrare aperta preoccupazione per quanto di lì a poco potrà determinarsi e dunque ad assumere un atteggiamento di costante vigilanza.

La nascita dell’Uri

La guerra, comunque, si può dire un’esperienza tutt’altro che chiusa. Sul finire del 1917, il presidente della Camera di commercio di Napoli Mauro manifesta apertamente stanchezza, rilevando che il conflitto “non ha ancora assunto un aspetto decisivo” (Accn, seduta del 29 dicembre 1917). Nel frattempo, gli studi relativi alla preparazione del dopoguerra si sono ormai conclusi: grande rilievo assumono i lavori della commissione delle industrie siderurgiche e meccaniche, da cui emerge che si è in presenza di forze produttive “nuove, sorte in pieno vigore e tese in un dinamismo irresistibile di volontà produttiva”. La situazione, dunque, evidenzia problemi inediti, e come sintetizza il presidente Mauro “ci troviamo subito dinanzi ad un nucleo di imprese industriali sorte per le improvvise esigenze del munizionamento”. In tal modo “lo sviluppo delle industrie siderurgiche, meccaniche, per esempio, che specialmente nella nostra provincia ci ha rivelato capacità fattive di cui non era prima in noi il più lontano sentore” è il sintomo più evidente di un maggiore potere contrattuale e delle funzioni che esse intendono esercitare nell’evoluzione delle vicende connesse al dopoguerra, nell’ambito del cruciale passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace (Accn, seduta del 29 dicembre 1917).

Ed ecco perché, nel luglio del 1917 questo fascio di industrie è promotrice di un’associazione, l’Unione regionale industriale, volta a rappresentare gli interessi collettivi dell’industria meridionale e che segna la nascita dell’associazionismo industriale partenopeo (Dandolo 2003; 2005). Certo, con l’approssimarsi della fine della guerra diviene cruciale interloquire con gli organi di governo per meglio gestire la transizione da un’economia di guerra a un’economia di pace, ma il processo che trova sbocco in questa prima forma di associazionismo poggia sui mutamenti strutturali avviati nel quindicennio precedente.

I mesi precedenti si caratterizzano per l’intensificarsi dei contatti fra gli esponenti dell’industria pesante e di quella elettrica. Fin dall’inizio, però, il progetto associativo si identifica nella globale tutela degli interessi industriali. Pertanto, lo sforzo è di coinvolgere le aziende nell’ambito di un’area che, pur avendo il suo centro in Napoli, aspira ad abbracciare buona parte del Mezzogiorno continentale, di cui la Campania è una parte eminente. È questo un tema in palese continuità con le funzioni che la Camera di commercio intende interpretare e rappresentare per l’intero Mezzogiorno d’Italia. In questo senso il termine regionale che compare nella denominazione si giustifica nella volontà di esprimere sin da subito una vocazione territoriale ampia, che comunque faccia dell’industria napoletana una sorta di avanguardia.

L’Uri tra scenari locali e nazionali

La fondazione dell’Unione permette, peraltro, di congiungere le specificità dell’industria napoletana con la complessiva evoluzione degli assetti imprenditoriali. Sulla scena nazionale, già da tempo vi sono riferimenti di associazioni sindacali di rappresentanza: nel 1906 nasce la Confederazione generale italiana lavoratori e nel 1910 inizia la sua attività la Lega di Torino, il primo nucleo da cui scaturirà la Confederazione generale dell’industria (Berta 1996). Di qui il passo, brevissimo, che spinge a dialogare con le maggiori associazioni datoriali territoriali o nazionali (come l’Associazione fra le società italiane per azione), e poi con la Confederazione generale dell’industria, soprattutto nella fase, che ha inizio nella primavera del 1919, di rifondazione “romana”. E ciò richiama in causa, paradossalmente, il rapporto non sempre agevole e felice con i vertici, giacché alla vocazione “dialogante” con il centro si accompagna una sorta di “coscienza della diversità”, la richiesta di condizioni speciali per il Mezzogiorno sulla base dell’unicità del suo quadro economico. Così il successo del progetto di dare vita all’Unione si spiega anche con le ripetute sollecitazioni che vengono dall’esterno, tali da permettere che si possa concretizzare in tempi abbastanza rapidi. Gli incontri preparatori, avviati nella primavera del 1917, terminano il 17 luglio dello stesso anno, giorno dell’assemblea costituente. In quella occasione si ribadisce con solennità l’intento basilare: dare vita a un solido organismo volto a rappresentare gli interessi da tutelare. La controparte è identificata nello Stato, ma già appaiono all’orizzonte altre questioni cruciali. In particolare, destano preoccupazione le rivendicazioni dei lavoratori, inquadrati in vaste organizzazioni sindacali.

