Beni culturali e autonomie locali

di Andrea Ragusa

Abstract

L’articolo ricostruisce il percorso di evoluzione del rapporto tra centro e periferia nell’organizzazione della tutela del patrimonio culturale ed ambientale in Italia. La ricostruzione punta ad evidenziare come il problema del rapporto tra centro e periferia – ed al suo interno l’opzione regionalistica – sia un elemento di lungo periodo e come le Regioni costituiscano un elemento di accelerazione decisiva del rapporto che le forze politiche, la cultura, la società italiana, definiscono con il problema della tutela.

Abstract english

Cultural heritage management and the debate on regionalism in Italy

The article rebuilds the development of the relationship between centre and periphery in the administration of cultural and environmental assets’ safeguard in Italy. The article points out elements of breech and continuity between past and present and defines the Region as an institution able to determine a crucial development in the relationship established among political forces, culture and Italian society as a consequence of the problem of cultural asset’s safeguard

La riflessione sul decentramento ed un nuovo concetto di bene culturale ed ambientale: politica regionale e tecnica legislativa

L’intenso dibattito che segnò gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta intorno al problema del rinnovamento dell’ordinamento istituzionale, teso a sviluppare la vocazione regionalistica presente sin dal periodo pre-unitario, trovò anche nella materia dei beni culturali e del paesaggio un terreno di elaborazione specifica e di consolidamento, segnando una delle punte più avanzate dell’azione legislativa, politica, e dell’interpretazione proposta in materia dalla scienza giuridica. Come si cercherà di evidenziare in questo contributo, il tema della gestione del patrimonio culturale fu al tempo stesso una palestra di dibattito sul problema istituzionale, con la chiarificazione delle competenze che il dettato costituzionale ed i decreti delegati assegnavano rispettivamente allo Stato ed alle Regioni; ed un momento di avanzata discussione teorica ed applicativa sulla materia stessa del patrimonio, che visse proprio grazie al decentramento regionale attuato dal 1970 un periodo di acceso sviluppo.

Giunse a compimento negli anni Settanta quel processo di decantazione del diritto amministrativo come articolazione della scienza giuridica che aveva avuto tra i maggiori protagonisti i giuristi di nuova generazione affermatisi dopo il 1945: giuristi giovani ma già affermati, che avevano attraversato la guerra ed in parte il fascismo, e che avevano sin dall’inizio concepito il proprio impegno scientifico anche come impegno culturale e civile, con una forte aderenza al movimento di educazione e di azione legislativa sviluppato dai partiti di massa. Il tema del regionalismo, fu, di questo processo, un elemento decisivo ed un punto d’arrivo, coerente con quel più vasto ed intenso movimento che tutta la cultura italiana, nelle sue più diverse articolazioni disciplinari, partecipava al culmine della prima legislatura regionale, nel 1975.

Si consideri, innanzitutto, la nuova e comprensiva nozione di bene culturale che era stata elaborata nel corso dei decenni precedenti e che rappresentava il risultato certamente più interessante dei lavori d’indagine svolti dalla Commissione Franceschini, Per la salvezza dei beni culturali in Italia: Commissione la cui legge istitutiva era stata presentata nel novembre del 1963, a poca distanza dalla sciagura determinata dal crollo della diga del Vajont, ed i cui risultati, prima di essere pubblicati in tre volumi nel 1967, erano stati presentati alla Camera dei Deputati il 10 marzo 1966, appena otto mesi prima della drammatica alluvione che colpì Firenze e la Toscana, ricordando ad operatori, tecnici e politici, proprio l’importanza della salvaguardia del territorio attraverso anche un’attenta politica di gestione decentrata. La definizione di bene culturale come “testimonianza avente valore di civiltà” da un lato rese applicabile ai più estesi confini l’intervento pubblico di tutela, dall’altro evitò il problema delle catalogazioni e delle enumerazioni, di cui infatti la Commissione si era assai poco occupata preoccupandosi semmai di sottolineare l’obsolescenza di ogni criterio fondato su enumerazioni e scelte di attribuzione. L’accezione estensiva, d’altra parte, rendeva riconducibili alla categoria anche oggetti e beni di recente passato o addirittura del presente, e si presentava particolarmente complessa per quel che riguardava la definizione del paesaggio e delle bellezze naturali da tutelare. All’interno della categoria di beni ambientali venivano infatti indicati: “le zone orografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività”; e si indicavano inoltre, come specificamente ambientali, i beni costituiti da “singolarità geologiche, florifaunistiche, di cultura agraria, di infrastrutturazione del territorio, e le strutture insediative anche minori o isolate che si integrino in unità rappresentative con l’ambiente naturale”. Così da creare una difficile distinzione tra categorie di beni effettivamente naturalistici e beni culturali di tipo urbanistico, come osservava in uno dei più chiari contributi sul tema Massimo Severo Giannini nel 1976.

In relazione a questa estensione concettuale, in secondo luogo, prefigurando un nuovo disegno unitario di gestione e di organizzazione che passasse attraverso una attenta quanto articolata politica di decentramento e di “affidamento al territorio” delle competenze.

Da questo punto di vista, l’aspettativa “regionalistica” si presentava come il risultato compiuto di un processo di crescita politica e culturale che legava la nuova generazione di giuristi impegnata su questi temi alle domande che – provenienti dalla società – venivano filtrate, non senza sapienza ed attenzione, dalle forze politiche. Il tema dei beni culturali fu in altri termini uno dei terreni su cui maggiormente si misurò il rilievo della nuova, emergente, “questione regionale” in Italia, e la maggiore o minore capacità delle forze politiche di dare ad essa una risposta adeguata. È significativo, in questo senso, che tra gli intellettuali più impegnati su questo fronte vi fossero due giuristi come Alberto Predieri, laico nutrito degli insegnamenti e dell’atmosfera dell’azionismo toscano, raffinato quanto pragmatico e perfino efficientista, da sempre schierato a favore di un decentramento spinto fino alle soglie del federalismo; ed appunto Massimo Severo Giannini, socialista impegnato, sin dai tempi della collaborazione con Nenni al ministero per la Costituente, sul tema delle autonomie e del decentramento. Né meno significativo l’impegno che le altre forze politiche, la comunista e la cattolica, profusero in questi anni innalzando la bandiera del governo locale.

A Predieri si dovette in particolare una riflessione via via sempre più compiuta e sofisticata sul tema della tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, inquadrata all’interno del più ampio problema delle politiche di assetto e gestione del territorio. Sul piano dell’ordinamento regionale, emerse dalla cospicua serie di contributi che tra anni Sessanta e Settanta il giurista toscano ebbe a dare in occasioni diverse tra di loro, soprattutto la separazione del tema dei beni culturali da quello della gestione del territorio, ricondotto più propriamente alla materia urbanistica, di competenza regionale. Si guardi ad esempio al saggio dedicato a Le espropriazioni per impianti industriali pubblicato negli atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, tenutosi nel 1965. Nel quale, soprattutto nella parte conclusiva, Predieri evidenziava innanzitutto la combinazione tra fonti diverse in materia, dovuta al fatto che le regioni a statuto speciale avessero competenza esclusiva in materia di espropriazioni per pubblica utilità; e che le regioni a statuto ordinario, pur non avendola, potevano comunque legiferare per il fatto che larga parte della materia delle espropriazioni fosse appunto riconducibile alla materia urbanistica.

Più interessante ancora fu la problematizzazione della concorrente competenza tra leggi statali (ed in particolare costituzionali) e leggi regionali, svolta nei saggi raccolti qualche anno dopo nel volume forse più importante in materia, ovvero quell’Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione. Saggi, edito nel 1969 da Giuffrè nel quale Predieri raccoglieva i risultati della sua riflessone in una sistemazione disorganica e frammentaria (com’Egli stesso non mancava di ammettere nelle pagine introduttive), ma che costituivano un punto di riferimento da allora in avanti imprescindibile alla trattazione del tema. Interessante, innanzitutto, era la distinzione che lo studioso faceva tra competenza statale e competenza regionale in base all’interpretazione dell’articolo 9 e dell’articolo 117 della Costituzione. L’esclusione della competenza regionale in materia di tutela – affermava Predieri – era indubbia per quel che concerneva il patrimonio storico-artistico. Ma esso non dipendeva in realtà dal dettato dell’articolo 9, come una dottrina consolidata riteneva di sottolineare. Era piuttosto la “statuizione univoca” dell’articolo 117 che non attribuiva alle Regioni tale competenza. Diversa era la situazione per quel che concerneva il paesaggio, ove all’urbanistica era indirizzata dal dettato costituzionale la competenza regionale. Poiché peraltro l’urbanistica era da intendersi come sub-materia della tutela del paesaggio, era facile desumere che in tema vi fosse una doppia e concorrente competenza, appunto di provenienza statale e di provenienza regionale. Né questo era messo in discussione dal fatto che talune regioni a statuto speciale (specificamente la Sicilia, la Val d’Aosta, il Trentino Alto Adige) tendessero nei propri statuti a distinguere la materia della tutela del paesaggio dall’urbanistica: tale distinzione – sottolineava infatti Predieri – non aveva effetti concreti né sul piano delle competenze né su quello delle misure di intervento adottate. Queste distinzioni, Predieri applicava poi, nei capitoli successivi, ai diversi settori di intervento sull’assetto territoriale, dopo un lungo capitolo in cui esaminava la riserva in tema di facoltà di edificare e soprattutto il nuovo concetto di proprietà funzionalizzata delle aree fabbricali. I riferimenti alla legislazione regionale – con riguardo particolare a quella delle regioni a statuto speciale – erano così dedicati al tema della tutela del paesaggio con riferimento al problema della costruzione delle strade (ed in questo quadro alla tutela della strada come elemento del paesaggio, alle strade ferroviarie ed alla disposizione di insegne pubblicitarie sulle strade), e di nuovo all’espropriazione per aree industriali.

A Giannini, d’altro canto, si dovette la compiuta formulazione del concetto di bene culturale come oggetto della tutela e soprattutto una attenta riflessione sui rapporti tra pubblico e privato in relazione al problema della proprietà: riflessione che – avviata sin dai primi corsi dell’inizio degli anni Sessanta dedicati ai Beni pubblici – giunse a compimento proprio negli anni Settanta, contestualmente all’espansione del movimento regionalistico, in una forma di stretta collaborazione che vide impegnata – come si è detto – la cultura, e non solo quella giuridica, e le forze politiche chiamate ad esprimere – dal 1970 – questa nuova e peculiare articolazione della classe dirigente italiana.

