Gaetano Greco
Qualche settimana fa si è tenuta una prima riunione della commissione composta dai docenti universitari toscani, a vario titolo coinvolti nel nuovo sistema di formazione degli insegnanti delle Scuole secondarie. Molti sono stati i temi sul tavolo della discussione, molti i dubbi sollevati dalle norme del Decreto 10 settembre 2010, n. 249, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 gennaio 2011, molti i timori per le difficoltà della sua attuazione e per la carenza di sufficienti risorse umane, logistiche e finanziarie, molte le proposte fortemente condizionate dalla volontà positiva, espressa a chiare lettere e concordemente dai loro Magnifici rettori, di operare in un quadro di reciproca collaborazione a livello regionale: insomma, una discussione franca e aperta, come non sempre capita. A un certo punto, però, è intervenuto un giovane collega per rivolgermi un’aspra accusa: quando affronto questo tema, tengo presente la passata esperienza delle Ssis! Al che ho replicato: la memoria del passato non è uno zaino carico di pietroni, che intralcia e affatica il nostro cammino, bensì è un patrimonio di buoni mattoni, da impiegare utilmente per costruire il futuro. Ripensavo a questo episodio (e a tanti altri simili avvenuti in questi due ultimi anni), mentre mi accingevo a scrivere queste note, che terranno conto anche del Decreto ministeriale del 4 aprile 2011 n. 139 e della Nota del Miur del successivo 20 aprile1, con cui questo decreto è stato inviato ai Rettori e ai Direttori Amministrativi delle nostre Università in attesa della sua registrazione presso la Corte dei Conti. Ripensavo e mi rinsaldavo nell’opinione che, anche in una situazione di marcata discontinuità fra un assetto istituzionale già smantellato e uno laboriosamente progettato e in via di realizzazione, la riflessione critica sul passato (come appunto è la “memoria”, quando voglia uscire dalle secche dell’emotività e dell’irrazionalità) può aiutarci a costruire il futuro (possibilmente un futuro migliore), grazie anche, per esempio, all’analisi comparativa dei “sistemi” complessivi sottesi al vecchio e al nuovo sistema di formazione professionale dei docenti. Con due premesse. In primo luogo, non dimentichiamo che sullo sfondo permane con tutti i suoi disastrosi effetti, tuttora in essere, un passato nient’affatto lontano, nel quale sin dalla costituzione del nostro Stato unitario il mito del “concorso” nascondeva appena una realtà magmatica di percorsi nient’affatto virtuosi (precariato, infornate “ope legis”, trasferimenti e promozioni senza vaglio da un livello all’altro o da una classe all’altra, prevalenza del dato anagrafico sul merito ecc.). Sullo scorcio del secolo scorso, l’istituzione delle Ssis da parte del ministro Luigi Berlinguer2 affrontò finalmente il problema della formazione professionale del nuovo corpo insegnante tramite percorsi specifici, a distanza di quasi novant’anni dal fallimento di un esperimento analogo, compiuto nell’“Italietta” giolittiana: un esperimento travolto dalla Prima guerra mondiale, ma anche da precise scelte degli intellettuali di punta del nostro paese. Tuttavia, sia nella sua formulazione, sia per alcuni atti che l’accompagnarono, la riforma berlingueriana ha mostrato di avere il fiato corto, di non riuscire ad imprimere una svolta virtuosa, dando vita ad una serie di problemi e di conflitti di ardua, se non impossibile soluzione. Questa constatazione introduce la seconda premessa. Vuoi il Dm 249, vuoi – e forse con maggiore “densità”, se possibile – il Dm 139 sono facilmente criticabili per i loro vistosi vuoti come per talune prescrizioni prive, a colpo d’occhio, di senso logico3. Tuttavia, pur concordando con molte critiche, per senso di equità non posso dimenticare che nell’anno accademico 1999-2000 il primo corso delle Ssis partì con un forte ritardo, ad anno accademico inoltrato, in un clima d’improvvisazione e in un contesto normativo carente e confuso, senza neppure che fosse stato specificato con chiarezza l’esito dei nostri percorsi, a partire dalla forma di svolgimento dell’esame di Stato con valore abilitante. Quest’ultimo fu definito soltanto con il Dm 4 giugno 2001 n. 268, cioè ben dopo la conclusione delle attività didattiche complessive del I Ciclo e a metà circa del percorso del II Ciclo.
Cercherò, allora, di esaminare quei problemi e quei conflitti alla luce della nuova normativa, pur essendo consapevole che per un ex-ufficiale garibaldino non è affatto scontato riuscire a valutare lucidamente la struttura… dell’esercito piemontese. Va fatta, però, una premessa su una caratteristica di fondo, che accomuna il nuovo che avanza ed il passato prossimo già seppellito: per la scelta dei futuri insegnanti allora, come ora, è stato adottato un sistema misto, che prevede una prima selezione concorsuale dopo il conseguimento della Laurea triennale, poi un periodo di formazione fra Università e Scuola, ed infine un esame di Stato con valore abilitante. In altri termini, né allora né ora è stato adottato un curriculum professionalizzante completo, che iniziasse già dall’accesso all’Università: si è preferito lasciare in piedi un segmento iniziale di formazione culturale aperta ad altri possibili esiti, rinviando l’opzione professionale ad una maggiore età, probabilmente ritenuta garanzia di maturità e consapevolezza (chissà perché). In realtà, però, il nuovo sistema, sia riducendo – almeno nella previsione a regime – la durata di questo segmento “generico” al solo triennio, sia ampliando i requisiti di accesso alla Laurea magistrale per l’insegnamento, ha reso sempre più sfumata la separazione fra il percorso formativo generale e quello professionalizzante. I prossimi anni insegneranno ai nostri allievi che la scelta della carriera di docente sarà coronata dal successo solo se sarà compiuta consapevolmente sin dall’ingresso all’Università: in caso contrario, dovendo recuperare esami non sostenuti e conoscenze disciplinari trascurate (dai classici della letteratura italiana ai trattati di filosofia, secondo la Classe d’insegnamento), il percorso si protrarrà nel tempo e le spese cresceranno, mentre scemeranno le energie e le motivazioni necessarie per affrontare le prove.