Il progetto associativo di Maurizio Capuano

Maurizio Capuano, amministratore delegato della Società meridionale di elettricità, è il primo presidente dell’Unione e lo sarà fino alla sua morte, nell’agosto del 19256. È la personalità più autorevole del mondo imprenditoriale meridionale, gode di ottime doti di equilibrio, valore aggiunto nella mediazione tra le diverse “anime” degli industriali meridionali, conosce le realtà associative del Nord-Ovest, guardando con attenzione alla Lega di Torino, il sodalizio di rappresentanza industriale più importante della penisola (Berta 1994). In particolare, i legami affiorano durante la stesura dello statuto, in cui i promotori dell’Unione attingono deliberatamente dal documento basilare dell’associazione torinese, tanto che in entrambi i documenti costitutivi si riscontrano affinità fin dalla prima frase: “tutelare e difendere gli interessi collettivi dei soci e dell’industria”7. La scelta di stringere relazioni va ben oltre la formulazione dello statuto: l’amministratore delegato della Sme partecipa nel creare una comunanza di interessi e rivendicazioni fra le varie organizzazioni degli industriali presenti nel Paese. L’intento è di dare vita – in tempi ragionevolmente brevi – alla costituzione di una nuova associazione di rappresentanza degli imprenditori a livello nazionale. Il disegno emerge con chiarezza nella corrispondenza con Gino Olivetti, segretario generale della Lega di Torino, da cui si deduce come Capuano contribuisce alla volontà di rinnovare l’associazionismo imprenditoriale nazionale8. E in effetti tale orientamento si compirà di lì a poco, nel 1919, quando si concluderà il processo di “rifondazione” della Confindustria, che comporterà il trasferimento della sede centrale da Torino a Roma. Da questo momento i rapporti già esistenti con la Confederazione Generale dell’industria tenderanno a irrobustirsi. Si tratta di un rapporto spesso problematico, ma sempre cercato, con i vertici confederali nazionali. Infatti la ricezione, laboriosa e mai scontata, del contenuto degli accordi nazionali che si vanno a stipulare nelle città strategiche dell’industrializzazione italiana, (ricezione che doveva tener conto “delle speciali tradizioni nelle quali si svolge l’industria del Mezzogiorno”9), è spesso un vero e proprio rompicapo per i dirigenti dell’Unione, tanto da occuparne l’agenda in alcuni mesi di frenetica attività.

L’adesione al progetto

L’esigenza di raccordo con lo scenario nazionale, sostenuta dall’amministratore delegato della Sme, gode di un sostanziale consenso fra i soci più importanti. Del resto, alle riunioni preliminari partecipano i rappresentanti delle filiali partenopee dei gruppi aziendali nazionali, il cui centro direzionale è nei luoghi strategici della penisola. I partecipanti, quindi, sono consapevoli che risulterebbe perdente una strategia volta a circoscrivere la tutela degli interessi nell’ambito di aree che hanno invece evidenti connessioni con la restante parte del Paese. Una simile strategia appare perdente soprattutto perché anacronistica: la guerra – con le sue esigenze di pianificazione – ha stabilizzato i contatti fra le diverse fisionomie produttive esistenti a livello nazionale. E in effetti la prima battaglia di cui si occupa l’Uri è strettamente connessa a un piano più generale: infatti, esigenza prioritaria è di avviare negoziati in merito alla riconversione produttiva che la fine della guerra impone. Come è noto, tali negoziati mettono fortemente in discussione i rilevanti interessi del mondo produttivo italiano maturati nel corso del conflitto. In questo scenario, la provincia di Napoli appare accomunata con i piani programmatici elaborati dalle associazioni degli industriali delle zone industrialmente più mature del Paese, soprattutto per quanto concerne la questione dell’orario di lavoro e delle paghe sindacali.