Fu proprio Giannini, ad esempio, a svolgere la relazione sul tema del decentramento amministrativo nel quadro dell’ordinamento regionale durante i lavori del terzo convegno di studi giuridici sulla Regione svoltosi a Cagliari, e promosso dalla Giunta Regionale e dal Consiglio Regionale della Sardegna, nel 1959. Ove Giannini tendeva in particolare a sottolineare il contrasto tra l’armonioso disegno costituzionale di decentramento ed amministrazione indiretta, imperniato sulle Regioni, ed il quadro – che Egli giudicava “dei più sconfortanti” – in cui si configurava la effettiva attuazione di esso. Se infatti la Costituzione disponeva tassativamente i contenuti attribuiti in potestà legislativa ed amministrativa alle Regioni, e prefigurava, altresì, l’organizzazione di un ente da considerare come di “amministrazione indiretta necessaria”, tuttavia la realtà che si configurava già con gli statuti approvati dalle Regioni a statuto speciale corrispondeva non soltanto ad un indirizzo assai più marcato dal centralismo che non dal decentramento; e soprattutto, per quel che ineriva la potestà amministrativa, si segnalava la prassi di istituire uffici in comune con lo Stato. Ne derivava un quadro assai complicato alla luce del quale Giannini – oltre a ribadire l’“affaticamento” burocratico che proprio le Regioni avrebbero dovuto contribuire ad allentare – non mancava di paventare il rischio della creazione di una quarta – ed ancor più pesante – burocrazia. Tema – quello del decentramento amministrativo e burocratico – che sarebbe stato ripreso ed approfondito in successive occasioni convegnistiche di qualche anno più tarde nelle quali la Regione avrebbe altresì acquisito una ulteriore ed ancor più netta centralità come elemento della questione – la programmazione – che negli anni Sessanta balzò al centro del dibattito in relazione ai nuovi indirizzi soprattutto di politica economica rispondenti alle esigenze di governo della trasformazione determinate dalla trasformazione socio-economica del “miracolo” e dal nuovo assetto politico e partitico del centro-sinistra. Nel 1970, proprio discutendo del progetto di Statuto della Regione Toscana, fu il comunista Elio Gabbuggiani – in rappresentanza dell’Unione Regionale delle Province Toscane che aveva promosso l’occasione di dibattito – a ribadire infatti come la Regione dovesse divenire in fondo un nuovo soggetto protagonista della politica di pianificazione, sia sotto il profilo economico che sotto quello sociale:

Un quadro che raccoglieva le esperienze compiute nelle aree in cui il movimento regionalista appariva già maturo e, rispetto alle altre, più precoce, in cui l’esperienza del governo regionale divenne in fondo un terreno di elaborazione di una politica di opposizione al centralismo governativo ed al blocco di potere consolidato intorno alla Democrazia cristiana. Un quadro nel quale proprio il terreno dei beni culturali raccolse non soltanto le nuove sfide provenienti da una società che la crisi del 1968-’69 aveva rimesso in moto evidenziando l’incompiutezza e l’esito assai parziale dell’esperienza di centro-sinistra, ma nel quale, anche, si coagulò quella attesa realizzativa del dettato costituzionale che sin dal 1948 aveva legato, in una sensibilità diffusa, seppure non priva di sfumature diverse, aree politiche che avevano innalzato la bandiera della difesa della Costituzione come bandiera di libertà e di affermazione del progresso sociale e culturale, come terreno della battaglia civile e politica contro il preteso oscurantismo clericale dei governi di centro.

Il prevalente interesse della Regione alla gestione del territorio come materia “comprensiva”

Un primo risultato dell’elaborazione regionalistica fu, in questo quadro, l’evidente prevalere del tema della gestione del territorio rispetto a quello della gestione del patrimonio culturale propriamente inteso, ovvero come patrimonio storico-artistico. Non fu, questo, soltanto il portato di una distinzione che innanzitutto era contenuta in Costituzione, attraverso l’attribuzione della potestà legislativa in materia di urbanistica alla Regione, ma anche del tendenziale prevalere che il tema del territorio, del suo assetto e della sua gestione, avevano avuto nel dopoguerra, fino al risultato per cui – in particolare dopo la produzione dei risultati della Commissione Franceschini ed il nuovo concetto di bene culturale da essa proposto – era stato in fondo il territorio ad inglobare anche il patrimonio, come espressione dell’insediamento umano che su di esso si era storicamente stratificato. Prova ne fu il crescente interesse che la cultura giuridica, e la politica italiana, dedicarono al problema dell’assetto territoriale sin dagli inizi degli anni Settanta, ed in particolare dopo l’approvazione dei decreti legislativi di trasferimento delle funzioni dal centro alla periferia, il 14 gennaio 1972. Già nel maggio di quello stesso anno, infatti, l’Istituto di Studi Giuridici Regionali di Udine, presieduto da Arduino Agnelli, promosse un importante convegno dedicato proprio a Il trasferimento delle funzioni amministrative dello Stato alle Regioni a Statuto ordinario e le Regioni a Statuto speciale, dal quale emerse come la gran parte dell’impegno che le Regioni assumevano, sia all’interno dei loro Statuti sia a livello di deleghe, insistesse appunto sul tema della gestione del territorio. Ne era una prova la puntuale disamina condotta dal costituzionalista Temistocle Martines attraverso il raffronto delle materie di competenza della Regione Sicilia, secondo lo Statuto, con le competenze attribuite dalle deleghe del 1972. L’articolo 14 dello Statuto siciliano – e le norme di attuazione emanate con il Decreto n. 789 del 7 maggio 1948 – trasferiva alla Regione le attribuzioni del ministero di Agricoltura e Foreste, mentre il Decreto n. 11 del 15 gennaio 1972, concernente il Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici, stabiliva una riserva di competenza statale anche su questa materia e soprattutto indicava in una elencazione tassativa – dalle coltivazioni arboree ed erbacee, alla bonifica integrale e montana; dalla tutela di boschi e foreste all’esercizio della caccia e della pesca – l’insieme delle materie oggetto delle funzioni amministrative trasferite.

Lo stesso decreto trasferiva poi alle Regioni competenze relative agli usi civici, ed in particolare quelle riguardanti: promozione delle azioni e delle operazioni commissariali di verifica demaniale e sistemazione dei beni di uso civico; piani di sistemazione e trasformazione fondiaria da eseguire prima delle assegnazioni delle quote; ripartizione delle terre coltivabili; assegnazioni delle unità fondiarie; approvazione di statuti e regolamenti delle associazioni agrarie; controllo sulla gestione dei terreni boschivi e pascolavi di appartenenza di comuni, frazioni ed associazioni; tutela e vigilanza sugli enti ed università agrarie che amministrano beni di uso civico.

Di particolare interesse era poi la notazione relativa all’urbanistica, in merito alla quale Martines riteneva non condivisibile l’opinione avanzata in dottrina ed accolta dalla giurisprudenza, secondo cui – in assenza di espresse previsioni dello Statuto regionale siciliano in materia di urbanistica – valeva il principio dell’applicazione delle norme in materia di lavori pubblici, secondo il dettato dell’articolo 1 del D.P.R. 30 luglio 1950 n. 878, secondo cui, appunto, “la Regione siciliana svolge nell’ambito del proprio territorio le attribuzioni del Ministero dei Lavori Pubblici”. Ciò perché l’urbanistica non rappresentava una sub-materia dei lavori pubblici, ma piuttosto una materia complessa relativa all’obiettivo di assicurare un razionale assetto territoriale.

In questo modo, ed almeno parzialmente, i decreti delegati superavano le questioni determinate dal complicato assetto della legge urbanistica, delegandone larga parte delle competenze ai nuovi enti sub-statali, ed individuando una serie molto precisa e tassativa di materie. In questa direzione, in altri termini, la “questione urbanistica”, sotto la quale potevano ricomprendersi tutte le complesse relazioni tra lo sviluppo urbano, la crescita economica e l’incremento demografico – in una espressione sintetica, potrebbe dirsi, l’intera questione della trasformazione del paesaggio strutturale e sociale dell’Italia del tempo, risultato del “miracolo economico” – veniva demandata ad un prefigurato assetto regionalista che, sulla carta almeno, appariva non privo di coraggio innovativo. Condivisibile appare, in questo senso, l’opinione che già nel 1981 esprimevano Ferri ed Alibrandi nell’incisivo volumetto Beni ambientali e urbanistica nell’ordinamento regionale, secondo cui il fatto che alla Regione fosse stata demandata – con pienezza ed esclusività – la gestione dei beni storico-artistici ed ambientali nella misura in cui i medesimi assumessero un rilievo specifico ed autonomo in sede di pianificazione territoriale, rappresentava “una indiretta conferma dell’evoluzione verificatasi all’interno della disciplina urbanistica”, ed impostato in questi termini, il nuovo assetto organizzativo del settore appariva andare in direzione di un nuovo rapporto tra azione di tutela storico-artistica ed ambientale e disciplina urbanistica:

Che politica del territorio e regione fossero espressioni strettamente correlate rilevava Giorgio Berti – in riferimento innanzitutto all’esperienza politico-giuridica europea – in una successiva occasione convegnistica svoltasi il 27 maggio 1972 a Milano, promossa dall’Associazione “Italia Nostra” e dall’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, con il patrocinio del Comune di Milano e della Regione Lombardia, e dedicata appunto a La Regione e il governo del territorio. La politica del territorio – affermava anzi lo studioso – rappresentava, sotto un certo profilo, “la sintesi dell’attitudine politica o di governo della Regione”. L’obiettivo del decentramento regionalistico, da realizzare anche là dove non si fosse giunti a configurare la Regione come struttura politico-giuridica di una comunità, nasceva innanzitutto da motivi di allargamento della partecipazione popolare alla politica territoriale, che necessitava come tale di trovare dei canali adatti nei quali inserirsi, essendo del tutto inadatti gli strumenti dell’amministrazione dello Stato.

Peraltro Berti non mancava di ricordare come la Regione soffrisse – al suo avvio – di alcuni limiti che lo stesso disegno costituzionale aveva ad essa imposto, ed in particolare la statuizione tassativa delle competenze ex articolo 117 e le riserve che i decreti delegati avevano introdotto riassumendo i rapporti tra Regione e Stato nelle funzioni di indirizzo e di coordinamento che tutti i decreti delegati riprendevano senza però spiegarla e lasciando ai fatti futuri il compito di decifrarne i possibili contenuti. Ma alle Regioni delineate dall’articolo 117 e dai decreti delegati si contrapponevano le Regioni configurate dall’articolo 5 della Costituzione e dagli Statuti, che – essi sì – stavano avviando la Regione a configurarsi come articolazione primaria ed addirittura, per alcuni aspetti, prevalente, dell’organizzazione dello Stato. Ciò avveniva in particolare per le politiche per il territorio, “espressione sintetica – affermava Berti – di uno dei modi di aggregazione delle competenze regionali dal punto di vista della Regione intesa come ente di governo”. Ciò in ragione del fatto che l’indirizzo e coordinamento indicato dai decreti delegati corrispondeva ad un assenso formale e sostanziale dello Stato ad una politica regionale per il territorio, che del resto lo Stato non era in grado di svolgere proprio perché non aveva una politica per il territorio. Alla luce di queste considerazioni, tale politica era suggerita da Berti nei termini del rapporto tra attività ed ambiente, che sul versante della Regione si spostava a favore dell’attività, ovvero in funzione e con finalità proattive, mentre su quello dello Stato era imperniato sull’ambiente e sulle funzioni conservative ad esso connesse:

Così, ricordati alcuni degli esempi più precoci di normativa statutaria a tutela dell’ambiente ed a favore di una gestione razionale del rapporto tra uomo ed ambiente, Berti concludeva sottolineando come la creazione delle Regioni, ed i decreti delegati di trasferimento, prefigurassero appunto il rilievo della politica regionale come politica unitaria per l’organizzazione del territorio, all’interno della quale in particolare veniva sussunta la politica urbanistica ed il ruolo-chiave del piano urbanistico come fulcro dell’intera politica regionale.

