Barack Obama a metà mandato Siena, 15 dicembre 2010

Paolo Soave

Si è tenuto il 15 dicembre 2010 il convegno promosso dal Centro interuniversitario Osservatorio di politica internazionale-Opint, presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Siena, sul tema Barack Obama a metà mandato. L’iniziativa ha inteso offrire un’occasione di approfondimento delle difficoltà incontrate dal presidente americano nel corso dei primi due anni del suo mandato, dopo gli spunti e gli auspici che erano stati formulati nel 2008 in occasione del precedente convegno, sempre promosso dal Centro, su Le elezioni presidenziali americane. Quali i riflessi internazionali?

I relatori intervenuti, personalità del mondo diplomatico, militare ed accademico, si sono confrontati su tutti i temi di maggior interesse, in particolare sulle ragioni di fondo dell’insoddisfacente bilancio di mid term della presidenza democratica a fronte delle elevate aspettative suscitate dalla storica elezione del novembre 2008, sugli insuccessi nei quali è incorso Obama, sia sul fronte della politica interna che nello scenario globale e, per finire, sui possibili sviluppi legati a un rilancio o a un definitivo fallimento delle iniziative presidenziali nei restanti due anni di mandato.

Come ha sottolineato nel suo intervento introduttivo il prof. Giovanni Buccianti, direttore dell’Opint, l’entusiasmo suscitato dal successo elettorale di Barack Obama, alimentato da grandi aspettative di cambiamento, si è tramutato in breve in un vertiginoso calo di consenso. I relatori hanno riconosciuto e sottolineato l’oggettiva impossibilità di avviare a rapida soluzione temi di complessità globale quali la crisi finanziaria internazionale, l’instabilità dei fronti aperti in Iraq e Afghanistan, la lotta contro il terrorismo, ecc., che avevano animato la campagna presidenziale del 2008. Un interessante approfondimento delle ragioni della volatilità di tale consenso è stato proposto dal col. Umberto Rapetto, che ha definito Obama il primo presidente “cibercompatibile”, ovvero capace di conseguire immediata e vasta popolarità attraverso la rete dei socialnetwork, i quali, peraltro, con la stessa velocità con la quale hanno condiviso e apprezzato le aperture al dialogo e al confronto online hanno successivamente censurato con severità le contraddizioni e le promesse non mantenute, tramutando in tempo reale il consenso in critica. La rete, una delle risorse prioritarie con le quali il candidato Obama aveva creato un movimento a sostegno del proprio programma, rappresenta ora una fonte di dissenso e di minaccia politica per il presidente. Oltre alle difficoltà epocali che accompagnano il mandato alla Casa Bianca i relatori hanno evidenziato anche gli errori e i limiti emersi nella leadership di Obama. Il rilancio del sogno americano è stato affidato a uno slogan certo di grande impatto, Yes We Can, ma, al contempo, come ha colto il Gen. Giuseppe Cucchi, sin troppo generico. L’indefinitezza della visione “obamiana” si è estesa a tutti gli impegnativi ambiti che reclamavano con urgenza un intervento, dalla finanza al salvataggio dei grandi comparti industriali, alla lotta contro la disoccupazione. A fronte di un così vasto impegno i risultati conseguiti nel primo biennio sono stati esigui e contraddittori, come ben evidenzia la discussa e parziale affermazione della riforma sanitaria in un contesto nazionale ancora segnato da una gravissima crisi economico-sociale. Proprio agli alti tassi di disoccupazione interna l’on. Gianni De Michelis attribuisce la sconfitta di mid term e il verticale calo di consensi che ha indebolito la presidenza.

I temi internazionali sono stati oggetto del più articolato approfondimento da parte dei relatori. L’abbandono dell’approccio unilateralista, sottolineato e apprezzato dall’amb. Antonio Badini, non si è concretizzato nel perseguimento fermo e coerente di soluzioni politiche volte a stabilizzare le aree di maggiore instabilità. Come ha sottolineato il prof. Buccianti, Obama non è riuscito ad incidere concretamente su nessuna delle più gravi crisi internazionali. Se al pari di tutti i suoi predecessori ha dovuto trovare il non facile punto di sintesi tra le sue visioni ideali e i condizionamenti burocratici dei grandi apparati washingtoniani, i relatori hanno nondimeno evidenziato la debolezza della leadership di Obama. La composizione dello staff presidenziale, con alcune significative continuità rispetto alla precedente amministrazione a partire dalla conferma del segretario della Difesa, Gates, e il suo progressivo indebolimento a causa delle continue defezioni, testimoniano incertezze e la persistenza degli ostacoli posti dall’establishment all’intangibile mission di Obama quando questa ha cercato di tradursi in concreto programma politico. La debolezza nei rapporti con i poteri forti si riflette negativamente anche sulla percezione del ruolo e dell’influenza della potenza americana nel mondo. Oggi, ha sottolineato il gen. Cucchi, è possibile dire no agli Stati Uniti senza alcuna conseguenza. Lo stesso modello occidentale, affetto da crisi di credibilità, non sembra poter più costituire l’esempio da seguire per vaste aree del mondo in via di sviluppo.