Tale scelta di richiamarsi a un quadro nazionale di rappresentanza non implica, però, la volontà di modellare meccanicamente la propria azione a quella delle aree più forti. Vari temi riconducibili al dualismo dell’economia italiana permangono. Tuttavia le rivendicazioni non sfociano in battaglie territoriali di stampo campanilistico. D’altronde, non potrebbe essere questo l’intento di Capuano, che per l’intero contesto nazionale è un’autorità di rilievo, non relegabile nell’ambito di un asmatico provincialismo. Più complessa è invece la frattura tra quanti auspicano una linea dura nei confronti delle rivendicazioni e quanti, invece, sostengono le ragioni di una linea morbida, che calmi le acque fin troppo agitate con una serie di concessioni, tanto che lasciandosi tentare dall’idea di una soluzione individualista, più volte rompono il fronte e colpiscono al cuore il potere contrattuale dell’Unione.

La coscienza di classe degli imprenditori

È dunque consequenziale che nelle discussioni iniziali risulti centrale l’elaborazione di una base programmatica poiché fin dall’inizio si riscontrano numerose difficoltà nell’aggregare il variegato universo imprenditoriale napoletano. Infatti, se l’adesione delle grandi ditte è scontata, risulta arduo ottenere l’iscrizione delle piccole e medie aziende, in particolare dopo che la guerra – lo si è visto in precedenza – ha grandemente divaricato gli interessi fra i vari comparti dell’apparato produttivo campano. L’intervento di Arturo Forges Davanzati, direttore della Società ferrovie secondarie meridionali, costituisce la fase culminante del dibattito. Il contributo si sofferma su un aspetto: la “coscienza di classe” degli imprenditori, tratto che dà solidità e prospettiva alla vita associativa. Nella sua visione di Forges Davanzati questo sforzo di elaborazione teorica è preliminare a ogni altra iniziativa in quanto è la condizione che può assicurare solidità e prospettiva all’Unione stessa. Appare significativo che, pur da un versante opposto, gli industriali attingono dai sindacati dei lavoratori, nello sforzo di cogliere il segreto della coesione di quelle organizzazioni. Tuttavia a Forges non sfugge che per gli industriali la definizione di un programma è operazione più complessa, poiché vi è un’eterogeneità di interessi da rappresentare.

Come si fa ad ottenere un’azione concorde ed energica da soci che rappresentano industrie diverse e che hanno per ciò anche interessi contrari? Da industriali di importanza assai varia e che di comune non hanno che la regione nella quale lavorano? Chi fra noi abbia seguito da vicino ciò che avviene nell’associazione italiana di industriali della medesima specie sa che, malgrado questa identità, la sola differenza di importanza o di prosperità determina contrasti di interessi (Asen, fondo Cenzato, F-2, verbale del consiglio direttivo del 5 agosto 918).

Egli però ritiene che la diversità – o anche la contrapposizione fra i vari gruppi imprenditoriali – non deve essere repressa, essendo un elemento fisiologico della vita associativa. In definitiva il consenso non è scontato, ma si ottiene con il coinvolgimento di tutti, sia di chi è iscritto, sia di chi ancora non lo è, mediante lo sviluppo di un dibattito ampio, sereno, scevro da pregiudizi e dalla difesa di interessi precostituiti. In questo modo è possibile formulare delle priorità, cui gli aderenti devono dare il proprio appoggio, anche se nell’immediato non coincide con il proprio interesse personale.

La questione programmatica ben riassume l’intento di costituire un organismo stabile e duraturo nel tempo, in stretto contatto con le vicende più generali dell’area napoletana. In questa prospettiva il 17 luglio 1917, oltre ad avere una valenza importante poiché rappresenta la nascita dell’associazionismo industriale partenopeo, è allo stesso tempo una data che a buon diritto fa parte del ricco e stratificato patrimonio culturale di Napoli in quanto segna l’ingresso della classe imprenditoriale, organizzata in un sodalizio di rappresentanza sindacale, nel più grande flusso che caratterizza la storia della città nel corso del ventesimo secolo.