Iniziando, poi, il nostro discorso proprio dalla sua naturale conclusione, va detto che nella vecchia come nella nuova normativa il tema della formazione professionale era ed è sganciato da quello, pur inevitabilmente connesso, del reclutamento: non si capiva bene allora, né si sa con certezza ora, quale sarebbe stato, quale sarà nel prossimo futuro, il destino dei laureati abilitati dopo un percorso formativo di tipo universitario e certo non “leggero” a causa del carico di lavoro richiesto. Ma, una dozzina d’anni fa, a quell’incertezza Berlinguer accompagnò un grave errore, sicuramente sotto la pressione di componenti del mondo della Scuola: mentre ancora si preparava la novella Ssis, fece partire un “concorsone”, finalizzato non solo a coprire posti d’organico, ma anche a concedere l’abilitazione professionale senza alcun limite numerico prefissato. Puntualmente questo concorso portò a ingrossare i ranghi degli aspiranti docenti abilitati, seppur in modo quanto meno casuale, cioè in relazione alla maggiore o minore severità delle singole sottocommissioni delle singole commissioni regionali delle singole Classi d’insegnamento… Anzi, ritenendo forse insufficiente questo danno inferto al nuovo sistema delle Ssis, negli anni successivi seguirono corsi abilitanti speciali per categorie di precari individuate con criteri quanto meno arbitrari, mentre nel frattempo l’accesso reale al posto di lavoro passava attraverso il marchingegno, anch’esso fonte di conflitti, delle “graduatorie”. Che accadrà ora? Fortunatamente è stato evitato, e si spera che si eviti in futuro, il rischio di far partire un nuovo sistema dichiaratamente a numero chiuso, ma gonfiato allo stesso tempo dal “numero aperto”, o soprannumero, degli appartenenti a categorie ritenute meritevoli di protezione da parte delle rispettive corporazioni: dai precari non abilitati, difesi dai sindacati, ai dottori e assegnisti di ricerca, sostenuti da quegli stessi docenti universitari che li hanno privati per lungo tempo di un reale sbocco lavorativo nelle Università con una politica accademica aliena da qualsiasi progetto condiviso di programmazione scientifica e didattica. Ma l’assenza di concrete prospettive di assunzione nelle scuole tramite concorsi riservati ai soli abilitati (a tutti gli abilitati, di qualsivoglia provenienza) fa quasi rimpiangere il complesso meccanismo delle graduatorie, utili, se non altro, per evitare il rischio di incarichi su chiamata diretta in base a meriti familiari, politici, sindacali, etnici ed erotici. A mio parere, un segnale positivo e forte sulla messa in moto di un meccanismo destinato, almeno negli auspici, a una certa continuità nel tempo può venire solo dall’attivazione concreta del doppio canale delle assunzioni in ruolo nei posti d’organico vacanti, garantendo una periodicità almeno biennale: da una parte, per il 50 % il canale lento del ricorso alle graduatorie; dall’altra, per il restante 50 % il canale veloce del concorso per gli abilitati, indipendentemente dall’anzianità accumulata nel servizio precario.
Procedendo a marcia indietro, il secondo nodo da affrontare è costituito dai modelli istituzionali: quello adottato una dozzina d’anni or sono e quello attuale. Fu scelta, allora, la strada dell’istituzione di “Scuole” a carattere regionale, sostanzialmente sganciate dalla vita accademica (come anche da quella scolastica), con gestione autonoma anche se formalmente incardinata in un singolo Ateneo in qualità di sede amministrativa regionale. Sappiamo bene com’è andata la faccenda. In alcune regioni sono state costituite veramente scuole regionali, mentre in altre ci si è limitati a dividersi le risorse ministeriali pro-quota; gli ordinamenti didattici non sono stati affatto omogenei (per esempio, in alcune regioni nell’Indirizzo Linguistico-Letterario i candidati potevano accedere per l’intero “cannocchiale” delle quattro Classi di lettere, mentre in altre regioni si poteva concorrere solo per una Classe per volta); i concorsi d’accesso non sempre sono stati centralizzati, con il rischio di poca trasparenza nelle procedure disperse sul territorio. Queste e altre differenze hanno inciso sicuramente sulla diversa qualità delle Scuole (e, al loro interno, delle Classi, talora accese nelle varie sedi, talora in una sola), ma soprattutto hanno contribuito a quel pericoloso scollamento fra le Ssis e le Università, cui accennavo prima. Gli Atenei, ma più concretamente – e dannosamente – le Facoltà hanno considerato le Ssis come un corpo estraneo, teso a riprodurre i suoi appartenenti con il ricorso a pratiche selettive illegittime e clientelari (tradizione peraltro radicatasi in tutta l’Università proprio negli stessi anni con l’esplosione del fenomeno del precariato dei contrattisti e dei borsisti a vario titolo!), come nel caso degli “assistenti” part-time reclutati nelle Scuole secondarie (così sono stati giudicati troppo spesso i Supervisori del Tirocinio). Secondo il nuovo Regolamento, la struttura istituzionale responsabile del nuovo sistema dovrebbero essere proprio le Facoltà, peraltro già in via di estinzione e destinate a essere sostituite dai Dipartimenti o dalle nuove “Scuole” (o altre figure simili), che sarebbero sedi amministrative dei nuovi corsi. Tuttavia, la realtà ha una sua pietrosa rigidità: nelle Facoltà scientifiche, tecnologiche e persino umanistico-letterarie sono insufficienti, o persino assenti i docenti di Pedagogia; è prevedibile la necessità di dar vita ad una molteplicità di corsi formativi con pochi allievi; si avverte già la carenza di docenti anche delle didattiche disciplinari. Tutto ciò renderà inevitabile costruire l’offerta formativa consorziando strutture accademiche di diverse Facoltà e persino di diversi Atenei: come peraltro già la stessa legge prevede, pur dopo aver dannato la memoria delle defunte Ssis. Del resto, questi consorzi sono dettati da un altro aspetto della stessa riforma: la programmazione degli accessi alla formazione professionale su base regionale, con l’intervento in tutta una serie di passaggi dell’Ufficio Scolastico Regionale, che – come appare probabile – svolgerà funzioni di controllo più o meno diretto su tutta questa “macchina”, formalmente ancora di pertinenza del mondo accademico.
