Appunti e spunti per un dibattito su narrazione storica, trasmissione della memoria e media

Dario Petrosino

Si avverte da più parti, nell’ambito delle università, ma anche da parte degli appassionati del tema, la necessità di riflettere sul modo in cui la storia viene affrontata, sia nella sua esposizione, che nei contenuti trasmessi. Stiamo parlando di narrazione storica, intesa come tutte le forme che escono da quella canonica del saggio o del manuale e che si propongono attraverso altri canali, non sempre inediti, sia in forma scritta che audiovisiva; e parliamo anche di trasmissione della memoria, espressa attraverso fonti che vanno oltre quelle di origine puramente amministrativa o evenemenziale per assurgere al livello di testimonianza. Parlare di narrazione storica vuol dire anche parlare di un pubblico ideale al quale destinare un contenuto; pubblico che sempre più tende ad essere variegato e composito, e non formato esclusivamente da esperti del settore, estendendosi col passare degli anni l’interesse per la storia ad una fruizione di massa.

Espresso in estrema sintesi, questo è quello di cui vogliamo parlare in questo intervento. L’intento è di sviluppare un dibattito tra quanti, storici, da un lato, e registi, narratori e sceneggiatori dall’altro, fossero interessati a confrontarsi sul tema. Il presente contributo è solo una prima riflessione, frutto delle brevi esperienze personali di chi scrive, ma non scevro di alcune delle più recenti riflessioni in materia. Un lavoro che è solo all’inizio, bisognoso di ulteriori approfondimenti, e che si spera che nei prossimi mesi porti buoni frutti.

Per tenere il filo delle numerose questioni che questi temi pongono si farà riferimento ad alcuni momenti in cui di recente si è discusso di narrazione storica e media. Il primo, di particolare rilevanza, è la giornata di studi svoltasi il 21 maggio presso la Fondazione di scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna (da ora in avanti Convegno Fscire), a cui si fa ampio riferimento in queste pagine. In quell’occasione si sono confrontati storici, studiosi dei media e registi, tra i quali il vincitore del David di Donatello 2010, Giorgio Diritti, al quale il convegno era dedicato, e si è avuta la partecipazione telefonica di Mario Monicelli, che ha raccontato il suo rapporto con la storia nella propria produzione cinematografica. Ai temi del convegno si affiancano, marginalmente, altri due momenti in cui è emerso un confronto tra pubblico e produttori audiovisivi; registi, per la precisione. Si tratta di un dibattito col pubblico alla proiezione del documentario La febbre del fare, sulla storia del Comune di Bologna nel secondo dopoguerra, svoltasi nel mese di aprile 2010 presso il Cinema Lumiere di Bologna, che ha visto la presenza dei due registi, Michele Mellara e Alessandro Rossi; l’altro è il dibattito con gli studenti delle scuole, svoltosi a Viterbo il 28 maggio 2010 presso il Cinema Metropolitan con Giuseppe Tornatore. A questi si aggiunge, ancora, l’articolo a firma dello storico Alessandro Barbero (2010, 39), comparso sulle pagine di Repubblica il 30 maggio. Il tutto integrato da una breve ricerca su quanto pubblicato in rete di recente. Incontri e letture del tutto occasionali, dunque, e insufficienti a dare un quadro omogeneo ed esaustivo delle riflessioni in corso; bastante tuttavia per introdurre alcuni elementi di discussione che sembrano essere comuni a tutte le voci coinvolte.