Proprio alla politica urbanistica, non a caso, era stato dedicato il VI Seminario della Sezione umbra del Centro italiano di Studi Amministrativi, svoltosi a Perugia nella Sala del Brugnoli dell’Accademia dei Filoni il 9 e 10 ottobre 1971, nelle cui circostanze, tra l’altro, si era ricordata l’insigne figura di giurista e docente del Professor Pietro Gasparri. La relazione introduttiva – Urbanistica e Regioni, tratta dal titolo stesso del Seminario – era stata svolta con particolare chiarezza ed appassionato coinvolgimento ancora una volta da Giannini, il quale aveva ricordato non senza amarezza, nei passaggi introduttivi, il fallimento dei diversi progetti di riforma urbanistica che avevano segnato l’intensa stagione di dibattito dei primi anni Sessanta: dapprima il progetto Sullo del 1962 – discusso soprattutto per la controversa questione della disciplina del diritto di superficie – poi il progetto Pieraccini del 1963, il primo progetto Mancini (1964), il secondo e terzo progetto Mancini (1967), e prima ancora il tentativo avanzato addirittura negli anni Cinquanta, come ministro dei Lavori Pubblici, da Benigno Zaccagnini. L’attribuzione alle Regioni dell’urbanistica, sottolineava Giannini, era da considerarsi “caratterizzante” proprio perché l’urbanistica era ben più dell’assetto della città: era l’assetto del territorio, che veniva adesso delegato alle Regioni con l’unico contenimento del doversi trattare di assetto del territorio concernente interessi regionali. L’attività urbanistica, pertanto, era attività primaria delle Regioni, mentre allo Stato rimanevano dei poteri per la tutela dei propri interessi, con una serie di problemi di interconnessione relativi in particolare alla definizione di tali interessi da imputare in capo allo Stato; alla definizione della legge-quadro o delle leggi-quadro; alla sorte che, in quanto titolari di poteri in materia urbanistica, sarebbe toccata ai Comuni. Nel Convegno milanese del 22-23 novembre 1974, poi, l’urbanistica fu addirittura ricondotta alla categoria di “disciplina ambientale”, anzi addirittura di “gradino più alto” dal quale sarebbe stato possibile dominare tutta la disciplina della tutela, nella relazione di Antonio Amorth, dedicata a delineare le rispettive competenze di Stato e Regioni in materia, ma che partiva da una precisazione concettuale sull’oggetto di questa tutela – ovvero l’ambiente non più come oggetto di interesse della denuncia ecologica e neppure più soltanto come tutela degli utenti dei beni ambientali, bensì come tutela dell’ambiente per se stesso – corrispondente all’evoluzione che la materia aveva avuto a compimento del processo di trasformazione che la struttura stessa del paesaggio italiano aveva avuto a partire dagli anni Sessanta. Tale per cui, affermava Amorth, la tutela ambientale era una materia che poneva al centro la tutela dell’ambiente in se medesimo: Una impostazione, questa, che se sul piano concettuale risultava estremamente anticipatrice e comprensiva, veniva poi contraddetta, nei successivi passaggi, non solo dalla considerazione delle norme di tutela come quelle specificamente dedicate alla tutela dell’ambiente in quanto igiene e protezione atmosferica, ovvero in un significato strettamente “ecologico” del termine; ma anche dalla indicazione di una competenza assai ristretta delle Regioni limitata dalla riserva statale su quasi tutte le materie, talchè non solo non era possibile definire una “tutela dell’ambiente” come disciplina normativa unitaria, articolandosi la materia nei più diversi settori (dall’igiene, alla tutela del paesaggio, alla viabilità, etc.), ma non era neanche accettabile il concetto di “politica del territorio”, come competenza regionale, in quanto il territorio sarebbe stato sempre da considerarsi come territorio statale e quindi, eventualmente, come funzioni derivate quelle attribuite alla Regione, ivi compresa, per dettato costituzionale, quella urbanistica. Ne derivava, come veniva evidenziato nei successivi interventi del convegno, che in effetti anche il trasferimento delle deleghe, l’assunzione di uffici e funzioni amministrative, e la conseguente crescita del personale, erano da considerarsi nei limiti ristretti di un apparato che controllava fortemente il rilievo ed il ruolo delle Regioni. Significativo, in particolare, il giudizio sulle competenze amministrative in ordine “all’igiene del suolo e dell’ambiente, all’inquinamento atmosferico e delle acque ed agli aspetti igienico-sanitari delle industrie insalubri”, che nel decreto delegato n. 4 concernente il Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera e dei relativi personali ed uffici erano riservate alla competenza dello Stato, ma che venivano ricomprese tra le materie delegate alle Regioni in base all’articolo 118, secondo comma, della Costituzione. Tale delega, infatti, risultava pressoché nulla: essa riguardava – come sottolineava Umberto Pototschnig – solo le funzioni amministrative residue di quegli uffici periferici del ministero della Sanità che erano stati trasferiti alle Regioni, ovvero in pratica gli uffici dei medici provinciali, che peraltro avevano competenze assai limitate (ad esempio quella di stabilire la distanza a valle della città o dell’aggregato urbano alla quale le fogne ed i canali di raccolta di liquidi di rifiuto potessero essere immessi nei corsi d’acqua senza danno per la salute pubblica, oppure di ordinare il sequestro di detergenti sintetici riconosciuti non biodegradabili nella misura stabilita), mentre tutto il resto delle competenze in materia di igiene del suolo e degli abitati, di purezza dell’acqua potabile, di salubrità degli alimenti e delle bevande, era in realtà affidata prevalentemente ai Comuni, e non molto si era distaccata da questo sistema, che attribuiva al Sindaco il compito di promulgare il regolamento di igiene e sanità, anche la legge 13 luglio 1966 n. 615 che aveva dettato Provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico. Essa infatti aveva semplicemente istituito un Comitato regionale contro l’inquinamento atmosferico, di cui facevano parte il Presidente della Regione e l’Assessore alla Sanità, senza alcun effettivo potere. Né, i decreti delegati stabilivano il potere delle Regioni di inserire i Comuni nelle zone di controllo dell’inquinamento atmosferico previste dalla stessa legge 615.

Non meno restrittiva fu del resto la relazione presentata da Alberto Predieri in occasione dell’importante convegno promosso dalla Regione Toscana sul tema della Politica regionale dell’Ambiente – Metodologie di intervento e di gestione, e svoltosi dal 7 al 9 novembre dello stesso 1974 al Palazzo dei Congressi di Firenze. Ove infatti il giurista toscano segnalava innanzitutto i limiti che la potestà legislativa e le competenze amministrative delle Regioni in materia di tutela dell’ambiente (inteso come eco-sistema) incontravano a più livelli: sul piano verticale per i limiti posti dalla Costituzione in sede legislativa e dalla legge finanziaria regionale n. 281 del 1970 quanto alle competenze amministrative, nella quale era stata affidata una fascia superiore di indirizzo e coordinamento, lasciando le Regioni ad un livello inferiore sul piano orizzontale per l’intersezione di competenze diverse e spesso sovrapposte, quasi una produzione legislativa di modello corporativo, che aveva avuto un effetto negativo come ancora la recente vicenda del colera a Napoli aveva dimostrato. D’altra parte, era difficile, proprio in ragione di questo, individuare gli esatti confini dell’area di competenza regionale, che Predieri riconduceva comunque al tema unitario dell’assetto del territorio, intorno al quale – affermava facendo riferimento ad alcuni esempi avanzati statutari e legislativi – era possibile ricomporre un mosaico altrimenti destinato a rimare frammentato, incompiuto e, sul piano del progresso civile e sociale, del tutto inefficace. Era questo il caso, per richiamare alcuni degli esempi fatti nel corso della relazione, di un uso particolarmente attento della regolamentazione in materia di urbanistica e di edilizia, di un’attenzione particolare alle condizioni di conformità agli standards di disinquinamento per le licenze edilizie, di cui era ricca la legislazione delle Province autonome di Trento e Bolzano; del progetto, in corso di elaborazione in Lombardia, di norme sull’isolamento termico che imponevano ai costruttori di adottare misure di isolamento ed impianti atti ad evitare dispersioni di calore, norme relative al trasporto pubblico atte ad evitare rischi di inquinamento acustico ed atmosferico; ma anche norme relative ad interventi che attenessero all’uso del territorio, come ad esempio quelle relative all’istituzione di parchi regionali e parchi previsti dai piani regolatori generali, di cui la Toscana mostrava alcuni esempi di rilevante interesse, o anche le norme relative alla tutela delle riserve naturali, le norme sul parco del Ticino; o ancora alle norme in materia sanitaria e di igiene.

Forze politiche e cultura italiana

Se la primazìa del tema della gestione del territorio in quanto paesaggio ed ambiente ma anche come aggregazione stratificata degli insediamenti umani nello sviluppo e nell’esperienza del regionalismo italiano appare evidente, è dunque utile, a questo punto, interrogarsi sulle ragioni di questa primazìa, per cercare di comprendere, infine, quanto e come il tema della gestione dei beni culturali intervenisse in questo quadro.

Quello del regionalismo fu tra l’altro anche il terreno su cui si evidenziò una asimmetria di interessi, nel dibattito che impegnava da anni la politica e la cultura italiana intorno al tema della tutela, a favore appunto del territorio e dell’ambiente rispetto al patrimonio storico-artistico in senso proprio, semmai sussunto all’interno del primo e più ampio terreno di azione e di riflessione. Fu questo il risultato, ci sembra di poter dire, dell’intersezione di due elementi fondamentali che segnarono lo sviluppo di quello stesso dibattito: l’uno, si vuol dire, la centralità della questione urbanistica come perno di una intera politica del territorio, che, emersa negli anni Sessanta, giungeva a maturazione proprio all’inizio dei Settanta contestualmente all’avvio dell’esperienza regionale; l’altro, l’emergere di una sensibilità nuova – esterna ai partiti ma tale da interessare ed in taluni casi persino impegnare anche intellettuali e tecnici vicini od organici ai partiti – che metteva al centro dell’agenda politica e del dibattito il tema della difesa dell’ambiente contro i guasti della modernità. L’intersecarsi di questi due vettori di sviluppo trovò proprio nel tema della Regione – delle competenze e degli strumenti, ed in fondo del ruolo che ad essa doveva essere riconosciuto – un nuovo terreno d’elezione.