A questo punto, proprio facendo tesoro della passata esperienza e rispondendo alle richieste sempre più pressanti delle amministrazioni universitarie di non gravare su bilanci disastrati o quanto meno “instabili”, in assenza di cospicui finanziamenti esterni (dalle amministrazioni regionali o da fondazioni bancarie) bisogna cominciare a progettare alcune strutture “leggere” di governo. Nelle linee generali, in ogni Ateneo potrebbero essere costituiti due organi accademici, supportati da una struttura amministrativa, cioè un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti delle singole Facoltà interessate e presieduto da un delegato del rettore alla Formazione degli insegnanti4. A livello regionale, poi, la Conferenza di coordinamento dei rettori potrebbe dar vita ad un “tavolo” unitario, composto dai loro delegati ed integrato con la partecipazione sia di dirigenti dell’Ufficio scolastico regionale, sia di rappresentanti del governo regionale. A questo tavolo potrebbero essere demandate sia la preparazione e la distribuzione dell’offerta formativa sul territorio regionale, sia l’elaborazione degli indirizzi generali sul piano dei rapporti tanto fra gli istituti universitari consorziati, quanto fra questi ultimi e le altre istituzioni coinvolte a diverso titolo nell’impresa: dalle scuole alle amministrazioni locali.
Quanto alla struttura amministrativa di supporto, non è chi non veda l’impossibilità di compiere alcunché, in questo come in altri settori, senza l’ausilio di una macchina burocratica efficiente, dotata di personale tecnico-amministrativo competente ed attivo, alla quale affidare tutta una serie di funzioni. Ho provato a immaginare una sorta di “sillabo” di operazioni amministrative necessarie per l’attivazione del Tfa e ne è risultata una lista impressionante, anche se – temo – non esaustiva. Nell’Appendice di queste pagine accludo questo elenco, che nella sua “noiosa” e analitica enumerazione illustra la complessità di interventi su scenari assai differenziati, interni ed esterni sia al singolo Ateneo, ma sia alla realtà accademica, con la necessità di istituire e mantenere relazioni stabili e collaborative con una pluralità di soggetti presenti nel territorio. In effetti, lo stesso Dm 249 ha riconosciuto5 la possibilità di dar vita a queste strutture, ed è a mia notizia che anche la Conferenza dei rettori delle Università italiane stia assumendo una precisa iniziativa al proposito, incitando i singoli rettori a dar vita a simili strutture. Tuttavia, dovremmo evitare che si sciupi quest’occasione con una scelta sostanzialmente riduttiva. Pur riconoscendo tutta la dovuta importanza all’apparato e alle funzioni dell’amministrazione, in questo settore dovremmo evitare di dare vita a strutture meramente burocratiche. Queste nuove strutture hanno da essere anche centri di ricerca sulla didattica, e in particolare sulle didattiche disciplinari, se vogliamo far uscire queste ultime dal ghetto culturale, in cui sono state cacciate dalla vittoria dell’idealismo gentiliano un secolo fa: urge riconoscere e sostenere la dignità scientifico-disciplinare della ricerca anche in ambito didattico.
Per quanto riguarda il piano dell’organizzazione dei corsi, nei prossimi mesi ci troveremo di fronte a due regimi contemporaneamente in vigore. Da una parte, quando sarà realizzata – se lo sarà davvero e con tempi differenziati fra la Scuola secondaria di I grado e quella di II grado6 – la riforma nel suo complesso, un sistema articolato su una Laurea triennale ad accesso libero per l’acquisizione di un certo numero prefissato di Crediti formativi universitari nelle discipline universitarie confluenti nelle “materie” scolastiche, poi una Laurea magistrale biennale professionalizzante con accesso a numero chiuso programmato ed infine un corso annuale di Tirocinio formativo attivo (il Tfa) con accesso diretto dalla corrispondente Laurea magistrale. Il tutto per una durata complessiva di sei anni: negli ultimi tre avranno particolare rilievo non solo gli approfondimenti sui saperi disciplinari, ma ancor di più le didattiche disciplinari, lo studio della Pedagogia, i laboratori didattico-pedagogici e il tirocinio, diretto e indiretto, nelle scuole convenzionate, sotto la guida di appositi docenti-tutor (scelti dai dirigenti scolastici) e con la supervisione di docenti-coordinatori del tirocinio (scelti dagli organi accademici tramite concorso). Nel frattempo, però, per tutti gli attuali laureati e per gli allievi iscritti nell’a. a. 2010-2011 ai corsi delle Lauree magistrali è previsto un regime di transizione, costituito dal solo anno di Tfa, anch’esso con accesso a numero chiuso programmato e con un programma articolato sulle didattiche disciplinari, sullo studio della Pedagogia, sui laboratori didattico-pedagogici e su 475 ore di tirocinio diretto e indiretto nelle scuole convenzionate (con un totale di 60 Cfu). Per poter fruire di questo percorso breve, costoro dovranno essere in possesso degli stessi requisiti, che a suo tempo erano richiesti per accedere alle Ssis, per quanto concerne vuoi il titolo di laurea, vuoi gli esami sostenuti (da calcolare secondo il metro di un’annualità equivalente a 12 Cfu). Per i già laureati il termine ultimo per il conseguimento di tutti i crediti formativi disciplinari è stato fissato alla conclusione dell’anno accademico ora in corso. C’è da temere che molti laureati pagheranno a caro prezzo la loro disinformazione e l’incapacità delle pubbliche amministrazioni (in questo caso le Università) di comprendere e risolvere i problemi dei loro utenti: penso, per esempio, alla necessità di adeguare gli esami sostenuti alla parametrazione fra annualità e Cfu decisa dal ministero.