La politicizzazione dell’Unione e le speranze andate deluse

Con l’intensificarsi delle lotte sindacali, i responsabili dell’Unione regionale industriale vanno maturando un atteggiamento decisamente autoritario. Non che fino a quel momento i singoli imprenditori siano estranei alle contese politiche: basti solo citare Teodoro Cutolo e Carlo Betocchi, due esponenti di primo piano dell’associazione, entrambi fautori a livello cittadino del progetto di costituire il partito economico,organizzato dagli amici di Nittie che vuole essere espressione degli apparati produttivi (Colapietra 1962, 80-88). Questa volta, però, l’impegno politico si iscrive nell’ambito di un organico e deliberato progetto, volto ad assicurare una nutrita rappresentanza in grado di farsi carico degli interessi del mondo industriale. Viene così definitivamente abbandonata l’apoliticità che dovrebbe risultare – secondo gli originari documenti statutari – una caratteristica eminente delle associazioni imprenditoriali. La spinta determinante, tuttavia, a che si persegua con decisione questa strada viene dalla Confindustria, di cui l’Unione è ormai a tutti gli effetti un’espressione territoriale10. Così all’indomani della marcia su Roma, l’Unione è favorevole alla svolta autoritaria che ormai è imminente nel Paese. A tal proposito, si è largamente rassicurati dal regime fascista che l’ordine sarà ripristinato e che gli industriali saranno messi in condizione di poter liberamente esercitare le loro funzioni di comando all’interno delle fabbriche. Ma problemi non tardano a delinearsi: da un canto, le richieste dell’Unione, in stretto accordo con la Camera di commercio di Napoli, restano in massima parte disattese; d’altro canto, i rapporti fra Unione e corporazioni fasciste locali diventano particolarmente accesi. I dirigenti dell’associazione degli industriali ritengono che i responsabili delle corporazioni siano privi dell’autorità morale in grado di ripristinare condizioni di vivibilità all’interno delle fabbriche.

In definitiva, in questa prima stagione del fascismo i rapporti con il nuovo ceto politico appaiono tutt’altro che agevoli, anche perché come è noto il regime, negando di fatto la legittimità di una questione meridionale e ancora di più di una questione napoletana, non è disponibile a considerare la specificità della condizione imprenditoriale, aspetto su cui invece gli industriali partenopei hanno in precedenza a lungo insistito e che ora invece vedono nella sostanza accantonato.