Narrare cosa, come e a chi. Memoria e forme narrative

Mi si permetta, in via del tutto eccezionale, di aprire la riflessione con un ricordo personale. Quando, sul finire degli anni Ottanta il sottoscritto giunse in università, come matricola di Storia, fresco degli studi svolti in un liceo di provincia, ebbe subito modo di confrontarsi con un modo di concepire la disciplina molto diverso da quello che era abituato a conoscere. Fino allora, sulla base di quanto appreso nella propria formazione, per essere storici bastava scrivere di storia; erano pertanto tali gli eruditi che si occupavano di storia locale, ma lo era anche Indro Montanelli, con la sua monumentale opera sulla storia d’Italia, che con la sua rilegatura in similpelle figurava così bene nella libreria di mio padre. Tuttavia i miei colleghi di studi, di formazione più ortodossa e probabilmente reduci da letture più specialistiche, a sentir nominare Montanelli, storcevano il naso. “Non è uno storico – mi rispondevano – è un giornalista”. Al tempo facevo fatica a comprendere le ragioni di quel distinguo; in seguito, con la prosecuzione degli studi e con una migliore conoscenza degli strumenti tipici dello storico, avrei capito le ragioni di quella presa di distanza.

Montanelli è stato, senza dubbio, un grande giornalista e un eccellente divulgatore. E proprio questa differenza è, nel parere di chi scrive, il nodo del problema. Attraverso la questione di chi fa storia passa tutto un problema di metodologie, di fonti e di bibliografia, di scelte tematiche e narrative che non distinguono semplicemente lo storico “di professione” da quanti alla disciplina si avvicinano provenendo da altre esperienze lavorative o di studio. Siamo spesso poi davanti a due modi differenti di fare storia, in passato più volte incompatibili, adesso forse un po’ meno. Oggi, anche tra quanti si occupano di ricerca storica nelle università, è sempre più facile notare una certa attenzione a fonti documentarie che vanno ben oltre il classico materiale d’archivio, allargando la dimensione del “documento non scritto” a tutte le accezioni possibili, e affrontando anche le più tradizionali fonti non scritte, come le interviste orali, con un nuovo approccio metodologico, che tende a ricercare elementi del vivere quotidiano prima ancora che testimonianze di storia politica o istituzionale. Storia di chi ha vissuto in prima persona gli eventi e aspira a far conoscere la propria versione dei fatti; quindi storia dal basso, intesa come “comunicazione dal basso”, dando al termine quella funzione bidirezionale, così come espressa da Danilo Dolci (1988, 156, in Andreucci 2007). In altre parole è la voce dei testimoni che aspirano a rendere fatto storico la propria esperienza di vita.

Il rapporto tra memoria e narrazione storica implica anche un legame stretto tra i due elementi che coinvolge non solo gli aspetti contenutistici, ma anche la dimensione narrativa della comunicazione storica. Intervistare un deportato nei campi di concentramento, come è stato fatto alcuni anni fa dalla Shoah Visual History Foundation, ideata da Steven Spielberg, significa far emergere, a livello di fonte orale, delle notizie di vita privata che probabilmente non emergeranno mai dai documenti d’archivio e che, nonostante la loro apparente distanza dai fatti storici, sono pienamente funzionali a una migliore definizione degli stessi. Questo però pone anche delle questioni legate alla narrazione dei fatti, nonché all’interpretazione dei fatti narrati. L’intervista orale è filtrata dall’esperienza soggettiva del narratore, che è particolare perché chi narra è parte in causa negli accadimenti; l’intervistatore ha quindi il compito di gestire l’intervista, se non di indirizzarla; e il buon risultato di questo lavoro sta tutto nelle domande poste, ma anche nel saper creare per il testimone una strada da percorrere all’interno della sua narrazione. A questo si aggiungono ovviamente problemi classici come l’attendibilità della fonte; ma i punti appena esposti, quando si parla di narrazione storica, rimangono cruciali; e le problematiche che essi sviluppano sono state recentemente sollevate con forza dagli storici, che sono giunti a contestare apertamente la metodologia adoperata nelle interviste orali dalla Shoah Foundation, in una polemica che nel 1998 è giunta anche sulle pagine della stampa italiana (Farkas 1998; Berenbaum, Farkas 1998).