Un censimento anche rapido degli indici delle riviste principali – di orientamento ideologico e di dibattito intellettuale – anche a non voler prendere in considerazione l’amplissimo panorama della stampa quotidiana, dimostra come all’indomani del 1945 la riflessione sul tema del patrimonio subisca questa complessiva torsione e come su di essa si impegni anche una più complessiva e delicata sfida relativa all’incontro delle principali culture politiche italiane con gli intellettuali dopo la fine del modello di intellettuale universale di matrice illuministica. È significativo, in questo senso, che l’attenzione alle questioni del patrimonio, del paesaggio e della loro tutela, appaia più precoce in quei gruppi e segmenti che vivono, in un continuo processo di scomposizione e ricomposizione, all’esterno delle grandi forze politiche di massa, e come sia spesso sotto l’impulso e la sollecitazione di questi gruppi o di queste personalità talvolta isolate, che i partiti stessi prendano coscienza del problema. Nel 1945, ad esempio, il tema della gestione del patrimonio era stato rilanciato con due articoli di Bernard Berenson e Ranuccio Bianchi Bandinelli pubblicati nei primi fascicoli de “Il Ponte” dedicati al problema della ricostruzione di Firenze e può dirsi che per tutto il primo decennio repubblicano il dibattito si fosse imperniato prevalentemente sugli aspetti della distruzione del patrimonio durante la guerra, sul recupero dei centri abitati (ed al loro interno dei centri storici), sulle tutele da applicare per la salvaguardia del patrimonio in caso di conflitto armato. Il risultato principale del dibattito politico e giuridico del primo ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale era stato infatti la Convenzione dell’Aja del 1954 che aveva stabilito delle regole certe di diritto internazionale e che, soprattutto, aveva per la prima volta introdotto nell’uso il termine di “bene culturale”. Successivamente il dibattito aveva seguito prevalentemente le linee di una riflessione sul problema dell’urbanistica, in particolare dopo il fallimento del progetto di riforma avanzato da Fiorentino Sullo e quello, immediatamente successivo di Giovanni Pieraccini, mentre il tema della tutela del patrimonio era tornato drammaticamente al centro della discussione in conseguenza dell’alluvione che aveva colpito Firenze nel novembre 1966. Tuttavia, si può dire, anche nella fase crescente del dibattito regionalistico, l’impegno della rivista fondata da Piero Calamandrei si era soprattutto indirizzato ai temi di carattere istituzionale e politico, mentre pressoché nulli erano stati gli spazi di riflessione intorno al patrimonio e, peraltro, anche al paesaggio. I pochi articoli usciti, prevalentemente dedicati a Firenze, avevano tra l’altro evidenziato un atteggiamento conservativo non privo di striature decadenti e nostalgiche: quasi le voci diverse di un unico coro inneggiante al rimpianto per la bellezza perduta del capoluogo toscano.

Questo atteggiamento di ostilità al nuovo, di avversione al moderno in nome dell’antica bellezza del borgo italico – atteggiamento che aveva contraddistinto la prima stagione del movimento protezionista in Italia tanto sul versante del patrimonio storico-artistico quanto su quello ambientale – tornò in misura evidente di fronte ai guasti impressi dal “miracolo economico”, soprattutto connessi al fenomeno dell’urbanizzazione disordinata. E fu un atteggiamento proprio soprattutto di quella sensibilità laica che trovò spazio e voce nelle riviste raffinate di terza forza – soprattutto “Il Mondo” di Mario Pannunzio – come nei settimanali di attualità che osservavano l’imperversare della modernità su di un paese appena poco fa agricolo e legato ai ritmi stagionali della vita campestre. Nel 1950, ad esempio, era stato Mario Comisso a denunciare dalle pagine del “Mondo” i nuovi ricchi “pronti ad assaltare gli spazi liberi della spiaggia per installarvi stabilimenti balneari, a costruire in fretta ville e villette sul litorale, senza alcun piano regolatore”. Per non dire poi delle campagne antimoderniste ingaggiate da due intellettuali come Leonardo Borgese ed Antonio Cederna dalle pagine del “Corriere della Sera” e dello stesso “Mondo”: battaglie nelle quali ci si scagliava senza tema contro i simboli della modernità – soprattutto l’automobile – e si inneggiava addirittura ad un modello di conservazione mussale dei centri storici. Per Siena, e per l’inquinamento acustico ed il disordine portato nelle sue antiche e silenziose strade, Cederna immaginava addirittura che ciascuno dei suoi abitanti fosse in fondo colto da un desiderio irresistibile: prendere a calci automobilisti e motociclisti. E così, ancora, per Milano, per Roma, per Firenze, e per gli affollati e disordinati fenomeni di crescita che attraversavano le città italiane smontando, mattone per mattone, le antiche loggette, le piazze e le chiuse, i giardini e le corti interne, ma anche le attività economiche che costituivano il tessuto della tradizione artigiana e commerciale dell’Italia di un tempo: osterie, mescite, sali e tabacchi, negozietti di lavorazioni pregiate che andavano scomparendo.

Era, questa, una visione fortemente elitaria del patrimonio culturale ed ambientale, che non a caso scagliava i propri strali contro i fenomeni di aggressione di cui erano responsabili i nuovi ricchi, gli arricchiti parvenu dell’Italia del “boom”, i miracolati della crescita industriale che dalla provincia calavano come “nuovi barbari” sulle città devastandole in nome della presunta bellezza del progresso:

Allo stesso modo la visione elitaria che alludeva ad un’idea di paesaggio-cartolina da tutelare nella sua immobilità e contro i rischi del nuovo, trovò un terreno molto fertile nelle associazioni di difesa dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio che si svilupparono soprattutto a partire dagli anni Sessanta crescendo in particolare negli anni Sessanta in parallelo, e – si può dire – come forma di risposta critica al processo di industrializzazione che aveva segnato lo sviluppo capitalistico ed il paesaggio economico-sociale italiano. Si allude in particolare al ruolo di un’associazione come “Italia Nostra”, il cui “Bollettino” – ben più che essere un semplice foglio d’informazione – divenne rapidamente una tribuna dalla quale si alzava periodicamente la voce di intellettuali e politici contro i fenomeni di degenerazioni connessi all’urbanizzazione incontrollata. Ne fu testimonianza, tra le tante, il discorso di apertura del convegno milanese del 1972 su Regione e governo del territorio, tenuto da Pier Fausto Bagatti Valsecchi, ove si indicavano i non pochi esempi di territorio su cui l’intervento pubblico, e quello regionale soprattutto, apparivano ormai urgenti: le brughiere e le pinete dell’hinterland milanese, “intaccate dall’insipienza urbanistica e dall’assalto speculativo”, dalle paurose lottizzazioni avutesi negli anni Sessanta; le aree di palude che insistevano sui grandi laghi della Lombardia – Pian di Spagna per il lago di Como, paludi di Angera per il lago Maggiore, le zone rivierasche dei laghi, i cui comprensori turistici dovevano essere ormai considerati come aree da sottoporre ad organici piani globali di tutela paesistica, e che invece erano abbandonate agli interventi settoriali dei singoli comuni che consentivano la privatizzazione progressiva delle sponde ancora libere; e poi ancora il settore delle grandi infrastrutture contro la “stradomania” imperante e tipicamente italiana. Temi sui quali “Italia Nostra invocava l’intervento della Regione, valutandone l’istituzione come occasione irripetibile ma già polemizzando contro la ristrettezza delle competenze ad essa riservate dai decreti delegati di trasferimento. Così, in particolare, secondo le parole ancora di Bagatti Valsecchi, per quel che riguardava il settore del patrimonio artistico e monumentale: e non solo per la tutela dei centri storici, che tornava di attualità per la proposta del Consiglio d’Europa di dedicare al tema l’annata 1974, ma anche per quel che concerneva la tutela dei complessi monumentali e dei monumenti singoli, rispetto ai quali si ricordavano le positive esperienze già compiute in Lombardia per la gestione della Villa Reale di Monza, o in Emilia-Romagna, nelle forme di un piano regionale pluriennale di censimento e di organizzazione comprensoriale delle aree culturali, degli strumenti giurisdizionali e dei programmi di restauro, nella considerazione del museo come strumento della scuola, avanzato come proposta dalla Soprintendenza alle Gallerie di Bologna di concerto con alcune province emiliane.

L’azione di “Italia Nostra” costituì in questo senso non soltanto un elemento di spinta alla maturazione di una coscienza che accostava – peraltro in maniera equilibrata ed interessante – l’ecologismo nascente, non privo di striature ideologiche radicali, ad una più compiuta visione della conservazione e della tutela, che ad esempio portò l’associazione ad ingaggiare importanti battaglie per l’istituzione di bacini fluviali, e soprattutto di parchi naturalistici in zone di rilevante interesse (una su tutte la zona dei Monti dell’Uccellina ed il promontorio dell’Argentario); ma anche un rilevante impulso all’avvicinamento ed all’impegno di una cultura specialistica, di applicazione tecnica, che dava spazio al contributo di una fascia di intellettuali ed operatori nuovi rispetto alla tipologia classica dell’intellettuale universale, ma che alle nuove esigenze di una società repentinamente balzata al livello della modernità industriale sembravano meglio rispondere. Andò in questo senso, ad esempio, la pubblicazione, per i tipi della “Nuova Italia” di Firenze, di una collana “Educazione”, promossa dalla stessa “Italia Nostra”, ove proprio tra la metà e la fine degli anni Settanta comparvero titoli e firme riconducibili alla cultura urbanistica ed architettonica italiana: tra gli altri Massimo Olivieri, urbanista dell’Istituto di Pianificazione territoriale della Facoltà di Architettura di Roma, autore di un volume intitolato a Come leggere il territorio, Antonio Thiery, autore con il giornalista Donato Goffredo di un Ambiente e educazione, Fabrizio Giovenale, architetto ed urbanista e vicepresidente della stessa associazione “Italia Nostra”, autore di un Come leggere la città, per on fare che pochi esempi. E che, in collaborazione con l’Istituto per la Scienza della Pubblica Amministrazione, furono protagonisti di una stagione di dibattito regionalistico intenso e proficuo.