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  1. Per un esaustivo profilo biografico dello statista lucano si rimanda a Barbagallo 1984, mentre un’accurata analisi delle sue opere è in Demarco 2001 (cfr. i saggi Francesco Saverio Nitti meridionalista (1892-1910), pp. 1-42, e L’opera economica di Francesco Saverio Nitti, pp. 43-59). []
  2. Su Mauro (Trapani, 24 dicembre 1861-Napoli, 26 dicembre 1924) cfr. la ricostruzione biografica di Lombardi 2005, 149-151.  []
  3. “Il Presidente comunica che in questi giorni sono venuti qui i rappresentanti dell’industria del pomodoro, seriamente preoccupati perché il Governo mantiene il divieto di esportazione. Noi in questa sede siamo favorevoli all’esportazione massima che si possa fare e non possiamo fare voti perché si restringa l’esportazione. Appare verosimile che il Governo deve guardare anche al concetto politico della questione e quindi conservare i prodotti nazionali, ma è pur vero che il pomodoro, prodotto quest’anno e specialmente quello di lusso, non viene consumato nel Regno. Quindi impedire la esportazione del pomodoro è voler ridurre il patrimonio nazionale. Ho creduto quindi dare tutto il nostro aiuto a questa industria che è tanto benemerita della nostra Regione” (Accn, seduta del 13 novembre 1915).  []
  4. “Senza entrare in dettagli circa le questioni minori da risolvere a favore delle varie classi commerciali colpite nei loro interessi più vitali dagli avvenimenti incalzanti, ricorderemo che sempre la classe commerciale e industriale trovò nella nostra cooperazione il sostegno dei propri interessi, quale aveva il diritto di aspettarsi dalla sua schietta rappresentanza” (Accn, seduta del 29 gennaio 1917).  []
  5. “Di fronte al perturbamento portato all’economia nazionale dalla questione fiscale sarebbe imperdonabile colpa un silenzio da parte della Camera di commercio di fronte agli interessi che essa è chiamata a rappresentare. Non è quindi da parlarsi di critica al governo né di sentimento di ribellione per risparmiare le tasse, giacché il nostro commercio, la nostra industria, in tutti i sensi, con le riunioni, con la beneficenza ha concorso in prima linea nel momento gravissimo della guerra, anzi il commercio napoletano specialmente. È stato l’unico che ha contribuito largamente all’organizzazione civile; l’industria napoletana, che è stata gravemente colpita per mancata esportazione, per mancato traffico dal mare, per mancato traffico di affari in generale, riducendosi il traffico con un solo cliente, lo Stato, è stata la prima a muoversi per la organizzazione civile. Non si è quindi mossi da alcun sentimento di ostilità, ma semplicemente perché, rappresentante dell’economia del Paese, la Camera di commercio ha il dovere di fare presente l’attuale stato di cose al competente Ministero, perché l’industria ed il commercio di cui si vanno a preparare gli studi per lo sviluppo del dopo guerra, non vengano annientati nel momento in cui questi studi si preparano” (Accn, seduta del 17 novembre 1916).  []
  6. Maurizio Capuano, nato a Napoli nel 1865, si laureò in Legge e si occupò fin da giovanissimo dei primissimi impianti di illuminazione elettrica della città: “Ancora giovanissimo – egli non tecnico – fu propugnatore strenuo di un’iniziativa capace di assicurare l’illuminazione elettrica all’intera città di Napoli (concretatasi nella società generale per la Illuminazione di cui fu presidente e amministratore delegato) presso i gruppi finanziari svizzeri già impegnati a Napoli in imprese di pubblica utilità e presso i quali egli ebbe fin da allora considerazione e fiducia larghissima; e promotore in seguito della società meridionale di elettricità che doveva praticamente riassumere tutte le iniziative idroelettriche del Mezzogiorno” (Commemorazione fatta da Giuseppe Cenzato in occasione del decimo anniversario della morte di Maurizio Capuano, Napoli, 1935, 26-27). Il ruolo di preminenza che Capuano acquisì nell’ambito del settore elettrico fece sì che nell’arco della sua esistenza riuscisse ad accumulare un gran numero di cariche, diverse delle quali di grande rilevanza: “consigliere della Banca Commerciale Italiana, della società mineraria e metallurgica di Pertusola, della società Radio Italia, della société Franco-Swisse pour l’Industrie Electrique, della società per le saline eritree; possiamo ricordarlo presidente della associazione esercenti imprese elettriche in Roma, membro della giunta esecutiva della Confederazione generale dell’industria italiana, e fra i promotori della associazione fra le società per azioni; per nomina governativa consigliere di amministrazione del politecnico di Napoli, membro del consiglio superiore dell’economia nazionale; e durante la Grande Guerra, oltre che patrono delle opere assistenziali napoletane promosse e curate con senso d’alto civismo, membro della commissione centrale di mobilitazione industriale, della giunta tecnica per i combustibili, ed infine esperto della commissione economica alla conferenza della pace a Parigi” (Ibidem, 30).  []
  7. Asen, fondo Cenzato, Statuto dell’Unione regionale industriale del 1917. L’altro modello associativo verso cui durante la fase preliminare si guarda con interesse è il consorzio industriale ligure. []
  8. “Gli industriali di qui hanno deliberato di costituire una unione regionale e quindi vorrei che l’iniziativa seguisse quanto possibile ciò che si è fatto costà. Naturalmente questa unione dovrebbe fare capo alla nostra associazione di Roma per tutto quanto potrebbe essere programma comune” (Asen, fondo Cenzato, copialettere Capuano, lettera a Olivetti del 5 luglio 1917, f. 751). []
  9. Asen, fondo Cenzato, verbale del consiglio direttivo, seduta del 21 febbraio 1919. []
  10. La necessità di un maggiore impegno politico era prontamente messa in risalto con una circolare inviata dal segretario generale Grimaldi a tutte le ditte associate: “occorre rendersi conto che il momento attuale è di eccezionale gravità per le classi industriali e commerciali, e quindi quali che siano per essere le decisioni che si vogliono adottare, queste debbono dipendere da un sereno apprezzamento della posizione che va esaminata da tutta la classe senza distinzione di partiti” (Asen, Fondo Cenzato, F-2, circolare del 14 aprile 1921). []