Nel mare dei media. La narrativa e la fiction come fonte storica

In realtà, se si vuole, quello della narrazione storica è un tema anche più complesso, che include al suo interno questioni legate alle modalità della comunicazione. La narrativa, ad esempio. Una delle altre cose che, qualche anno fa, faceva storcere il naso agli storici era l’affermazione secondo cui la storia era narrazione, come se il riportare il fatto storico ad elementi narrativi producesse una forma di affabulazione tale da costituire una sorta di diminutio nei confronti della qualità della ricerca, che in questo modo finiva per mettere in secondo piano gli aspetti analitici e documentali degli studi. Anche questo, a giudicare dall’attenzione posta oggi verso la letteratura da parte degli storici (attenzione, tra l’altro, debitamente ricambiata da parte di narratori, poeti e linguisti nei confronti della storia) sembra un problema sorpassato. Rimane tuttavia da parte degli storici l’onere di confrontarsi con queste nuove forme della narrazione, dalle più classiche a quelle offerte dai nuovi media. Tra le prime indichiamo subito le più tradizionali: il romanzo storico, la narrativa e la poesia. In tutti questi casi il fatto storico si interseca con l’invenzione letteraria, il dato oggettivo si mescola alla soggettività dello scrittore. Eppure neanche i saggi di storia sono esenti da una soggettività, seppur minima, dettata dalla formazione dello studioso, sia per quanto riguarda le proprie esperienze di studio che i modelli interpretativi. Ne consegue che concetti come l’“obiettività”, l’“oggettività” o la “verità storica” possono dirsi effettivamente raggiunti solo davanti a dati quantitativi, come quelli statistici, che, se correttamente riportati, assurgono a dato incontestabile. Ben più difficile diventa seguire questi principi quando nella narrazione storica interviene l’interpretazione dello studioso che, per quanto possa avere davanti a sé obiettività, oggettività e verità storica come elementi fondanti del proprio lavoro, non potrà astenersi dal formulare una propria, soggettiva, chiave di lettura. Che non sarà necessariamente la stessa di altri storici, ugualmente obiettivi e soggettivi.

Alle nuove fonti di narrazione storica di tipo tradizionale si aggiungono, ad articolare ulteriormente il quadro, quelle provenienti dagli strumenti informatici: Internet, i siti di storia online, i blog. A questo punto si apre un universo di nuove opportunità comunicative, sia a livello di narrazione che di ricerca. Un ambiente affascinante e, forse, incontrollabile, ma talmente innovativo da rendersi capace di trasformare radicalmente le modalità della narrazione storica e della ricerca.

Internet, in primo luogo. Attraverso il Web le possibilità di accesso a un documento storico sono aumentate in maniera esponenziale. Con le possibilità di accesso è aumentata l’offerta: a fonti e bibliografia non si accede più solo attraverso i luoghi deputati allo studio e alla ricerca, per quanto in forma virtuale, ma anche attraverso luoghi creati da amatori, come i siti personali, o i blog; o addirittura creati in forma spontaneistica, come i gruppi di discussione sui social network. Il problema, a questo punto, non è più l’accessibilità della fonte, ma la sua attendibilità. Come è noto, quantità e qualità non sono andate di pari passo; ma, se si vuole, un navigatore esperto e con un minimo di nozioni di base è in grado di distinguere un sito attendibile da uno “farlocco”: per una prima impressione, oltre agli argomenti trattati, basta guardare il “chi siamo”, i link di riferimento e perfino i banner pubblicitari; è un buon indicatore, anche se non determinante, il numero delle visite: a meno che non sia linkato da Beppe Grillo o da Fiorello, anche in un sito di storia una maggiore frequentazione dovrebbe essere sinonimo di un maggiore apprezzamento da parte dell’utenza.