Infine, quanto al numero chiuso programmato, questo sarà stabilito dal ministero su base regionale e sarà costituito dal “fabbisogno” previsto per ciascuna Classe, aumentato del trenta per cento. Il dispositivo appare razionalmente accettabile nel suo tentativo di limitare la crescita di una bolla smisurata di precari abilitati, ma a un’analisi più attenta presta il fianco a non poche obiezioni. Innanzitutto, ci si domanda come gli Uffici scolastici regionali potranno fornire numeri realisticamente attendibili, ove si rifletta alla situazione magmatica e confusa che nelle graduatorie è stata prodotta dal combinato disposto dei provvedimenti ministeriali e delle decisioni della giustizia amministrativa. Secondariamente, il punto debole di questo aspetto consiste proprio nell’indebita sovrapposizione – in una fase in cui non è attivo un reclutamento per via di graduatoria – fra abilitazione professionale e posto “fisso” di lavoro. Per intenderci, non si può dimenticare che l’abilitazione all’insegnamento, oltre a essere titolo preferenziale nell’attribuzione di incarichi a livello di istituto, è titolo necessario per ottenere un contratto come docente nelle Scuole paritarie e sarà titolo indispensabile per accedere ai concorsi – quando finalmente partiranno – per la ricopertura delle decine di migliaia di cattedre attualmente vacanti. Ebbene, sul piano della legalità costituzionale sarebbe assai grave l’ipotesi che in questa o quella Classe di concorso fosse precluso a priori l’accesso persino alle prove concorsuali ad alcune annate di laureati sulla base della mera data di nascita: solo chi, calendario alla mano, è nato in tempo utile per laurearsi entro luglio del 2007 avrebbe avuto la possibilità di conseguire il titolo d’accesso ai concorsi per quelle Classi, che saranno vietate per un certo numero di anni a coloro che sono nati solo pochi giorni o mesi dopo. Infine, da storico non disattento ai numeri e alle statistiche, nonché alle simulazioni di scenari, mi permetto di dubitare della propensione di un paese così a-scientifico come l’Italia a costruire ipotesi attendibili sul nostro futuro, soprattutto quando sono in ballo ambiti disciplinari come la demografia, nella quale le ragioni del realismo analitico sono troppo spesso schiacciate da imperativi ideologici e religiosi (basti pensare alla vulgata italiana su cosa abbia ad intendersi con la parola “famiglia”). In queste condizioni, temo che nei prossimi decenni, andata in pensione la mia generazione baciata dal fortunato e spensierato ampliamento quantitativo e qualitativo dell’impiego pubblico (tutti “cavalieri”!), una strategia politica restrittiva e meramente finanziaria potrebbe privarci all’improvviso dei servizi essenziali in campo scolastico e in campo sanitario, per non parlare delle biblioteche, dei musei, degli archivi ecc.
Quali conseguenze avrà l’impatto ormai prossimo del nuovo sistema formativo sulle Facoltà di lettere e sulle non-più-Facoltà (Dipartimenti, Scuole ecc.), che saranno sedi di questi corsi? Per comprenderlo, dobbiamo prima porci una domanda sostanzialmente retorica: può una Facoltà di lettere rifiutarsi di scendere su questo campo di gioco? Personalmente nutro dubbi che si possa permettere il lusso di una tale sdegnosa astensione una Facoltà di scienze, che pure ha settori professionalizzanti ben definiti anche al di fuori dell’insegnamento, figuriamoci una Facoltà di Lettere, la cui mission iniziale e principale è sempre stata la formazione culturale di base degli insegnanti delle Scuole secondarie: un simile comportamento equivarrebbe ad un programmatico suicidio, più o meno lento in relazione alle dimensioni della Facoltà scriteriata. Dobbiamo, quindi, immaginare che – vuoi come sedi amministrative, vuoi come sedi operative consorziate – la totalità delle Facoltà di lettere staranno al gioco… pagando un prezzo non modesto, almeno rispetto all’andazzo degli ultimi decenni. In primo luogo, infatti, già dalla lettura degli allegati al Dm 249 emerge una marcata ridefinizione delle gerarchie disciplinari sulla base del nuovo sistema: nei curricula degli studenti alcune discipline, correttamente e senza ragionevoli contestazioni, sono diventate ben più importanti di altre o sono state poste alla pari di altre di superiore rilievo, almeno secondo la tradizione accademica nazionale o locale. Qui non parlo del valore scientifico e didattico del singolo docente. Sappiamo bene, tanto per fare un esempio non disgiunto dall’attualità, che nelle Università italiane insegnano Storia moderna persino professori convinti che, ieri come oggi, le catastrofi naturali siano chiari segnali dello sdegno di un Dio, adirato nei confronti dell’umanità peccatrice. Non è possibile, ovviamente, erigere tribunali, che, utilizzando gli sproloqui insensati degli stessi interessati, giudichino sulle competenze scientifiche, di chi ha già conquistato a suo tempo una cattedra di prima o seconda fascia. Ma, almeno, mi si consentirà di pensare – da spirito libero – che il suo Dio non abbia gradito l’immagine della divinità, che costui propaganda nell’etere, peraltro in numerosa e ascoltata compagnia. Il fatto è, però, che, a tenore della Tabella 2 Classe di abilitazione A043 – Italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I grado (allegata all’art. 7 del Dm 249), la frequenza dei corsi di Storia moderna, come di quelli di Storia medievale e Storia contemporanea, è divenuta corposamente obbligatoria nel percorso formativo: al posto dei 12 Cfu del sistema precedente si richiederà un totale di almeno 18 Cfu nella Laurea triennale ed almeno 12 Cfu nella Laurea magistrale, oltre alla relativa Didattica, e la conoscenza dei loro contenuti disciplinari costituirà materia di accertamento nelle prove di accesso tanto al Tfa (nella fase transitoria) quanto alla Laurea magistrale. Questa promozione a una maggiore visibilità riguarda tutte le discipline universitarie, che verosimilmente compongono le più complessive “materie” scolastiche: si pensi a “Italiano”, per la cui preparazione si conferma l’ovvia presenza di una formazione linguistica, ma nel contempo si rafforza sensibilmente anche l’area storico-letteraria, nella quale ora entra a pieno titolo anche l’insegnamento di “Letteratura italiana contemporanea” (L-FIL-LET/11). Il risultato di quest’accresciuta visibilità (per alcune discipline a danno di altre) sarà evidente da qui a poco, nelle scelte che le Facoltà, o chi per loro, dovranno compiere nella già magra programmazione dei ruoli della docenza: sarà obbligatorio favorire queste discipline a danno di altre (Endocrinologia degli animali domestici, Antropologia del Bue Muschiato, Astrologia indo-sumerica comparata ecc.) se non si vuole affrettare la chiusura. Anche perché il più recente Dm 139 ha introdotto con l’art. 2 (Avvio dei corsi di laurea magistrale) un’ulteriore novità, in un certo senso “bicornuta”. Da una parte, ha previsto che in ogni regione non possa nascere più di un Corso di laurea magistrale per ciascuna Classe d’insegnamento: poiché sono fermamente avverso a ogni forma di campanilismo cittadino, con tutti i condizionamenti che ne derivano nella selezione del personale pubblico, concordo su questa decisione, che di fatto incentiva la regionalizzazione del sistema. Dall’altra parte, ha precisato che, in assenza di accordi preventivi fra gli Atenei di uno stesso ambito regionale, la scelta fra più possibili sedi concorrenti sarà compiuta dagli stessi rettori nel Comitato regionale di Coordinamento favorendo la sede, che presenterà una maggiore offerta formativa. Forse avverrà, come temuto da alcuni, che saranno favoriti gli Atenei maggiori a danno dei minori, ma solo se mancherà nelle Università la volontà di stipulare accordi di programma e la capacità intellettuale di esperire forme organizzative e gestionali, che salvaguardino la dignità e l’operosità dei soggetti coinvolti. A mio parere, l’aspetto innovativo di questo criterio, per sé dettato dal buon senso e dall’esigenza di indicare un criterio “metrico” qualora sia assente o dormiente l’uso della ragione, risiede nel fatto che in tal modo si contrasta l’andazzo, dannosissimo per la preparazione culturale dei futuri laureati, di tenere in piedi un ventaglio ampio di Corsi di laurea, limitandosi a garantire i livelli minimi della loro offerta formativa: proprio quei livelli minimi, che al momento consentono di superare la griglia meccanica di valutazione da parte del ministero.