L’impegno della cultura tecnica, ed in particolare dell’urbanistica e dell’architettura, a favore della tutela, dell’organizzazione razionale del territorio in particolare con riguardo alla questione dei centri storici, e più in generale per una politica di decentramento ed autonomia che vedesse nell’ente Regione il proprio perno, fu anche, negli stessi anni, alla base dell’avvicinamento che alcuni segmenti di quella stessa cultura vissero alle forze politiche, di converso impegnate, esse stesse, all’apertura verso problemi nuovi e sin lì, spesso, sottovalutati. Nel dibattito socialista e comunista, in particolare, gli anni Sessanta-Settanta videro emergere, intorno alla Regione, alcuni dei nodi fondamentali di una visione articolata dello Stato e delle istituzioni protese allo sviluppo di una politica di programmazione, e se decentramento e programmazione divenivano gli elementi di una strategia complessiva che sorreggeva il tentativo di governo della modernizzazione avutosi con il centro-sinistra e poi la politica regionale anche come risposta agli esiti non del tutto soddisfacenti di quella stessa stagione, il tema dell’ambiente e del patrimonio culturale fu, in questo quadro, senza dubbio uno dei più rilevanti ed interessanti.

Che la Regione dovesse divenire il perno di una nuova politica di programmazione economica democratica, lo sostenne già nel 1964 Antonio Granelli dalle pagine di “Mondoperaio”, affermando essere la Regione il vero nemico degli interessi oligopolistici e capitalistici proprio perché ente che avrebbe innovato in maniera profonda ed irreversibile il rapporto città-campagna, Nord-Sud ed in fondo l’intera struttura dello Stato. Ed in maniera anche più articolata fu, l’anno, successivo, un intero numero monografico della rivista a chiarire come la programmazione e la politica di piano, all’interno della quale si inseriva il decentramento amministrativo e legislativo facente perno sulle Regioni, fosse da considerare come la fondamentale operazione politica di riforma dello Stato cui i socialisti puntavano. In particolare Pino Crea sottolineava come, a partire dalla legge urbanistica per la quale il centro-sinistra e soprattutto i socialisti si impegnavano, la Regione sarebbe divenuta strumento fondamentale di organizzazione dell’autonomia finanziaria ed amministrativa dello Stato. E ciò a partire, sottolineava Giuseppe Cuomo, da una politica di programmazione del territorio che facesse leva sull’attuazione della riforma urbanistica.

Nel luglio 1971, ancora dalle pagine della rivista di orientamento, ora diretta da Gaetano Arfè, fu Vito Raponi ad illustrare la posizione socialista in materia di tutela, sottolineando in modo particolare il ruolo che in materia avrebbero dovuto acquisire le neonate Regioni. Raponi contestava infatti l’attitudine centralistica che ancora si evidenziava soprattutto nelle posizioni del ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Riccardo Misasi. Il quale era si era fatto portatore di una idea di riforma del sistema di tutela mediante il distacco delle competenze dal ministero dell’Istruzione a favore di un altro ministero, pure esistente, che magari vedesse il proprio impegno alleggerito dal parziale trasferimento delle proprie funzioni alle Regioni. La Regione, al contrario, sarebbe dovuta divenire il nuovo soggetto protagonista della politica di gestione proprio in ragione del fatto che la Regione meglio di qualunque altro istituto avrebbe potuto realizzare quel coinvolgimento dal basso dei cittadini proteso alla loro partecipazione ed alla gestione democratica del patrimonio che avrebbero incarnato il principio, nuovo e progressista, della “socializzazione” della cultura:

Socializzazione e gestione democratica del territorio e dei beni culturali furono i cardini concettuali anche della proposta elaborata in questi anni dal Partito comunista, ricondotta all’idea della “regione aperta”: efficiente, decentrata, democraticamente organizzata. Talune esperienze contribuivano del resto a rafforzare la convinzione che la Regione potesse davvero divenire il perno di una politica di sinistra contrapposta al centralismo ed all’elefantiasi burocratica dei governi democristiani. Un esempio di tali possibilità fu la valorizzazione del circuito dei Teatri Stabili, fioriti sull’esempio di quello milanese promosso da Giorgio Strehler e Paolo Grassi nella Milano appena uscita dalla guerra, con un’idea di erogazione della cultura come servizio pubblico, sostenuta dall’amministrazione socialista di Antonio Greppi. Ed, insieme ad essi, dei circuiti dei teatri di base, o sperimentali e di strada, soprattutto a regionale. Così si esprimeva ad esempio, nel maggio del 1974, dalle pagine di “Rinascita”, Edoardo Fadini, commentando gli esiti del convegno tenutosi a Firenze a conclusione del Festival internazionale dei Teatri Stabili, aperto da Franco Ravà – Presidente del Teatro Regionale Toscano – e durante il quale molte erano state le voci levatesi ad invocare una gestione migliore e più trasparente degli stessi teatri stabili – come aveva detto ad esempio Ivo Chiesa, responsabile dello Stabile di Genova – ma anche a favore di organizzazioni decentrate, come ad esempio avevano sottolineato i responsabile dell’Associazione Teatrale dell’Emilia-Romagna e gli stessi rappresentanti dell’Arci nazionale:

Accanto a questo primo, un secondo esempio positivo di organizzazione decentrata della cultura fu, appunto, quello del teatro sperimentale di strada che proprio nelle regioni rosse – ed in particolare in Emilia-Romagna – ebbe in questi anni una particolare fortuna. Commentando l’edizione del 1973, svoltasi a S. Arcangelo di Romagna e segnata da alcune prove importanti (il “Teatro aperto” di Gianni Fenzi con L’eccezione e la regola di Bertolt Brech, il “Teatro Incontro” di Roma con Notte di guerra al Museo del Prado di Rafael Alberti, ma anche il giovane teatro romano “La maschera” con Pierandello chi? o lo spettacolo musicale dedicato al fascismo in Italia, Spagna e Grecia), lo stesso Fadini ne precisava il senso ed il significato sottolineando il ruolo attivo del pubblico nel senso del condizionamento e caratterizzazione degli spettacoli:

Così, il Convegno che aveva chiuso il Festival, aveva avanzato la proposta di creare centri di produzione (e non di distribuzione) con funzioni di propulsione nei confronti del territorio in cui essi fossero collocati, produzione a tutti i livelli ed in tutte le direzioni attraverso il coinvolgimento dei “tecnici-artisti” con le forze culturali del territorio, ed attraverso finanziamenti pubblici ed organizzazioni gestionali “sociali e partecipate” volte al loro inserimento in più vaste strutture regionali o comprensoriali.

Una terza, e particolarmente rilevante prova delle possibilità nuove offerte da una politica di democratizzazione delle strutture gestionali, di gestione razionale e recupero del territorio, fu infine l’organizzazione dei Festival dell’Unità: articolazione della possente macchina ricreativo-propagandistica del Pci che in questi anni, dai borghi più piccoli e periferici alle più grandi città, raggiunse dimensioni davvero impressionanti per ampiezza, potenza organizzativa e ricchezza di contenuti. E che soprattutto, in particolare per quel che riguarda l’organizzazione dei Festival nazionali, passò attraverso un efficace recupero degli spazi urbani. Da Milano a Venezia, da Firenze a Napoli, la costruzione della “cittadella comunista” – sorta di cittadella ideale fondata sui principi dell’autogoverno gestionale, della solidarietà, della crescita comune – segnò i mesi estivi come momento di recupero e valorizzazione di spazi abbandonati o scarsamente utilizzati. In questo quadro, appunto, il decentramento amministrativo imposto dalle deleghe regionali, e dalla legge attuativa n. 382 del 1975 – Norme sull’ordinamento regionale e sull’organizzazione della pubblica amministrazione – avrebbe rappresentato il grimaldello capace di scardinare il burocratismo centralistico dello Stato, creando una armonica sinergia con il nuovo, ed intanto finalmente costituito ministero per i Beni e le Attività Culturali.

I precedenti dell’opzione regionalista

In realtà – a ben guardare – la prospettiva regionalista nella gestione del patrimonio non rappresentava una novità, sia nella storia italiana, sia al confronto dell’Italia con altri paesi europei. Ancor prima della Costituzione repubblicana, erano stati soprattutto gli ordinamenti che regolavano il sistema delle Soprintendenze ad inserire un significativo elemento di organizzazione regionalistica nel quadro amministrativo italiano, che si era incuneato nell’impostazione centralistica acquisita con il Testo Unico per l’unificazione amministrativa del 1865. Il primo tentativo di razionalizzazione, a dire il vero, era stato fortemente continuista e centralizzatore. Esso era venuto con il Regio Decreto del 7 agosto 1874 n. 2032, che aveva istituito le Commissioni conservatrici dei monumenti e delle opere d’arte, con competenza provinciale: composte da quattro a sei commissari – in parte di nomina regia, in parte nominati dal Consiglio Provinciale – e presiedute dal Prefetto, alle dipendenze quindi del ministero degli Affari Interni e non dell’Istruzione. Tali Commissioni erano state effettivamente istituite con Regio Decreto n. 3028 del 5 marzo 1876: si prevedeva che a presiederle fosse il Prefetto, ma che – accanto ai Commissari – potesse essere nominato anche un Ispettore con competenze e funzioni tecniche. Tuttavia, pochi mesi dopo il Decreto del 1874, il Regio Decreto del 28 marzo 1875 n. 2440 aveva introdotto un elemento di novità piuttosto rilevante: accanto ad una Direzione centrale per gli scavi ed i musei archeologici, infatti, aveva abolito le Soprintendenze agli scavi di Roma e Napoli, istituite rispettivamente con Decreti luogotenenziali del 7 dicembre 1860 e del 10 novembre 1870, prevedendo che il sistema della Soprintendenze a scavi e musei archeologici avesse un coordinamento regionale suddiviso tra un’area settentrionale – comprendente Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana – una centrale – comprendente Umbria, Marche ed Abruzzo, oltre all’area metropolitana di Roma e provincia – ed una meridionale – comprendente Terra di Lavoro, Napoli e provincia, Puglie, Principati e Calabria; ed infine due commissioni speciali per Sicilia e Sardegna. Detto Decreto era stato commissionato dal ministro della Pubblica Istruzione Ruggero Bonghi a Giuseppe Fiorelli, già Ispettore agli scavi di Napoli e Pompei e dal 1863, per nomina del ministro Michele Amari, Direttore del Consiglio di Sovrintendenza agli scavamenti e reperti archeologici di Napoli e provincia.