Forse a qualcuno queste considerazioni sembreranno ovvietà. Eppure è proprio in questo il cuore del problema, nel momento in cui si stabilisce un rapporto tra gli storici “di professione”, di cui parlavamo in apertura, e coloro, una platea sempre più vasta, che si avvicinano alla storia provenendo da altri contesti. È un problema duplice, che vede, da un lato, l’ampliamento di un pubblico non specialistico, dall’altro, la maggior disponibilità di materiale che, anche quando può ritenersi specialistico, è difficile da valutare nella sua attendibilità storica. Non a caso, affrontare la storia nella letteratura, nelle arti visive e in particolare negli audiovisivi, di cui parleremo tra breve, significa per lo storico confrontarsi con una fonte connotata da una forte soggettività. Non che i documenti amministrativi siano oggettivi per definizione; tuttavia questi, almeno quando sono connotati da aspetti più legati alle mansioni proprie dell’ufficio da cui provengono (quelli che definiamo riduttivamente “documenti asettici”) sono forse soggetti a minori personalizzazioni e ad alterazioni dei fatti.

La narrazione per immagini

Quando poi andiamo a parlare di arti visive (pittura, scultura, fotografia, graphic novel…) e, ancor più, di immagini in movimento, il fattore legato alla soggettività dell’autore finisce per porsi con maggiore evidenza.

Le rappresentazioni per immagini hanno la capacità, negata ai testi scritti, di cristallizzare una narrazione in una forma stereotipa unendo a questa un’ulteriore capacità, quella di decontestualizzare il rappresentato. Diretta conseguenza di ciò è il forte potenziale mistificatorio nei confronti della realtà che l’immagine può offrire a quanti non l’analizzino con appropriati strumenti critici. I casi in merito si sprecano: ma basti giusto pensare alla pittura di corte, alla funzione politica della monumentalistica, ai fotomontaggi, eccetera.

Nella produzione audiovisiva il rischio di una alterazione dei fatti rappresentati raggiunge un grado forse maggiore. Ai problemi esposti già per le arti visive si aggiungono quelli legati a un maggiore realismo del rappresentato, ma si aggiungono anche aspetti tecnici tipici di questa produzione, come le inquadrature e il montaggio, che sono state spesso deliberatamente usate per fornire una specifica chiave di lettura, quando non una vera e propria falsificazione dei fatti storici.

Per capire bene cosa si intende basta andare a leggere il dibattito sulla correttezza dell’informazione politica nella programmazione Rai (Girotto 2008), che a partire dagli anni Cinquanta si svolge con toni più o meno aspri, specie da parte della Sinistra, che lamentava un monopolio e una strumentalizzazione dell’informazione a fini politici da parte della Dc. Sul fatto che questo monopolio ci fosse erano un po’ tutti d’accordo; lo erano tutti un po’ meno circa le sue finalità ultime, se si considera l’articolo, dal titolo Il teleschermo avvelenato che il già citato Indro Montanelli scrisse, nel 1964, sulle pagine del “Corriere della Sera”. Nel suo corsivo Montanelli attacca l’allora direttore generale della Rai, Ettore Bernabei, accusandolo indirettamente, per le sue posizioni fanfaniane, di essere “catto-comunista” e di proporre, attraverso le immagini televisive, una propaganda filo-Pci. Non è l’unico articolo in quegli anni che affronti il problema dell’obiettività dell’informazione; ma il tono è così veemente, e l’attacco nei confronti della sinistra così deliberato che l’intervento di Montanelli finisce per provocare un vespaio: prima fra tutte, un’interpellanza parlamentare, pronunciata da Togliatti; poi, un accesissimo dibattito sulla stampa, in cui spicca, per la sua salacità, la risposta data da Eugenio Scalfari dalle pagine dell’Espresso.