La seconda conseguenza del nuovo sistema formativo si vedrà nei prossimi mesi, alla conclusione della fase concorsuale per l’accesso al primo corso di Tfa (ed eventualmente anche al nuovo percorso professionalizzante all’interno della Lm 14), purché, ovviamente, si abbia la volontà di sapere, monitorandone i risultati. Com’è già avvenuto nella vicenda delle Ssis, i risultati conseguiti dai candidati nei concorsi d’accesso costituiranno il banco di prova dell’efficacia formativa dei Corsi di laurea da loro frequentati e, al loro interno, anche dei singoli corsi disciplinari. Tuttavia, a differenza della Ssis ora il superamento del concorso iniziale è stato reso assai più difficile dall’introduzione di criteri selettivi ben più rigorosi. Ci saranno tre prove disciplinari con un test di provenienza ministeriale, una prova scritta e una orale, la soglia di 21/30 per il superamento delle prime due prove e di 15/20 per la terza, e programmi disciplinari fermi ancora alla fine del secolo scorso: quelli fissati dal decreto del Ministro della Pubblica Istruzione 11 agosto 1998, n. 357, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 18.11.1998, n.270, almeno secondo quanto ha suggerito nel suo blog lo scorso 5 maggio l’informatissimo dottor Max Bruschi. Per la stessa sopravvivenza dei nostri corsi, oltre che per evidenti ragioni di onestà culturale e di etica sociale, i professori universitari dovrebbero tener conto dei risultati di queste prove per curvare al meglio la loro rispettiva azione didattica. Parlando esplicitamente, a che servono corsi di Latino e di Greco nei quali va sparendo una prassi di traduzione da quelle lingue all’Italiano, quando poi per l’accesso all’insegnamento delle discipline classiche nelle due prime prove lo sbarramento avverrà giustamente sulla base delle conoscenze linguistiche? A che servono singoli corsi di monografici di Storia al di fuori di un percorso completo almeno nelle principali problematiche, sia fra le diverse scansioni canoniche (contemporanea, moderna e… medievale: per figli d’immigrati cinesi o nigeriani?), sia all’interno di ciascuna di essa? Ebbene, intorno a queste annose questioni saranno i risultati dei concorsi a dire una parola chiara, anche se non definitiva: dovranno essere le autorità accademiche, a quel punto, o piuttosto i corpi accademici nel loro complesso, a trarne le logiche conseguenze e a impostare strategie correttive. Tutt’al più, può essere avanzata al ministero una richiesta, che, se accolta, renderebbe più disteso il clima della prima prova e più significativi i suoi risultati. Costituire all’interno del ministero stesso e classe per classe, apposite commissioni per la preparazione dei test ministeriali, composte sia da docenti esperti delle Scuole secondarie, sia da docenti universitari già sperimentati nei concorsi alla professione docente: ciò consentirebbe di attenuare gli effetti negativi prodotti sia dall’estraneità dei funzionari “tecnici” rispetto alla produzione culturale, sia dal nozionismo degli specialisti delle singole discipline, mentre costituirebbe un bel banco di prova della responsabilità del corpo docente nel suo complesso e delle sue competenze nella selezione dei colleghi più giovani.
Infine, nel corso del primo ciclo del Tfa emergerà la terza conseguenza del nuovo sistema formativo: la pressoché totale assenza di esperienze, e prima ancora di sensibilità, in ambito accademico umanistico-letterario sia nei confronti delle didattiche disciplinari, sia nei confronti del dovere civile di formare adeguatamente gli allievi per futuri sbocchi professionali. Partiamo da quest’ultimo punto con una considerazione assai triste. Se si confrontano la sullodata Tabella 2 e la Tabella 3 (Classe di abilitazione A045 – Lingua inglese e seconda lingua straniera) con le Tabelle 4 (LM-95 Classe di abilitazione A059 – Matematica e scienze nella scuola secondaria di I grado), 5 (Classe di abilitazione A030 – Scienze motorie e sportive) e 7 (LM-96 Classe di abilitazione A033 – Tecnologia), a colpo d’occhio e senza neppure entrare nel merito delle proposte emerge la sconfortante immagine di un’Italia divisa nettamente fra due approcci culturali quanto mai distanti fra di loro: uno sostanzialmente “letterario” e l’altro “scientifico-tecnologico”. Mentre in quest’ultimo emerge vistosamente l’esigenza prioritaria di porre alla base dei propri corsi un quadro articolato di “obiettivi formativi qualificanti” (la carenza di competenze specifiche mi esime di entrare nel merito delle scelte dei colleghi), nel secondo si coltiva la mala pianta dell’indifferenza, se non dell’ostilità nei confronti della formazione professionale, nella presunzione radicata dell’autorefenzialità, dell’autonomia e del superiore primato della nostra cultura rispetto alla cultura scientifica o, ancora più in subordine, a quella tecnologica nelle sue diverse declinazioni. Siamo rimasti fermi a un secolo fa, alla polemica di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce nei confronti del matematico e filosofo della scienza Federico Enriques, senza comprendere che la vittoria dei primi sul secondo è stata pagata dal paese-Italia con quell’arretratezza del sistema scolastico nazionale, di cui tuttora vediamo i danni, anche in ambito politico. Danni, sia chiaro, che si palesano anche in quelle discipline umanistico-letterarie, nelle quali troppo spesso fa fatica ad affermarsi un’epistemologia scientifica moderna, non eterodiretta da ideologie irrazionali ed emotive. Latitanza di un discorso epistemologico connesso direttamente alla ricerca scientifica, carenza di una riflessione polifonica fondata sulle buone pratiche dei rispettivi “laboratori”: forse stanno proprio qui le radici della disattenzione, della diffidenza e del disprezzo nei confronti delle didattiche disciplinari, le radici della presunzione sempre più retorica e smentita dall’esperienza, secondo la quale basta conoscere per saper insegnare.