Nel 1884, poi, il nuovo ministro dell’Istruzione Michele Coppino aveva istituito delegati regionali per l’inventariazione dei beni storici e cose d’interesse artistico. Il Regio Decreto n. 6197 del 20 giugno 1889, voluto dal ministro Guido Baccelli, aveva infine ratificato l’istanza regionalistica istituendo 12 Commissariati per le antichità e belle arti che avevano competenza – come si precisava nell’articolo 2 – “sulle Regioni del Regno qui appresso indicate”, con sede nella città designata. Alle dipendenze di ciascun commissariato venivano ricondotti musei, gallerie, scavi, monumenti ed istituti di belle arti che si trovassero nel territorio delle regioni indicate, ed in ogni commissariato venivano inquadrati funzionari del ruolo unico del servizio archeologico e parte del personale amministrativo degli istituti delle Belle Arti. Ogni commissariato eleggeva con durata triennale un consiglio tecnico. Annessa alla legge, firmata dal ministro dell’Istruzione Paolo Boselli, un regolamento in 21 articoli pel commissariato delle antichità e belle arti, prevedeva che il Commissario fosse in ordine gerarchico superiore a tutti gli impiegati degli istituti cui soprintendeva, e corrispondesse ufficialmente con il ministero e con le autorità delle province del territorio della Regione per tutto quanto concernesse il servizio di antichità e belle arti. In particolare competeva, secondo l’articolo 3 del regolamento, al Commissario:

a) sorvegliare l’andamento scientifico, artistico ed amministrativo degli istituti affidati alle sue cure;

b) provvedere alla conservazione e riparazione dei monumenti;

c) vegliare sull’andamento dei musei e delle gallerie provinciali e comunali, tenendo informato il ministero della considerazione cui possono aver diritto nella ripartizione del sussidio governativo;

d) permettere o vietare, in conformità delle leggi e dei regolamenti in vigore, l’uscita dalla propria regione degli oggetti che possono interessare la storia o l’arte;

e) accordare o negare l’ingresso gratuito nelle gallerie, nei musei, negli scavi, e nei monumenti nazionali, a seconda del disposto della legge 27 maggio 1875 n. 2554 e del relativo regolamento approvato col regio decreto 11 giugno 1885 n. 3191;

f) promuovere l’azione delle commissioni conservatrici e degli ispettori degli scavi, per la parte che loro compete secondo le norme vigenti;

g) sottoporre allo studio del Consiglio Tecnico tutto ciò che si riferisce alla conservazione dei monumenti e delle opere d’arte o di antichità; alle questioni che possono sorgere sull’esportazione degli oggetti antichi, e sulle modificazioni da introdursi negli ordinamenti interni dei singoli istituti per migliorarne i servizi;

h) rivedere il bilancio di ciascun istituto presentato dal rispettivo ispettore; curarne l’erogazione della spesa; sindacarne gli atti di contabilità prima di spedirli al ministero per la superiore approvazione;

i) tenere informato il ministero di tutto ciò che può interessare, in fatto di antichità o di arte, il servizio nella propria regione, riferendo sollecitamente sulle scoperte avvenute.

Al Commissario competeva anche, secondo la norma dell’articolo 20, la compilazione di quella parte di catalogo generale del patrimonio artistico ed archeologico della nazione che “riflettesse” la propria regione, adoperando il personale alle proprie dipendenze. In tale catalogo dovevano essere descritti:

a) gli edifizi di proprietà dello Stato, delle province, dei comuni, degli enti morali e dei privati, che nell’interesse della storia o dell’arte debbano considerarsi come meritevoli di essere conservati;

b) gli avanzi ed i ruderi di antiche costruzioni che abbiano interesse storico o artistico, da qualsiasi persona o ente posseduti;

c) gli oggetti di antichità o di arte esistenti nei musei e nelle gallerie dello Stato, completandone il catalogo generale in parte già edito dal ministero;

d) gli oggetti di grande pregio storico o artistico appartenenti a privati o ad enti morali.

È da notare, peraltro, che la soluzione “regionalistica” risultava comunque ibrida: il Decreto infatti manteneva gli antichi uffici speciali per Roma e Napoli, su cui pendevano le rispettive province. E del resto le notevoli speranze riposte in questo provvedimento erano state rapidamente vanificate, oltre che dalle difficoltà finanziarie, anche da una sorta di “tagliola” legislativa che il Decreto aveva innescato: esso infatti non prevedeva l’abrogazione del precedente atto istitutivo dei delegati per cui era stato pressoché impossibile trovare personale all’altezza delle necessità dei Commissariati, essendo gli uomini più competenti in materia già impegnati appunto come delegati. A conferma di questo sostanziale fallimento anche la costituzione degli Uffici Tecnici Regionali, promossa con Decreto n. 549 del 19 agosto 1891 dal ministro dell’Istruzione Pasquale Villari, aveva rappresentato di fatto la diretta evoluzione dei precedenti uffici dei delegati regionali, i quali erano stati infatti mantenuti al proprio posto venendo nominati a capo dei nuovi uffici, esattamente nel numero di 10.

L’opzione regionalista non era venuta meno nel corso degli anni successivi, quando anzi, proprio intorno al problema dell’organizzazione delle Sovrintendenze, essa era riemersa con forza come espressione di quel tentativo di razionalizzazione ad una impostazione connotata da una sorta di “centralismo debole” secondo la definizione datane da Guido Melis ed Angelo Varni, che aveva caratterizzato il riformismo giolittiano. Il Regio Decreto n. 431 del 17 luglio 1904, in particolare, aveva ridisegnato – sotto forma di regolamento amministrativo – la struttura dell’amministrazione delle Belle Arti, cui era dedicato, in un articolato normativo di ben 418 articoli, il Titolo I, Uffici. Perno dell’intera struttura rimanevano le Sovrintendenze, suddivise questa volta tra Sovrintendenze sui monumenti; Sovrintendenze sugli scavi, musei ed oggetti d’antichità; Sovrintendenze sulle gallerie ed oggetti d’arte. Accanto ad esse, poi, gli Uffici per l’esportazione di oggetti d’arte e di antichità. 10 erano le Sovrintendenze sui monumenti, suddivise tra Piemonte e Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia e Romagna, Toscana, Marche ed Umbria, Provincia di Roma, Province meridionali, Sicilia, Sardegna. Simile l’assetto di quelle su scavi, musei ed oggetti d’antichità – Piemonte e Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Romagna e Marche, Toscana ed Umbria, Provincia di Roma, Province meridionali, Provincia di Messina, Palermo, Trapani e Girgenti, Province di Catania, Siracusa e Caltanissetta, ed infine Sardegna. Ed ancora, 9 erano le Sovrintendenze sulle gallerie ed oggetti d’arte, ripartite tra Piemonte e Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia e Romagna, Toscana, Marche, Umbria e Provincia romana, Province meridionali, Sicilia e Sardegna. Una struttura dunque fondamentalmente regionale, nella quale semmai si mantenevano elementi di valorizzazione della competenza provinciale: innanzitutto per la specificità della provincia metropolitana di Roma, poi per quelle siciliane – in ragione delle peculiarità del loro patrimonio archeologico – ma anche stabilendo che, insieme alle Sovrintendenze, fossero anche Prefetti, Sindaci ed autorità dipendenti ad intervenire nella gestione organizzativa della tutela. Similmente, gli Uffici per l’esportazione degli oggetti d’arte e d’antichità erano organizzati in numero di 13 – Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Ravenna, Perugina, Roma, Napoli, Taranto, Palermo, Siracusa, Cagliari – ma si prevedeva anche la possibilità di istituire Sezioni distaccate delle Sovrintendenze per zone perimetrale della Regione, qualora le condizioni lo rendessero necessario, oltre ad Uffici per la direzione di un determinato scavo e direzioni autonome per determinati musei o gallerie. Un’amministrazione, dunque, che rispondeva all’intento di costruire un “rapporto diffuso” tra centro e periferia, come ancora Melis ha sottolineato, e nella quale pure si evidenziava il tendenziale affermarsi – in questo come in tutti gli altri settori dell’intervento pubblico in una società che diveniva di giorno in giorno più complessa – di “amministrazioni parallele”. Al vertice, infatti, stava il Sovrintendente, spesso un funzionario ministeriale, cui erano attribuiti compiti di controllo ed indirizzo, oltreché di suddivisione delle mansioni tra i funzionari dei diversi uffici, e le cui veci erano fatte dal più anziano tra gli Ispettori o gli Architetti – figure in posizione di “paritetica subordinazione” con diversità di compiti, ispettivi e di controllo gli uni, tecnici gli altri – e da questo vertice si dipanava una struttura gerarchica imperniata su Segretari e Vice-Segretari con compiti amministrativi e contabili, Soprastanti con competenze di vigilanza sugli edifici e di coordinamento dei Custodi, ed appunto Custodi che attendevano alla gestione dei servizi quotidiani (custodia e pulizia, vigilanza, vendita dei biglietti, etc.). Accanto alle Soprintendenze, erano previsti organi paralleli dei quali i più importanti erano – a norma dell’articolo 38 del Regolamento – gli Ispettori Onorari, di nomina elettiva, in carica per tre anni e rieleggibili, ed il cui ufficio era gratuito; e soprattutto le Commissioni regionali, istituite in ogni regione con sede in una città in cui fosse presente la Soprintendenza, deputate a dare parere su ogni argomento riguardante la tutela e la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’antichità e d’arte nella rispettiva regione, oltre alla possibilità di fare proposte in materia di tutela sul patrimonio presente nelle singole province. Composte di non meno di sei e non più di dieci membri, esse avrebbero compreso anche i Soprintendenti, che ne avrebbero fatto parte di diritto.

L’assetto dell’Amministrazione delle Belle Arti era infine stato disegnato, dalla legge n. 386 del 27 giugno 1907, intitolata Uffici e personale delle Antichità e Belle Arti, il cui progetto era stato presentato alla Camera nella seduta del 2 febbraio 1907 dal ministro dell’Istruzione – il ravennate Luigi Rava – di concerto con il ministro del Tesoro Angelo Majorana, giurista siciliano di riconosciuta autorevolezza, ed era il risultato dei lavori di due successive commissioni: la prima – istituita da Leonardo Bianchi, titolare della Minerva nel 1905, presieduta da Felice Barnabei e composta dai Deputati Cesare Merci e Giovanni Abignente, da Raffaello Biffali, Consigliere della Corte dei Conti, e da Gaetano Riccio, Ragioniere dello Stato; la seconda, presieduta da Giannetto Cavasola e composta da Giovanni Rosadi, Corrado Ricci, Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, da Alfredo D’Andrade, Direttore dell’Ufficio Regionale dei Monumenti di Torino, dal Direttore del Museo Archeologico di Bologna Edoardo Brizio, dal capo divisione del personale presso il ministero dell’Istruzione Ernesto Masi, e dal caposezione dello stesso ministero, Calza, che aveva assunto funzioni di Segretario. La legge del 1907, peraltro, aveva restaurato, di fatto e diritto, la primazìa della competenza provinciale: le Soprintendenze – suddivise tra Soprintendenze ai monumenti, Soprintendenze agli scavi e musei, e Soprintendenze alle gallerie – erano infatti organizzate in circoscrizioni interprovinciali ricondotte al capoluogo: 18 Soprintendenze ai monumenti – Torino (per le province di Torino, Alessandria, Novara, Cuneo, col circondario di Bobbio), Genova (province di Genova e Porto Maurizio), Milano (province di Milano, Como, Bergamo, Sondrio, Brescia, Cremona, Pavia, meno il circondario di Bobbio), Verona (province di Verona, Mantova e Vicenza), Venezia (province di Venezia, Belluno, Udine, Treviso, Padova e Rovigo), Ravenna (province di Ravenna, Forlì e Ferrara), Bologna (province di Bologna, Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena), Firenze (province di Firenze, Lucca, Massa, Livorno, Arezzo e Pisa, meno Volterra), Siena (province di Siena e Grosseto, con la città di Volterra), Perugia (provincia di Perugia), Ancona (province di Ancona, Pesaro, Macerata, Ascoli, Teramo e Chieti), Roma (province di Roma ed Aquila), Napoli (province di Napoli, Caserta, Benevento, Avellino, Salerno), Bari (province di Bari, Foggia, Lecce, Campobasso), Reggio Calabria (province di Reggio Calabria, Potenza, Catanzaro e Cosenza), Palermo (province di Palermo, Messina, Caltanissetta, Girgenti e Trapani), Siracusa (province di Siracusa e Catania), Cagliari (province di Cagliari e Sassari). E sullo stesso modello, con alcune piccole differenze, erano state organizzate le Soprintendenze agli scavi e musei e quelle alle gallerie, musei medievali e moderni, oggetti d’arte. La struttura delle Sovrintendenze riprendeva, del pari, la conformazione gerarchica e piramidale dei precedenti decreti: dal Sovrintendente, discendevano via via gli Ispettori, gli Architetti, i Segretari e Vice-Segretari, i Soprastanti, i Custodi. Ad essi erano attribuite le competenze ordinate secondo le indicazioni del Sovrintendente, e la Sovrintendenza erano coadiuvate – a norma dell’articolo – 2, da personale degli Affari Interni e della Pubblica Istruzione:

Dunque l’organizzazione delle Soprintendenze aveva dimostrato al tempo stesso le grandi possibilità offerte da una politica di decentramento amministrativo, ma anche i limiti opposti da una persistente diffidenza nei confronti di quello che Valentino Leonardi, nell’importante convegno degli Ispettori Onorari che si era svolto, nelle sale del Collegio Romano, dal 22 al 25 ottobre 1912, aveva definito come il principio del discentramento amministrativo. Sotto il primo rispetto esso aveva consentito la maturazione di una generazione di tecnici, intellettuali e studiosi, allievi, diretti o indiretti, di studiosi la cui autorevolezza scientifica era pari alla potenza accademica e politica, e che erano andati ad occupare, oltre alle cattedre universitarie di storia dell’arte, anche gli uffici superiori dell’amministrazione delle Belle Arti: Giulio Cantalamessa, ad esempio, Michele Ruggiero – allievo di Fiorelli – Luigi Del Moro, formatosi nell’Accademia di Belle Arti di Firenze, Raffaele Faccioli, Alfredo D’Andrade, Luca Beltrami, e poi ancora Giulio Cantalamessa o Giambattista Toschi, allievi o coetanei di Adolfo Venturi, l’uomo che aveva legittimato la storia dell’arte come disciplina accademica. Su tutti, spiccava, dal 1906, il ravennate Corrado Ricci, autentico dominatore della scena nel campo delle politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico italiano per i decenni successivi in qualità di Direttore Generale delle Belle Arti. D’altra parte, quel discentramento cui aveva accennato Leonardi era stato in effetti ricondotto infine alla competenza della circoscrizione provinciale, poiché, in particolare, la carica di Soprintendente era stata concepita come carica ad locum e sulla base di un sistema locale si fosse concepito anche il reclutamento del personale. Il merito della legge del 1907, secondo Leonardi, era stato appunto quello di aver sviluppato un sistema di decentramento burocratico encomiabile. Un sistema, però – aveva sottolineato Giovanni Rosadi, relatore della proposta e massimo esponente politico, insieme a Rava, del movimento protezionista di inizio secolo – imperniato sul criterio della maggiore possibile limitazione di territorio, proprio per evitare la “dispersione in periferia, dove l’azione degli organi di tutela si sarebbe ‘illanguidita’ al pari di come si illanguidisce il sangue nelle estremità inerti del corpo”. E così, la legge-quadro del 1909, la legge “Rosadi-Rava”, risultato di un iter legislativo estremamente complesso e dietro il quale vi era un dibattito assai inteso sviluppatosi all’incrocio dei due secoli, e che aveva visto il coinvolgimento, nelle diverse Commissioni di studio istituite da titolari della Minerva – Niccolò Gallo, Nunzio Nasi, Errico De Marinis, ed infine Luigi Rava – di tutto il fronte compatto dei “conservatori”, politici e cultori d’arte – in particolare la Commissione presieduta da Giovanni Codronchi Argeli, della quale avevano fatto parte Luca Beltrami, Giuseppe Carle, Michele Carta-Mameli, Romualdo Palberti, Giovanni Abignente, Felice Barnabei, Enricio Galluppi, e poi i funzionari della Direzione Generale Antichità e Belle Arti Giambattista Calabrese, Alfonso Sparagna, Primo Levi, Corrado Ricci, e studiosi del livello di Luigi Pigorini, Francesco Ruffini, Ghino Valenti, Riccardo Artom, oltre agli stessi Leonardi e Rosadi – aveva sancito questa impostazione. Una impostazione nella quale il rapporto tra centro e periferia era legato primieramente all’attenzione al controllo preventivo, alla strutturazione di competenze territoriali perimetrate, anche in ragione delle osservazioni che il dibattito intorno alla tutela aveva consolidato negli anni precedenti all’interno del laboratorio delle riviste e che aveva disegnato un quadro sconfortante delle condizioni in cui versava il patrimonio e soprattutto il personale deputato alla conservazione, un personale – come era stato segnalato sulla “Nuova Antologia” nel 1904 a proposito delle condizioni della Biblioteca Nazionale di Torino.

Questa distanza tra il personale e le condizioni dell’alta amministrazione delle Belle Arti, ed il personale, si potrebbe dire, minuto, quotidiano, che attendeva ai servizi, non era stata superata – ché anzi, si potrebbe dire, era stata ulteriormente accentuata – dall’azione politica del regime fascista, culminata nelle due leggi fondamentali che avrebbero informato l’ordinamento della tutela per tutto il periodo successivo al 1945 fino all’istituzione del ministero, e che avevano tratto i propri elementi dal dibattito che aveva vista impegnata la nuova generazione degli studiosi e dei critici d’arte che avevano affiancato Giuseppe Bottai in questo lavoro – si vuol citare perlomeno, su tutti, Giulio Carlo Argan, vero e proprio “disegnatore” delle leggi del 1939 – fino alle indicazioni, immediatamente precedenti l’approvazione della legge, venute in un altro importante Convegno degli Ispettori, svoltosi dal 4 al 6 luglio 1938, che della legge può considerarsi il preludio maturo. Nel quale, infatti, oltre alle positive valutazioni venute, oltre che dallo stesso Bottai, anche da Argan, appunto, che aveva dedicato la propria relazione all’Istituto Centrale del Restauro, anche meno positive e più allarmate raccomandazioni ad organizzare in maniera precisa ed efficace il rapporto tra “alto e basso” dell’amministrazione: innanzitutto nelle raccomandazioni di Roberto Longhi sul tema della catalogazione, che contenevano numerosi dettagli tecnici innovativi e soprattutto la proposta di concepire il catalogo come un vero e proprio studio dell’oggetto nel quale ad esempio la scheda tecnica di dettaglio venisse affiancata dalla fotografia; ma soprattutto negli interventi dedicati all’amministrazione delle Belle Arti, che avevano sottolineato la necessità di un rapporto coordinato tra centro e periferia che consentisse al tempo stesso controllo ed autonomia discrezionale: Giuseppe Moretti aveva evidenziato la necessità di costruire un rapporto virtuoso tra Soprintendenze ed organi di vigilanza repressiva (Prefetture) e tecnico-ispettiva (Uffici del Genio Civile ed Intendenze di Finanza); Salvatore Aurigemma aveva legato a queste funzioni l’opportunità di esercitare una vigilanza che passasse attraverso la rete delle Soprintendenze sui Musei Civici, semmai sottolineando l’opportunità di ricondurre la rete di questi musei ad una impostazione regionale.

La questione del regionalismo si era poi riproposta in sede Costituente, quando la voce potente di Concetto Marchesi, levatosi, sulla scorta di pareri di autorevoli istituzioni culturali, a difendere il patrimonio nella sua unitarietà, era stata temperata dall’intelligente proposta di Emilio Lussu che aveva portato ad inserire – nella dizione del secondo comma dell’articolo 9 – il termine Repubblica al posto di Stato, a significare che la competenza della tutela era imputata allo Stato-ordinamento e non soltanto allo Stato-persona. Una norma che tra l’altro era stata largamente superata, nel quadro normativo, dalla continuità della legge del 1939, rimasta fino all’istituzione del ministero la legge-quadro fondamentale, anche in ragione della considerazione delle norme dei primi 12 articoli della carta costituzionale assai più come norme programmatiche che non come norme vincolanti, ovvero norme che esprimevano valori, configurando quello che Enrico Spagna Musso, in un’opera celebre del 1961, aveva definito lo “Stato di cultura”.

I beni culturali ed ambientali nelle due fasi del regionalismo

Quando dunque si arrivò all’attuazione dell’istituto regionale, il problema dell’organizzazione della tutela del patrimonio, ed accanto ed insieme ad esso, del paesaggio, aveva alle spalle una riflessione sedimentata nel corso di oltre un secolo. Gli Statuti ordinari riprodussero tutti, in maggiore o minore misura, le norme delle Regioni a Statuto Speciale, inserendo nei primi articoli il riferimento all’impegno che la Regione avrebbe profuso a favore della tutela e della valorizzazione: testimoniando “la consapevole rivendicazione da parte delle regioni di un proprio ruolo in campo culturale e ad orientar la futura opera di produzione legislativa”, ma anche sollecitando “una interpretazione evolutiva delle norme costituzionali”, favorita dall’apertura che progressivamente cominciò ad evidenziarsi tanto da parte degli organi di indirizzo politico, quanto da parte della Corte Costituzionale.