Senza entrare nel merito circa la condivisibilità delle parole di Montanelli, vale la pena di citare un breve passo del suo articolo, per la chiarezza con cui mette in evidenza le problematiche dell’informazione nelle immagini in movimento, che sono le stesse con le quali devono confrontarsi gli storici:

Potremmo continuare all’infinito. Ma non riusciremmo mai a dare la misura di un sabotaggio che ricorre alle malizie più sottili e impalpabili. Fate caso, per esempio, al gioco delle luci e delle inquadrature. Quando è in scena Togliatti vien fuori – non si sa come – un imperatore romano. Quando è di scena Scelba, un questurino. L’altra sera insisterono a riprodurlo di spalle per mostrare la sua collottola corta e tozza. Il primo piano di Malagodi viene inframezzato da quello di un’ascoltatrice: una signora elegante, assunta a simbolo della borghesia reazionaria. Durante la ripresa d’una seduta parlamentare, voi non vedrete mai un deputato comunista che sonnecchia e si distrae. Ma se un socialdemocratico fa una smorfia o si soffia il naso, è visto e preso dal teleobiettivo (Montanelli 1964).

Se si pensa che le immagini citate da Montanelli sono quelle, provenienti dalle Teche Rai, alle quali attingono ampiamente i documentaristi storici, si può ben capire come, davanti a tali materiali, l’intenzione di narrare i fatti “così come sono”, prendendoli per oggettivi, finisce per essere un obiettivo relegato nel regno dei buoni propositi.

L’occhio dello storico e l’occhio del regista

Eppure i documentaristi, come i registi di fiction, quando trattano di tematiche storiche, finiscono inevitabilmente per confrontarsi, volenti o nolenti, con la questione dell’obiettività. Tuttavia lo fanno con uno spirito generalmente diverso da quello degli storici. La tendenza rilevata nell’ascolto di alcuni interventi pubblici è quella di rendere oggettiva la propria esperienza personale, la propria lettura delle cose. Una sorta di “occhio del regista” che diventa la lente attraverso la quale guardare la realtà narrata. L’impressione nasce dalle risposte date dagli stessi registi posti di fronte alle domande del pubblico. Alessandro Rossi, che, come dicevamo, ha prodotto con Michele Mellara La febbre del fare, a una domanda sul modo in cui si fossero rapportati con la scelta delle immagini nella rappresentazione dei protagonisti dell’epoca, aveva precisato che nel loro lavoro di selezione delle immagini si era scelto di rappresentare la realtà così com’è. Con questo voleva dire che, in fase di montaggio, non si era intervenuto in maniera preponderante sul materiale selezionato. Al che interveniva Mellara a integrare quanto detto da Rossi, sottolineando, comunque, che quello della imparzialità delle immagini e della loro scelta è un problema concreto. Vale a dire che, dietro la selezione di un’immagine, piuttosto che un’altra, c’è sempre l’“occhio del regista” che offre la propria chiave di lettura. Nel caso in esame il prodotto finale, il documentario dei due registi, dà con tutta evidenza una lettura positiva delle vicende. I sindaci sono sempre circondati da bambini, da donne festanti, da lavoratori sereni, e nella loro attività amministrativa, sono costantemente pervasi da quella “febbre del fare”, motore dello sviluppo della città negli anni Sessanta e base per la nascita di quella città a misura d’uomo che ha reso Bologna un modello e che ha favorito un clima di serena convivenza civile tra le diverse parti sociali; clima che ha cominciato a deteriorarsi negli anni Settanta fino alla definitiva crisi del 1977. Ebbene, questa è una chiave di lettura! Quindi il “così com’è” di Rossi va forse inteso come la scelta di fare propria la chiave di lettura offerta dalla documentazione video ritrovata negli archivi. Che ovviamente era già provvista di una personale lettura degli eventi.