Del controverso intervento militare in Iraq l’on. De Michelis ha difeso in particolare l’approdo di Baghdad, pur con tutte le persistenti difficoltà, al sistema democratico, presupposto dell’epocale cambiamento politico propagatosi in tutto il Medio Oriente, intuito dal relatore. Il principale merito che in campo internazionale possiamo ascrivere alle iniziative di Obama, ha precisato De Michelis, è stata proprio, fin dal celebrato discorso del Cairo, la percezione della centralità della questione islamica, intesa come la ricerca di una forma di coesistenza pacifica e cooperativa con la crescente comunità musulmana e conseguentemente il coinvolgimento nei processi di mediazione globale di un’entità religiosa, culturale e politica fino ad oggi chiusa e isolata. L’attuale condizione di difficoltà politica del regime iraniano può interpretarsi, ha proseguito De Michelis, come la preoccupazione per il possibile contagio da parte del modello democratico-occidentale approdato in Iraq. Per rafforzare questo corso sarebbe auspicabile l’assunzione da parte della Casa Bianca di una misura “provocatoria” come la riapertura dell’ambasciata statunitense a Teheran. Obama ha provato fino ad oggi ogni soluzione politico-diplomatica per indurre il regime degli ayatollah ad abbandonare il proprio programma nucleare. Dovrebbe a questo punto, ha osservato il gen. Cucchi, cominciare a preparare l’opinione pubblica statunitense all’eventualità ormai prossima che l’Iran diventi una potenza nucleare, anche se sul piano internazionale le ricadute più preoccupanti sembrano essere rappresentate dalle possibili reazioni israeliane. Particolarmente debole è stata giudicata dall’Amb. Badini la posizione assunta dalla Casa Bianca nei confronti di Israele. De Michelis ha evidenziato come Obama, nel tentativo fallimentare di indurre Netanyahu a rivedere la politica degli insediamenti, avrebbe dovuto “storcere violentemente il braccio ad Israele” come accadde in occasione del primo conflitto del Golfo, quando Washington impose a Tel Aviv di non replicare al lancio di missiliirakeni. Nei confronti dello storico alleato mediorientale gli Stati Uniti sembrano accusare una sorta di suggestione, cherovescia i rapporti di forza e riserva agli americani un ruolo puramente ancillare nei riguardi della politica di Israele verso l’Autorità palestinese. Quanto la Casa Bianca ha conseguito a giudizio di De Michelis in Iraq, l’avvio di un processo democratico sempre più affidato a forze locali, è ben lungi dal poter essere rivendicato per l’Afghanistan, teatro di un intervento multinazionale ormai decennale. In questo teatro, come ha evidenziato il prof. Buccianti, Obama sembra impegnato esclusivamente a celare la sostanza di una sconfitta inseguendo una parvenza di vittoria attraverso la difficoltosa definizione di una exit strategy che tracci l’artificiosa distinzione fra i taliban politicamente arruolabili e gli elementi irriducibili, soluzione compromissoria ben più modesta dell’ormai tramontato tentativo, ricordato dal Gen. Cucchi, di avviare il paese alla modernità. La conduzione di questi due conflitti, entrambi sbagliati per il Gen. Fabio Mini, ha creato gravi tensioni fra il presidente e i vertici militari: mentre Obama chiedeva di ridurre il coinvolgimento dei civili per agevolare le soluzioni politiche locali, sul campo si delineavano strategie di intervento volte a limitare l’esposizione dei militari impegnati. Questo conflitto interno, tutto americano, ha privato di credibilità l’intervento e pregiudicato il prestigio militare statunitense.