A parte il fatto che, non diversamente da quanto avveniva nei “concorsoni”, in questi anni nello svolgimento dei concorsi d’accesso alle Ssis si sono potuti appurare i reali livelli delle conoscenze disciplinari dei laureati all’uscita dalle università (livelli assai bassi, invero), la trasmissione del sapere non deriva direttamente, senza mediazione e ripensamento, dalla loro conoscenza. La trasmissione, infatti, richiede l’utilizzo di altre “piste”: da una parte, la conoscenza dei soggetti con cui s’interloquisce (qui entrano in gioco la psicologia e la pedagogia); dall’altra parte, la didattica specifica di ciascuna disciplina o di ciascuna area disciplinare oggetto dell’insegnamento. In questo ambito, la nostra arretratezza (se non altro per quanto riguarda la consapevolezza e la diffusione di queste buone pratiche) e la nostra sostanziale ignoranza su quanto da decenni si studia e si sperimenta oltre i nostri confini, ci costringe a operare con grande “umiltà”, puntando sostanzialmente su un percorso che, riflettendo sui fondamenti storico-epistemologici delle nostre discipline, elabori sperimentalmente quelle pratiche didattiche, che favoriscano al meglio la comunicazione del sapere da parte del docente e il loro apprendimento da parte degli allievi. Ma cosa intendiamo col vocabolo “sapere”? Se intendiamo solo i cosiddetti “contenuti”, la loro infinita e indeterminabile quantità assicura la sconfitta di qualsiasi docente, indipendentemente dalla sua sapienza e dalla sua bravura: nonostante l’ormai lungo corso della vita umana manca il tempo per apprendere tutto sulla disciplina, di cui pure siamo devoti cultori, figuriamoci se ciò è possibile per giovani distratti da ben altre e più piacevoli attrattive nel breve tempo della scuola, gareggiando fra tante, importanti “materie”. Dobbiamo, invece, puntare soprattutto a trasmettere ai giovani le problematiche, le questioni, le riflessioni, le teorie e le pratiche scientifiche delle nostre discipline, addestrandoli al loro buon uso: il che richiede da parte dei docenti – come sosteneva già il grande Maestro Desiderio Erasmo da Rotterdam – la volontà e la capacità di coinvolgere e interessare gli allievi. Non sarà facile costruire molti buoni insegnanti, superando la soglia ristretta di quegli ottimi insegnanti, che pure operano nelle nostre scuole.
Sulle didattiche disciplinari sarà difficile non pagare un prezzo alto pure come conseguenza della chiusura traumatica dell’esperienza delle Ssis. Quella sospensione, infatti, ha fatto retrocedere la sperimentazione che negli anni precedenti era stata avviata faticosamente nelle didattiche disciplinari: soprattutto la sperimentazione portata avanti dai miei più giovani colleghi. Se, come pare da quanto sento in giro, su tanti di noi, nell’Università come nella Scuola, si sono abbattute le vendette di colleghi invidiosi per la pur piccola visibilità, di cui hanno goduto fra gli studenti per una decina d’anni gli accademici e gli insegnanti impegnati nelle Ssis7, ovviamente i colpi sono stati ben più dolorosi, quando sono stati inferti ai ricercatori, che non potevano esibire per motivi anagrafici gli stessi curricula scientifici e le posizioni accademiche consolidate dei professori ordinari. Quei “giovani” hanno viste frustrate le energie impiegate in questo settore: com’è noto, in Italia il mondo accademico nutre scarsa stima per i ricercatori, che si impegnano nelle didattiche disciplinari sottraendo tempo alla ricerca pura e al docile apprendistato al servizio dei loro maestri. Ebbene, a questo punto come potremo rivolgerci nuovamente a questi colleghi più giovani, come potremo richiedere la loro collaborazione?
Eppure, rimanendo nel nostro ambito umanistico-letterario e senza voler sminuire il rilievo goduto da altre discipline specialmente nel nostro paese (come Storia dell’Arte, per esempio), è indubitabile che esistono almeno tre percorsi culturali indispensabili per trasformare i ragazzi e gli adolescenti in cittadini responsabili, consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri, membri liberi di una società aperta e plurale com’è quella italiana nella comunità europea. Questi tre percorsi possono essere sintetizzati con tre “materie” scolastiche: Italiano (lingua e letteratura nazionale), Storia-Geografia (la scienza degli uomini nel tempo e nello spazio) e Filosofia (soprattutto l’epistemologia e l’etica, da secoli appannaggio nel nostro paese di un’agenzia che pretende l’esclusivo possesso della “verità” e del “bene”). Per queste materie, non diversamente dalla Lingua inglese, dalla Matematica e dalle Scienze, non è pensabile che il successo del loro apprendimento sia delegato a una maggiore o minore “propensione” dei giovanissimi discenti nei loro confronti: una propensione, che in larga misura o nasce dal contesto culturale delle famiglie da cui provengono i discenti stessi o è prodotto da stimoli mediatici rispondenti a logiche affatto “altre” rispetto a quelle, che soprintendono all’educazione del cittadino. Per questi motivi, nello sfumare temporale della memoria storica dei patrimoni ideali sui quali è stato costruito il nostro Stato democratico, urge ideare, sperimentare e adottare rapidamente quelle metodologie didattiche, specifiche di ciascuna disciplina, che permettano ai docenti di trasmettere questi patrimoni culturali (insiemi di saperi, di interessi e di competenze) a tutti i loro allievi e non soltanto a quel sette per cento a ciò già predestinato per patrimonio, reddito e livello d’istruzione dei loro genitori.