Una posizione non molto diversa è stata assunta da Mario Monicelli, nel Convegno Fscire, quando, descrivendo il lavoro svolto per opere come La grande guerra, sulla Prima guerra mondiale, e Vogliamo i colonnelli, parodia del golpe Borghese, ha precisato che, insieme al cast con cui produceva i suoi film, egli si preoccupava di narrare ciò che vedeva attraverso la lente della satira di costume. Anche qui c’è l’occhio del regista. Tuttavia, proprio la forza di influire sull’immaginario posseduta dal cinema crea spesso non poche perplessità tra quanti si sono avvicinati alla narrazione storica in qualità di studiosi o di testimoni orali. Talvolta il risultato finale ha portato ad aspre polemiche, come nel caso, già citato, della Shoah Foundation, ma non mancano casi in cui all’occhio del regista si è affiancato l’occhio dello storico, proponendo un prodotto che, pur salvaguardando la caratteristica narrativa di una fiction, riusciva a proporre una sceneggiatura che non facesse a cazzotti con il reale svolgimento dei fatti storici.

Si possono portare ad esempio due casi recenti in cui la narrazione storica ha portato a risultati molto diversi e ad opposte reazioni del pubblico, almeno per quanto riguarda la corrispondenza tra narrazione e fatti avvenuti. Si tratta del film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà, e del contestato film di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna. Due film molto diversi, dicevamo, per le differenti finalità narrative, per quanto entrambi ambientati in due scenari della lotta partigiana: a Monte Sole, presso Marzabotto, quello di Diritti, a Sant’Anna di Stazzema, quello di Lee. Tuttavia, mentre Diritti ha svolto un vero e proprio lavoro di ricerca, raccogliendo le interviste ai sopravvissuti, affrontando un vero e proprio percorso nella memoria dei testimoni, facendo poi confluire tutto questo nella sceneggiatura del film, ben diverso, invece, è stato il percorso di Lee. Partito da un romanzo ambientato nei luoghi dell’eccidio di Sant’Anna, quest’ultimo è solo il contesto nel quale si svolge un racconto sul razzismo contro gli afroamericani. Tuttavia, quello che ha mandato su tutte le furie i testimoni della vicenda e i partigiani, tra questi ultimi Giorgio Bocca, è stata l’alterazione dei fatti storici, che attribuivano l’eccidio al tradimento di un partigiano. Solo con molta fatica, e ricorrendo al sostegno del presidente Napolitano, Spike Lee è riuscito a spiegare che pur sempre di fiction si trattava, e che non era sua intenzione stravolgere la verità storica. Quasi a dire: non si scherza con la Memoria (Mereghetti 2008; Morgoglione 2008; Bocca 2008; Lee 2008; Napolitano… 2008)1.

Non stupisce quindi che i registi si smarchino dalla questione dell’attendibilità storica della loro produzione, prendendo le distanze dal contesto storico raffigurato. È quanto ha fatto Giuseppe Tornatore davanti ai liceali di Viterbo a proposito di Baarìa e Nuovo Cinema Paradiso. Baarìa è, nelle parole del regista, un racconto incentrato sul recupero delle tradizioni popolari, mentre Nuovo Cinema Paradiso si incentra soprattutto sul tema della “nostalgia”, che è anche il titolo di uno dei brani della colonna sonora. Tuttavia, se si considera che la nostalgia è una particolare dimensione della memoria e che le tradizioni popolari sono antropologia, di cosa stiamo poi parlando, in definitiva, se non di storia?

Quale destinatario?

La questione si pone in tutta la sua pienezza se ci si interroga su quali siano le aspettative del pubblico quando si accinge a vedere una produzione audiovisiva a tematica storica. Quale sia il destinatario e cosa cerchi è l’interrogativo posto di recente da Alessandro Barbero sulle pagine di Repubblica. Poiché, come questi afferma, il grande pubblico è sempre più attratto dalla storia, bisogna anche tener conto delle capacità evocativa del cinema e dell’equivoco che si crea quando viene presentato al pubblico un film storico che non si basa su fatti realmente avvenuti:

Preoccupazione di pochi, dirà qualcuno. Non è vero: il pubblico questo si aspetta. Chi esce dalla visione d’un kolossal storico, se gli si spiega che la realtà era tutta diversa, ci rimane malissimo, perché a lui è stato fatto credere che quella era storia. Va da sé che non si tratta di scandalizzarsi per il dettaglio inesatto, la forma della spada o il modo di cavalcare, e del resto proprio questi particolari nella fiction sono curatissimi […]. La mistificazione nasce quando si stravolge, o si inventa di sana pianta il significato o il messaggio d’ una storia, e si pretende di farlo passare per la realtà storica. Dovrebbe insospettirci già il fatto che questo capita soprattutto quando si tratta di politica (Barbero 2010).