In prospettiva, l’on. De Michelis ha rilevato come il sistema politico internazionale debba necessariamente investire ancora la propria fiducia nella presidenza Obama, il cui definitivo fallimento, nei mesi a seguire, potrebbe avere catastrofiche conseguenze acuendo le tensioni fino al punto di far paventare, quale esito ultimo dei molti nodi internazionali irrisolti, l’ipotesi di un conflitto. Come alla fine degli anni ‘30, ha ammonito De Michelis, anche oggi le potenze, di fronte all’incapacità di formulare soluzioni mediate sui grandi dossier internazionali, dalla finanza all’ambiente, dall’energia alla proliferazione nucleare, potrebbero trincerarsi dietro “opposti keynesismi” fino alla scontro finale. I grandi temi internazionali, ha ricordato De Michelis, richiedono compromessi, la capacità da parte degli attori principali di favorire una mediazione degli interessi. Nei frangenti di crisi internazionale quando questa via non è risultata praticabile si è ricorsi alla prova di forza, che storicamente scioglie i nodi con l’imposizione della volontà dei vincitori ai vinti. Nel presente scenario gli Stati Uniti sono l’unica potenza a disporre della duplice opzione, quella del compromesso e, quale extrema ratio, quella della forza. Qualora non riuscissero ad approdare a soluzioni negoziate gli Stati Uniti potrebbero riservarsi il ricorso allo strumento militare prima che l’evoluzione dei rapporti di forza in un contesto definitivamente multipolare li privi del rango di prima potenza. Le avvisaglie di un conflitto, ha rilevato il col. Rapetto, sono peraltro già visibili negli attacchi portati attraverso Wikileaks all’intero Occidente, versione informatica di una guerra che potrebbe avere conseguenze destabilizzanti e ampliarsi a forme più convenzionali. Questa temibile prospettiva è stata condivisa dai relatori, concordi nel rilevare la gravità dell’assenza di un autorevole profilo europeo nel presente scenario internazionale, quale fattore di stabilità e di mediazione nella risoluzione delle controversie. La crisi finanziaria internazionale ha favorito il riemergere dei particolarismi nazionali all’interno dell’Unione Europea, in particolare i timori francesi per un primato politico-economico tedesco, peraltro ormai nei fatti. Se da un lato anche Obama ha dato conferma dello storico scetticismo americano per la capacità europea di porsi come attore unitario e autorevole, ben rappresentato dalla caustica domanda di Kissinger sul numero di telefono da digitare per parlare con l’Europa, dall’altro la Casa Bianca sembra aver intuito per prima la via che il continente dovrebbe seguire invitando la Russia, in occasione del vertice Nato di Lisbona, ad aderire all’Alleanza Atlantica. In sostanza l’Europa dovrebbe guardare a sud-est per rafforzarsi, ampliandosi a Russia e a Turchia,soggetti che possono rilanciare la centralità continentale come fattore di stabilità per tutti i maggiori temi internazionali. Un’Europa capace di ristrutturarsi geopoliticamente, sul proprio pilastro germanico, come “Eurasia”, per proporsi alle periferie come modello di integrazione, un processo che ha sperimentato per decenni, e di favorire attraverso la lezione monetaria dell’euro la transizione globale verso un dollaro non più a sovranità esclusivamente americana, ma, come aspirano i paesi emergenti, condivisa, può contribuire anche a rilanciare le prospettive della presidenza Obama per il successivo decisivo biennio.

In sostanza le possibilità che a giudizio dei relatori intervenuti il presidente Obama ha di risollevare il deludente bilancio parziale del suo mandato dipenderanno dalla sua capacità di negoziare soluzioni di compromesso con le altre potenze su tutti i principali temi, conferendo finalmente concretezza alla sua mission e rilanciando l’autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo. Dopo il verdetto di mid term a sperarlo è soprattutto la comunità internazionale, consapevole di non poter superare l’attuale grave impasse finanziaria, politica e strategica, senza il contributo dell’attore leader, l’unico capace di promuovere soluzioni condivise. Qualsiasi successore, in caso di definitivo fallimento di Obama, sarebbe fortemente tentato di ripiegare su quell’unilateralismo sterile e conflittuale, già sperimentato, che renderebbe più probabile l’alternativa paventata dai relatori.

Biografia

Paolo Soave, dottore di ricerca in Storia dell’Africa, afferisce al Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali dell’Università degli Studi di Siena. Tra le sue pubblicazioni, Fezzan: il deserto conteso (1842-1921) , Giuffrè, Milano, 2001; La rivoluzione americana nel Mediterraneo: prove di politica di potenza e declino delle reggenze barbaresche (1795-1816) , Giuffrè, Milano, 2004; Le minacce globali alla sicurezza e all’ordine internazionale , Ce.Mi.S.S. ?Centro militare di Studi strategici, Roma 2004. Ha condotto studi e ricerche d’archivio in Italia e all’estero su temi di storia del colonialismo e dell’Africa.