Infine, con la fine delle Ssis sono stati interrotti i rapporti, pur non sempre cordialissimi e strutturati, già avviati con la rete di scuole e con i docenti, che avevano collaborato con noi, cioè i supervisori ed i tutori del tirocinio. Ora dovremo ricominciare da capo, anche se nel frattempo molti nostri volenterosi referenti ed esperti collaboratori sono andati in pensione. Non solo: sono cambiati i nostri interlocutori nella Scuola. Il Dm 249 valorizza in particolare il ruolo e le funzioni, che nel nuovo sistema competeranno ai dirigenti scolastici: dalla presenza nei consigli direttivi dei corsi alla scelta dei tutori del tirocinio8. I professori universitari dovranno imparare a confrontarsi con loro, cercando di conoscere quella realtà scolastica, che hanno volutamente ignorato per decenni: da quando si è rotto quel legame che, anche a livello di carriere, esisteva fra i due segmenti dell’istruzione pubblica nel nostro paese. A tal fine sarà indispensabile coltivare pratiche di buona creanza e rispetto reciproco, ma sarà anche utile coinvolgere l’Università nella formazione in servizio dei docenti, ormai non più rinviabile. Lo richiede, peraltro, la stessa velocità di crescita delle conoscenze scientifiche: dobbiamo evitare che nelle scuole la preparazione scientifica e didattica dei docenti rimanga ferma al momento della loro prima assunzione in servizio.
Concludendo, per i giovani laureati e per i nuovi studenti universitari la stessa professione docente tende a cambiare faccia. Le novità introdotte dal Dm 249 la rendono sempre meno una sorta di rifugio, più o meno soddisfacente, a cui ricorrere dopo percorsi tortuosi e dopo aver fallito nella corsa ad ostacoli verso ben più elevate o dilettevoli aspirazioni di realizzazione personale. Di fatto, entreranno nel mondo della Scuola in qualità di docenti non tanto i fortunati, che verranno selezionati da arcigni commissari, quanto quei giovani che si saranno selezionati da soli, optando sin dall’inizio degli studi universitari per un percorso mirato verso la professione docente, concentrando il proprio studio sulle discipline inerenti alle “materie” da insegnare e adottando un ritmo di marcia spedito, che consenta di non mancare gli appuntamenti previsti: l’accesso alla Laurea magistrale, l’accesso al Tfa, la partecipazione ai concorsi. Probabilmente, in un paese sclerotizzato come il nostro nel mondo del lavoro a tutti i livelli e in tutti i settori, è questa l’unica strada per migliorare la qualità della Scuola, ma anche per innalzare la dignità civile degli stessi giovani laureati.
Appendice: Attivazione del “Tirocinio formativo attivo”
Nella relazione d’accompagnamento al nuovo Regolamento ministeriale sulla Formazione degli insegnanti di Scuola secondaria era stato annunciato che già nel corso dell’a.a. 2010-2011 sarebbe partita la fase transitoria di tale procedimento, con l’attivazione del Tirocinio formativo attivo (da ora abbreviato in Tfa), ai cui concorsi d’accesso sono ammessi i possessori di Laurea magistrale (o titoli equivalenti). La lentezza delle procedure di formalizzazione del percorso di trasformazione del suddetto Regolamento in legge dello Stato (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale solo il 31 gennaio 2011, con decorrenza dal 15 febbraio successivo), ha posticipato l’inizio delle attività formative al prossimo anno accademico, ma, ovviamente, anche se con questo ritardo l’avvio dei corsi richiederà la messa in opera di una serie di procedimenti accademici ed amministrativi, governati da una conduzione unitaria. In effetti, per entrare a far parte da subito del nuovo sistema di formazione professionale sarà necessario che ciascun Ateneo si doti di una struttura tecnico-amministrativa in grado di espletare una serie complessa di funzioni e operazioni, fra le quali segnalo a titolo indicativo:
- raccolta, conservazione, analisi e messa a disposizione dei docenti, dei candidati e degli allievi della normativa ministeriale (regolamenti, circolari, note applicative ecc.), che il ministero si è impegnato a produrre per l’attuazione del progetto, nonché di tutta la normativa pregressa in qualche modo richiamata sia dalla nuova legge, sia dalle disposizioni ministeriali successive;
- raccolta e coordinamento delle informazioni sull’offerta didattica dei Corsi di laurea e delle Facoltà interessati al Tfa (ed in un prossimo futuro ai Corsi di laurea magistrali per l’insegnamento);
- supporto esperto alle autorità accademiche nella contrattazione regionale per la distribuzione dei posti del Tfa assegnati dal ministero alla Regione Toscana;
- supporto e coordinamento nella stesura delle convenzioni fra le Facoltà degli Atenei toscani per l’attivazione di quei corsi di Tfa (presumibilmente la maggior parte, se non proprio tutti), che saranno organizzati in compartecipazione fra più Facoltà di più Atenei;
- supporto e coordinamento nella stesura delle convenzioni fra le Facoltà di ciascun Ateneo e le istituzioni scolastiche del rispettivo distretto universitario, che, con il consenso dell’Ufficio scolastico regionale, saranno le sedi operative del tirocinio degli allievi dei corsi di Tfa;
- costruzione e gestione di un sistema di rapporti costanti e continuativi con dette istituzioni scolastiche nel triplice livello comunale, provinciale e regionale
- costruzione e gestione di un sistema di rapporti costanti e continuativi con le istituzioni del governo politico comunale, provinciale e regionale operanti in ambito scolastico (qui basti solo accennare al problema del reperimento delle strutture edilizie scolastiche in cui tenere i corsi d’insegnamento);
- supporto all’attivazione ed alla gestione dei concorsi – dal bando all’esplicazione delle prove – per la scelta dei tutor coordinatori del tirocinio;
- gestione delle relazioni con i dirigenti scolastici designati dall’ufficio scolastico regionale quali membri dei consigli dei corsi di tirocinio;
- organizzazione e gestione dei concorsi, con le relative prove, per l’accesso degli allievi al Tfa, ed in particolare: a) reperimento delle risorse logistiche ed umane necessarie; b) formazione di unità operative per la verifica dei titoli e dei requisiti richiesti ai partecipanti; c) conduzione e tutela delle prove (ricordo che sono tre: test nazionale, prova scritta e prova orale) per le diverse classi di concorso attivate nei singoli Atenei [N.B.:gli oneri finanziari e logistici, nonché le problematiche giuridico-normative (non di rado affatto estranee alla prassi universitaria) potrebbero avere un impatto devastante sull’amministrazione degli Atenei];