Le parole di Barbero sintetizzano in modo chiaro quanto discusso in queste pagine. In conclusione, parlare di narrazione storica vuol dire oggi confrontarci non solo con nuove forme narrative, ma anche con la moderna tecnologia che, grazie essenzialmente all’avvento di Internet, ha completamente rivoluzionato, nell’arco dell’ultimo ventennio, le dinamiche della comunicazione storica. A nuove forme della narrazione e a nuove tecnologie si affianca un nuovo pubblico sempre più desideroso ed esigente, che non solo richiede una più ricca fruizione della disciplina, ma ne modifica profondamente, con l’utilizzo, le stesse modalità comunicative, incidendo in modo decisivo anche sugli aspetti contenutistici e sull’offerta a livello di fonti e di bibliografia. Per fare un chiaro esempio di cosa si intende basterà prendere ad esempio la stessa genesi di questo articolo: la ricerca della storiografia e delle fonti qui citate avrebbe richiesto, in altre epoche, una certosina ricerca tra archivi, biblioteche ed emeroteche. Il tempo necessario avrebbe oscillato, a seconda della fortuna dello studioso, tra i pochi giorni e le poche settimane. Con i mezzi oggi a disposizione è bastata una ricerca su Google, condotta con un minimo di metodo e con l’uso di determinate parole chiave; tempo impiegato: una manciata di ore. Forse questo non basterà a dare un carattere esaustivo alle problematiche esposte, e non salverà questo intervento da un certo carattere di estemporaneità; tuttavia la sua stesura, volendo, si propone come una messa alla prova delle possibilità offerte oggi alla ricerca storica dai nuovi mezzi di comunicazione.

Bibliografia

Andreucci G.

2007                Storia della comunicazione “dal basso”. Le tv di strada, tra domini della trasmissione e poteri della creatività, “Storicamente”, 3.

http://www.storicamente.org/03andreucci.htm

Barbero A.

2010                Ma la Storia è tutta un’ altra cosa, in “La Repubblica”, 30 maggio, p. 39

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/05/30/ma-la-storia-tutta-un-altra-cosa.html

Berenbaum M., Farkas A.

1998                     L’archivio di Spielberg, in “Corriere della Sera”, 27 aprile, p. 33.

http://archiviostorico.corriere.it/1998/aprile/27/archivio_Spielberg_co_0_9804271223.shtml

Bocca G.

2008                Caro Spike Lee ecco perché io partigiano sparavo e fuggivo, in “La Repubblica”, 1° ottobre, p. 1.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/10/01/caro-spike-lee-ecco-perche-io-partigiano.html

Dolci D.

1988                Dal trasmettere al comunicare, Milano, Sonda.

Farkas A.

1998                Attento Spielberg, la Shoah non è fiction, in “Corriere della Sera”, 8 aprile, p. 33.

http://archiviostorico.corriere.it/1998/aprile/08/ATTENTO_SPIELBERG_SHOAH_NON_FICTION_co_0_9804082634.shtml

Girotto E.

2008                Una “Settimana” in famiglia. Famiglia, società, politica e ruoli di genere nell’Italia degli anni Cinquanta attraverso i documenti audio-visivi.

http://www.sissco.it/fileadmin/user_upload/Attivita/Convegni/StorieInCorsoIII/Girotto_Elisabetta.pdf

Lee S.