Durante le due fasi dell’attuazione regionalistica in Italia, l’azione dei nuovi enti fu connotata dallo sforzo di “temperare” gli indirizzi restrittivi impressi alle norme, con un’azione politica non priva di risultati di interesse. In particolare, in un primo momento, le regioni rilevarono l’opportunità di accedere ad una concezione “più moderna” dei luoghi di conservazione, da intendersi come “luoghi di diffusione della cultura”, e come del pari il trasferimento alle regioni di poteri concepiti “per settori organici” e non attraverso una elencazione tassativa delle competenze, dovesse indurre a dare al decentramento una interpretazione più ampia ed evolutiva. Così, ad esempio, su proposta dei Consigli regionali furono trasferite alle Regioni le competenze sulle sovrintendenze bibliografiche, allora dipendenti dal ministero della Pubblica Istruzione, in considerazione del fatto che le attività di vigilanza, inventariazione e restauro del materiale bibliografico in possesso di biblioteche pubbliche non statali e private potessero private la propria più idonea collocazione in sede locale: Fu cancellato inoltre il comma dell’articolo 4 che faceva salve le attribuzioni allo Stato di tutte le competenze “comunque connesse alla materia”. Si ampliarono notevolmente, infine, i poteri veri e propri. La Regione finì per acquisire il ruolo di una “autonomia subordinata” che da un lato esercitava un potere svincolato di produzione normativa, ma dall’altro funzionava da garante dello Stato per l’attuazione delle competenze dello stesso. Il comma 2° dell’articolo 7 del Decreto n. 3 14 gennaio 1972 delegava alle Regioni le funzioni concernenti:

a) la istituzione, l’ordinamento ed il funzionamento dei musei e delle biblioteche di enti locali o di interesse locale, ivi comprese le biblioteche popolari ed i centri di pubblica lettura istituiti o gestiti da enti locali e gli archivi storici a questi affidati;

b) la manutenzione, l’integrità, la sicurezza ed il godimento pubblico delel cose raccolte nei musei e nelel biblioteche di enti locali o di interesse locale;

c) gli interventi finanziari diretti al miglioramento delle raccolte dei musei e delle biblioteche suddette e della loro funzionalità;

d) il coordinamento dell’attività dei musei e delle biblioteche di enti locali o di interesse locale;

e) le mostre di materiale storico ed artistico organizzate a cura e nell’ambito dei musei e biblioteche di enti locali o di interesse locale.

Ma fu, ancor più, l’articolo 9 dello stesso Decreto ad ampliare notevolmente le competenze regionali, delegando ad esse una serie di competenze amministrative così elencate:

a) vegliare sulla conservazione ed eventuale riproduzione dei codici, degli antichi manoscritti, degli incunaboli, delle stampe ed incisioni rare e di pregio possedute da enti e da privati e curare la compilazione del catalogo generale e dell’elenco indicativo di detto materiale;

b) fare le notificazioni di importante interesse artistico o storico a termini dell’articolo 3 della legge 1° giugno 1939 n. 1089, ai proprietari o possessori degli oggetti di cui all’articolo 1, comma primo, lettera c) della legge stessa;

c) vigilare sull’osservanza delle disposizioni della suddetta legge per quanto concerne le alienazioni e le permute delle raccolte di importante interesse, possedute da enti e da privati, nonché delle disposizioni di cui alla legge 2 aprile 1950 n. 328, per quanto concerne le mostre non indicate nel precedente articolo 7, lettera e);

d) proporre al ministero il restauro ai manoscritti antichi e le provvidenze idonee ad impedire il deterioramento del materiale bibliografico di alta importanza storica ed artistica;

e) proporre al ministero gli espropri del materiale prezioso e raro che presenti pericolo di deterioramento e di cui il proprietario non provveda ai necessari restauri nei termini assegnatigli ai sensi delle norme vigenti in materia;

f) esercitare le funzioni di ufficio per l’esportazione ai sensi della suddetta legge 1° giugno 1939, n. 1089;

g) proporre gli acquisiti di materiale prezioso e raro ogni qualvolta ritengano che debba essere esercitato dal governo il diritto di prelazione;

h) operare le ricognizioni delle raccolte private;

i) promuovere l’istituzione di nuove biblioteche e vigilare sulle biblioteche popolari non di enti locali riferendo al ministero circa le condizioni di esse ed il loro incremento;

l) preparare i dati per la statistica generale.

Ancor più incisivo fu l’effetto della pressione politica esercitata dai Consigli Regionali nella fase della cosiddetta “seconda regionalizzazione”, avviata con la legge n. 382 del 22 luglio 1975 – che conferiva al governo una delega annuale per completare il trasferimento delle funzioni alle Regioni – ed imperniata sul Decreto Delegato n. 616 del 24 luglio 1977 – Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 luglio 1977 n. 382. L’impianto generale del Decreto, innanzitutto, appariva molto più articolato ed ampio nel deferimento delle competenze: alle Regioni venivano infatti attribuiti, a norma dell’articolo 2, poteri su “settori organici” di competenza, ed in particolare: ordinamento ed organizzazione amministrativa; servizi sociali; sviluppo economico; assetto ed utilizzazione del territorio. Su tali settori le Regioni potevano emanare norme di organizzazione e di spesa, norme di attuazione ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 117 della Costituzione, ma anche norme di legge con le quali si subdelegasse a province, comuni ed altri enti locali l’esercizio delegato di funzioni amministrative dello Stato. L’esercizio di tali competenze veniva effettuato attraverso organizzazioni consortili, e nell’ambito degli indirizzi programmatici dettati dallo Stato a livello nazionale, a norma dell’articolo 11.

Nell’architettura del Decreto, in secondo luogo, la materia dei beni culturali veniva richiamata come titolo del Capo VII ed all’interno della materia organica dei “servizi sociali”, disciplinata dal Titolo III. Al suo interno venivano significativamente dedicati al problema tre articoli rispettivamente intitolati – con evidente ampliamento concettuale e politico – a Musei e biblioteche di enti locali (art. 47), Beni culturali (art. 48), Attività di promozione educativa e culturale (art. 49). Molto più ampia era, in questo senso, la gamma dei “luoghi di conservazione” sottoposti alla tutela o alla gestione regionale. Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina, infatti, è evidente il dettato dell’articolo 47 rappresentasse un notevole incremento alle competenze del nuovo ente, nella direzione di un decentramento che – pur se richiamato sinteticamente sotto l’espressione di musei e biblioteche – ineriva ormai luoghi e funzioni assai più articolate: esse concernevano infatti “tutti i servizi e le attività riguardanti l’esistenza, la conservazione, il funzionamento, il pubblico godimento e lo sviluppo dei musei, delle raccolte di interesse artistico, storico e bibliografico, delle biblioteche anche popolari, dei centri di lettura appartenenti alla Regione o ad altri enti anche non territoriali sottoposti alla sua vigilanza, o comunque di interesse locale, nonché il loro coordinamento reciproco con le altre istituzioni culturali operanti nella Regione ed ogni manifestazione culturale e divulgativa organizzata nel loro ambito”. Comprese tra le funzioni trasferite alle Regioni erano inoltre quelle esercitate da organi centrali e periferici dello Stato in ordine “alle biblioteche popolari, alle biblioteche del contadino nelle zone di riforma, ai centri bibliotecari di educazione permanente”, oltre ai compiti attribuiti al servizio nazionale di lettura1. Semmai può osservarsi che l’indicazione del’articolo 48, specificamente dedicata all’organizzazione delle funzioni amministrative delle Regioni e degli enti locali in ordine alla tutela del patrimonio storico, artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologico venivano genericamente rimandate ad una legge da emanarsi entro il 31 dicembre 1979, che in realtà non avrebbe mai visto la luce. Molto più precisa, da questo punto di vista, era la normativa relativa alla tutela delle bellezze paesaggistiche e dell’ambiente, disciplinata non solo – sotto il profilo morfologico – tra le materie relative allo sviluppo economico sotto il Capo VIII Agricoltura e foreste, per quel che riguardava, ad esempio, le calamità naturali o la disposizione di territori montani, foreste, e per quanto concerneva la conservazione del suolo; ma anche e soprattutto nel Titolo V – Assetto ed utilizzazione del territorio – che prevedeva all’articolo 82 – Beni ambientali l’esatta individuazione delle funzioni amministrative delegate, ripartite nel modo seguente:

a) l’individuazione delle bellezze naturali, salvo il potere del ministro per il beni culturali ed ambientali, sentito il Consiglio nazionale per i beni cultural ed ambientali, di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvate dalle Regioni;

b) la concessione delle autorizzazioni o nulla osta per le loro modificazioni;

c) l’apertura di strade e cave;

d) la posa in opera di cartelli o di altri mezzi di pubblicità;

e) l’adozione di provvedimenti cautelari anche indipendentemente dall’inclusione dei beni nei relativi elenchi;

f) l’adozione dei provvedimenti di demolizione e l’irrogazione delle sanzioni amministrative;

g) le attribuzioni degli organi statali centrali e periferici inerenti le commissioni provinciali previste dall’articolo 2 della legge 29 giugno 1939 n. 1039, e dall’articolo 31 del Decreto del Presidente della Repubblica 3 dicembre 1975 n. 805;

h) l’autorizzazione prevista dalla legge 29 novembre 1971 per la tutela dei Colli Euganei.

Tuttavia, per altro verso, l’articolo 49 prefigurava una competenza assai più ampia delle Regioni non tanto per la conservazione e tutela, quanto soprattutto per la valorizzazione e la promozione delle attività educative e culturali: “direttamente o contribuendo al sostegno di enti, istituzioni, fondazioni, società regionali o a prevalente partecipazione di enti locali e di associazioni a larga base rappresentativa, nonché contribuendo ad iniziative di enti locali o di consorzi di enti locali”2. Elementi sui quali, significativamente, le Regioni avrebbero fatto leva negli anni successivi per sviluppare un’attività di normazione di interesse e rilevanza tutt’altro che trascurabile.

Biografia

Andrea Ragusa è professore associato di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Siena e direttore del Centro Interuniversitario per la Storia del Cambiamento Sociale e dell’Innovazione. Concentra da alcuni anni i propri interessi scientifici sul tema della gestione del patrimonio culturale. Ha pubblicato in questo ambito Alle origini dello Stato contemporaneo. Politiche di gestione dei beni culturali ed ambientali tra Ottocento e Novecento (FrancoAngeli, Milano 2011).

Biography

Andrea Ragusa is Associated Professor of Contemporary History at the University of Siena and Director of the Interuniversity Centre for the History of Social Change and Innovation. In the last years he focused on the history of politics for cultural and environmental assets. He published The beginning of the contemporary State. Politics for cultural and environmental management during 18th and 19th centuries (FrancoAngeli, Milano, 2011).

Bibliografia

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2002                I beni culturali e la tutela dell’ambiente, Milano, Giuffrè.

 

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2005                La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato: studio dei modelli di gestione integrata, Milano, FrancoAngeli.

 

Floridia A. (cur.)

2001                Beni culturali in Toscana: politiche, esperienze, strumenti, Milano, FrancoAngeli.

 

Floridia A., Misiti M. (cur.)

2003                Musei in Toscana: beni culturali e sviluppo regionale, Milano, FrancoAngeli.

 

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2006                I beni culturali patrimonio della collettività tra amministrazione pubblica e territorio, Atti del Convegno promosso dall’Associazione archivistica italiana – Sezione Toscana, Firenze, 31 marzo-1° aprile 2004, Firenze, Pagnini.

 

Piergigli V., Maccari A.L. (cur.)

2006                Il codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, Milano, Giuffrè.

  1. D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 – Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 luglio 1975 n. 616 – “Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti della Repubblica Italiana”, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma, 1978, Vol. VI, p. 1789. []
  2. Ibidem []