- la ricerca, l’acquisizione e la messa a disposizione pubblica dei programmi ministeriali dei concorsi per l’insegnamento;
- organizzazione e gestione dell’esame finale abilitante, con le relative prove, degli allievi al Tfa;
- individuazione e designazione formale dei docenti universitari, che svolgeranno una parte del loro impegno didattico nel Tfa: si tratta sia di colleghi dell’Area Pedagogica, sia di colleghi esperti delle didattiche disciplinari delle rispettive “materie” scolastiche o, in loro assenza (situazione più frequente, data la notoria latitanza del mondo accademico in questo settore), di colleghi che accetteranno di impegnarsi in questo campo per i prossimi anni;
- reperimento dei locali e delle altre risorse logistiche (dal materiale di cancelleria ai computer, dalle carte geografiche all’allacciamento alla rete internet, ecc.) per le attività didattiche da svolgere in ambito universitario;
- preparazione, coordinamento e pubblicizzazione della programmazione didattica e del calendario delle lezioni con tutti i servizi connessi (per esempio: allestimento, distribuzione, raccolta e conservazione dei registri delle lezioni e dei registri delle presenze obbligatorie);
- allestimento e gestione di un archivio informatizzato delle carriere degli allievi dei corsi di Tfa, compresa la verifica dell’adempimento dei loro obblighi, avendo particolare cura della necessità di realizzare un sistema di rete, che consenta l’interscambio di informazioni, anche “certificate” (per esempio, sulle carriere degli allievi) fra gli Atenei toscani coinvolti nell’impresa;
- allestimento e gestione di un data base sulla rete delle scuole ospitanti dei tirocinanti e sui rispettivi tutor del tirocinio;
- allestimento di un archivio, informatizzato, per la raccolta e conservazione del materiale didattico, degli elaborati degli allievi e delle relazioni finali di tirocinio [si sottolinea l’esperienza pisana in materia di tesi elettroniche, ecc.].
Nel prossimo futuro, l’inizio effettivo delle attività dimostrerà sicuramente che questo “Sillabo” dovrà essere ulteriormente accresciuto e costantemente aggiornato.
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- Questa Nota, che ha suscitato l’allarmata reazione dei rettori delle Università italiane per l’eccessiva ristrettezza dei tempi previsti per il decollo del nuovo sistema, è stata poco dopo formalmente confermata e parzialmente corretta da un’altra nota ministeriale del 29 aprile. [↩]
- Ricordo il Dpr 31 luglio 1996 n. 470 (Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria Tabella XXIII bis) e il Dm 26 maggio 1998 (Criteri generali per la disciplina da parte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario). [↩]
- Per esempio, l’art. 5 del Dm 139 recita: “I corsi di TFA sono istituiti di norma presso le stesse sedi universitarie nelle quali sono istituiti i corsi di laurea magistrale di cui all’art. 1, lett. b).”. Il dispositivo, incontestabilmente corretto in una situazione a regime, nella quale il Tfa segue il relativo corso di laurea magistrale, appare inapplicabile in una situazione provvisoria, nella quale, appunto, detti corsi di laurea ancora non esistono, né potrebbero esistere, essendo in corso di revisione addirittura le classi d’insegnamento nelle Scuole secondarie di II grado. Sarebbe opportuno precisare che questa prescrizione vale solo per il futuro, quando il sistema andrà a regime (dove avrà un senso logico), piuttosto che nell’immediato. [↩]
- Riunitasi a Roma il 19 maggio presso il rettorato dell’Università di Roma 3, la Conferenza nazionale dei responsabili per la Formazione universitaria degli insegnanti ha chiesto ai rettori italiani di procedere quanto prima alla nomina di specifici delegati d’Ateneo su questa materia. [↩]
- “Allo scopo di ottimizzare l’utilizzo delle competenze psico-pedagogiche e didattico-disciplinari messe a disposizione dalle università e dalle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonché le risorse economiche e organizzative, le stesse università e istituzioni possono istituire ed attivare strutture di servizi comuni o Centri interateneo o interistituzionali di interesse regionale o interregionale che assicurino supporto tecnico, metodologico e organizzativo, nonché coordinamento didattico ai corsi di laurea magistrale, ai corsi di diploma accademico e alle attività formative previste per il tirocinio formativo attivo” (comma 5 del’articolo 4). [↩]
- Il Dm 249 ha potuto definire le lauree abilitanti per la Scuola secondaria di I grado, ma non quelle per le Scuole secondarie di II grado, perché al momento sono ancora in fase di revisione le rispettive Classi d’insegnamento. [↩]
- Esemplare, per la sua lunare assurdità, quanto è accaduto a chi scrive queste riflessioni. Dopo aver fondato e diretto la Ssis dell’Università di Siena, unico professore ordinario di Storia moderna in servizio presso la Facoltà di Lettere di quella città e specialista di storia delle istituzioni ecclesiastiche, essendo meno oberato dal lavoro dopo la chiusura della Ssis avevo pensato di offrire il mio apporto al locale Dottorato di ricerca in Storia e Archeologia del Medioevo, Istituzioni e Archivi. La mia richiesta di afferenza è stata giudicata “irrituale” dal suo Consiglio (composto in larga misura da colleghi del mio stesso Dipartimento e Corso di laurea) e conseguentemente respinta con la motivazione – scritta! – della “distanza” esistente fra loro e me. Ebbene, di fronte a tanta protervia nei confronti di un ordinario ormai anziano, ma pur sempre indispensabile per la vita di una Facoltà di Lettere e di un Corso di laurea in Storia, c’è da domandarsi cosa sia accaduto l’anno scorso e cosa possa accadere in futuro ai danni di colleghi impegnati come me, ma rispetto a me più giovani e meno “corazzati” come stato giuridico. Sono del parere che bisognerà trovare delle garanzie per chi generosamente vorrà impegnarsi nell’impresa civile della formazione dei futuri insegnanti. [↩]
- I coordinatori del tirocinio, invece, saranno scelti dalle istituzioni accademiche. Nel rispetto dell’autonomia di quest’ultime, auspico in ogni caso l’emanazione di un opportuno regolamento ministeriale, che indichi precisi criteri per valutare i candidati a questi incarichi, di cui non possiamo trascurare né il prestigio, né alcuni vantaggi indiretti. [↩]