2008                Spike Lee. Caro Bocca io non sono suo nemico, in “La Repubblica”, 1° ottobre, p. 1.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/10/02/spike-lee-caro-bocca-io-non-sono.html

Mereghetti P.

2008                Miracolo a Sant’Anna. Spike Lee, quanti errori. Come perdere la bussola al cospetto della Storia, in “Corriere della Sera”, 3 ottobre.

http://cinema-tv.corriere.it/cinema/08_ottobre_03/miracolo_anna_mereghetti_critica_d907931e-911b-11dd-9f28-00144f02aabc.shtml

Montanelli I.

1964                Il teleschermo avvelenato, in “Corriere della Sera”, 6 maggio, p. 3.

Morgoglione C.

2008                Spike Lee: “Per il mio film non chiedo scusa ai partigian””, in “La Repubblica.it”, 29 settembre.

http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/stazzema-miracolo/stazzema-miracolo.html?ref=search>

s. n.

2008                Napolitano sul film di Spike Lee. “è un omaggio alla Resistenza”, in “La Repubblica.it”, 3 ottobre.

http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/napolitano-polemica/napolitano-polemica.html?ref=search

Sitografia

Master in Comunicazione Storica, Università di Bologna

http://www.mastercomunicazionestorica.it

“Il Master in Comunicazione storica realizzato dall’Università di Bologna si propone di formare Specialisti in Comunicazione storica il cui titolo universitario è legalmente riconosciuto. Si tratta della formazione professionale di una figura attualmente non presente nel panorama aziendale e nei quadri degli enti pubblici territoriali” (dalla pagina di presentazione del sito).

Si veda anche la Presentazione, che è un vero e proprio documento programmatico:

Si veda anche l’intevista a Mirco Dondi, direttore del Master, presentata su YouTube: Video di presentazione Master in Comunicazione Storica.

http://www.youtube.com/comunicazionestorica#p/u/2/gc7Qh5oRPS4

Filmografia

I dati di questa filmografia, con l’eccezione del documentario La febbre del fare, sono desunti dal sito www.mymovies.it

Baarìa. Regia di Giuseppe Tornatore. Con Francesco Scianna, Margareth Madè, Nicole Grimaudo, Angela Molina, Lina Sastri, colore, durata 150 min., Italia, Francia 2009.

La febbre del fare Bologna 1945-80. Regia di Michele Mellara, Alessandro Rossi. Con Area, Luca Dozza, Mario Giovannini, Adriana Lodi, Guido Fanti, Giuseppe Campos Venuti, Luigi Pedrazzi, Virginangelo Marabini, Fulvio Alberto Medini, William Michelini, Maria Rosa Loreti, Anna Nanni, Walter Vitali, Enrico Boselli; colore e b/n, durata: 83 min., Italia 2010.

 

La grande guerra Regia di Mario Monicelli. Con Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Bernard Blier, Folco Lulli, Silvana Mangano; b/n, durata 140 min., Italia 1959.

 

Miracolo a Sant’Anna. Regia di Spike Lee. Con Derek Luke, Michael Ealy, Laz Alonso, Omar Benson Miller, Matteo Sciabordi, John Leguizamo. Titolo originale: Miracle at St. Anna, colore, durata 160 min., Usa 2008.

 

Nuovo Cinema Paradiso. Regia di Giuseppe Tornatore. Con Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Marco Leonardi, Jacques Perrin, Agnese Nano, colore, durata 157 (132) min., Italia 1988.

L’uomo che verrà. Regia di Giorgio Diritti. Con Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Stefano Bicocchi, colore, durata 117 min., Italia 2009.

Vogliamo i colonnelli. Regia di Mario Monicelli. Con Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete, Giuseppe Maffioli, François Périer,colore, durata 100 min., Italia 1973.

  1. Le informazioni riportate provengono tutte da una serie di articoli pubblicati da “Repubblica” e dal “Corriere” tra fine settembre e ottobre 2008, per i quali si rinvia alla bibliografia.  []