di Michelangela Di Giacomo
Trovandosi per le mani il volume “Ispanismo internazionale e circolazione delle storiografie negli anni della democrazia spagnola (1978-2008)”, non si può non avere l’impressione immediata di essere di fronte al risultato di uno sforzo ponderoso. Non solo per la sua voluminosità, ma anche per il peso dei nomi che si incontrano scorrendo l’indice, che raccoglie tra i più autorevoli studiosi di Spagna provenienti dalle più disparate parti del globo. “Di Spagna” e non di “storia di Spagna” perché il volume – pur vertendo nella maggior parte delle riflessioni intorno alla storiografia – non si sottrae in molti suoi punti a riflettere sull’intera disciplina ispanistica. Che cos’è dunque l’“ispanismo”? L’ispanismo è “un fenomeno culturale curioso” (p. 9) perché nasce due secoli fa proprio dalla curiosità di alcuni studiosi non spagnoli interessati a temi legati alla cultura, alla lingua, alla letteratura, alla storia (e a molte altre discipline) del Paese iberico. E qui va la prima avvertenza: in moltissimi casi gli studi ispanici si sono inseriti in un contesto vasto, di studi sull’intera Penisola Iberica o persino sull’America Latina. Il volume, invece, accoglie l’impostazione della disciplina italiana, dove, più che altrove, occorre parlare esattamente di ispanistica. L’ispanistica è dunque in molti casi intrinsecamente un fenomeno di studi comparati, che si avvantaggia della lontananza del punto di vista dell’osservatore rispetto al fenomeno osservato e della possibilità di riconoscere similitudini e difformità con il proprio Paese d’origine. In altrettanti casi, ha origine in fenomeni di “ispanofilia”, cui però aggiunge spirito critico e ambizione scientifica, come segnala nel volume Benoît Pellistrandi: la parola stessa, in contesto francese, nasce negli anni Trenta, relegando l’espressione “hispanisant” al campo del dilettantismo – mentre il termine “hispaniste” dimostrava con la sua stessa esistenza la consolidazione di una disciplina intellettuale e/o accademica. L’ispanismo, indica Emilio La Parra López nel suo contributo, si caratterizza spesso per la interdisciplinarietà, poiché gli ispanisti stessi sono nati in molte occasioni – e soprattutto nei primi tempi della disciplina – come civilisationnistes.
Il dialogo tra ispanisti e studiosi spagnoli può essere – ed è stato, come cerca di dimostrare questo libro – tra i più fecondi. La questione slitta così dalla natura dell’ispanistica come questione di storiografia sino a diventare oggetto di storia culturale transnazionale sotto forma di circolazione mondiale di storiografie. Non potendo e non volendo avere ambizioni enciclopediche, il volume si concentra su alcuni momenti fondamentali di questo processo, nell’ambito della storia contemporanea e cercando soprattutto di valutare il peso che la Transizione alla democrazia ha avuto nello stimolare nuovi studi sulla Spagna attuale e passata, producendo di fatto una sostanziale rimodulazione di paradigmi storiografici che avevano avuto presa e durata. Tre i fattori che i curatori evidenziano: la fine dell’esilio intellettuale repubblicano e il conseguente ricambio generazionale della comunità storica spagnola; il tramonto del “mito differenziale” della penisola iberica e della sua alterità rispetto al resto di Europa – trasformando la Spagna da oggetto di esotismo a caso di studio di pari grado rispetto agli altri Paesi del continente; lo status esemplare acquisito dalla Transizione spagnola negli studi politologici; l’impatto sull’agenda storiografica di celebrazioni legate alla decolonizzazione. Questa ripresa degli studi ha condotto a dare solidità ad alcune linee di ricerca: i meccanismi del nation making spagnolo a cavallo tra Sette e Ottocento (anche come spiegazione delle lacerazioni del secolo seguente); un approccio culturalista al passato prossimo; una storicizzazione dell’attualità, con un’attenzione concentrata sul terrorismo e sulla condivisione della memoria.
Nel volume si raccolgono 18 saggi, che coprono la produzione storiografica inglese, francese, tedesca, est-europea, giapponese, statunitense e italiana – compreso un contributo di Alberto Gil Novales sulla storia della rivista “Spagna contemporanea”, animatrice del convegno da cui il libro deriva e sostanziale centro degli studi ispanistici italiani dal 1992, anno della sua fondazione. Larghissimo spazio è lasciato alla Francia, con quattro saggi tra cui uno, di 118 pagine, di Paul Aubert (…). In un doppio canale di lettura, ogni caso nazionale è seguito da un contributo sull’impatto di quella storiografia sul sistema degli studi storici in Spagna. Interessante anche la scelta di lasciare a alcuni saggi autonomi altrettanti temi centrali per la comprensione della storia spagnola recente: catalanismo (Giovanni C. Cattini), questione basca (in terra spagnola, dunque esulando dallo studio il versante francese, come spiegano José Luis de la Granja, Santiago de Pablo e Ludger Mees), cattolicesimo (Feliciano Montero e Julio de la Cueva) e fascismo/fascismi (Ismael Saz). Molti sono anche i saggi che ampliano l’orizzonte a quanti hanno scelto come oggetto di attenzione eventi al di là del XX secolo – così il caso del saggio di Vittorio Scotti Douglas dedicato agli studi sul XIX secolo o quello di Nigel Townson sulla storiografia britannica dedicata agli anni 1808-1936 – ma anche che ripercorrono gli studi dei precursori, risalendo quasi fino agli scritti dei viaggiatori di due secoli prima. Di particolare importanza, ci sembra, anche la scelta di spingersi sino a date recenti, rendendo conto degli sviluppi della storiografia nel primo decennio del XXI secolo, il che implicherebbe quanto prima un aggiornamento del volume per rendere conto anche dei decenni successivi in cui, è il caso dell’Italia, un nuovo filone di lusitanismo si sta affiancando alla vera e propria ispanistica. Proprio i tempi recenti hanno visto in molti casi una strutturazione sul piano accademico e il consolidamento di una tradizione, ma hanno anche mostrato una intrinseca fragilità di questi studi, non sufficientemente istituzionalizzatisi da reggere il contraccolpo della crisi mondiale e le sue conseguenze nel campo della ricerca. Se alle prime generazioni di studiosi mancava sostanzialmente un sistema di riferimenti e interlocutori, la generazione successiva – la “generazione erasmus” e dell’emigrazione intellettuale – ha avuto dei maestri con cui confrontarsi ma scarsissimi sbocchi accademici.
Cercando delle linee trasversali ai saggi raccolti nel volume – data l’evidente impossibilità di riassumerli in questa sede – ci sembra si possa dire che un primo aspetto è la sottolineatura dell’appartenenza dell’ispanistica a un sistema di condizionamenti legati da un lato al mondo accademico ma dall’altro – e forse di più – alle congiunture del presente. Sul primo versante, sembra che gli studi ispanistici traggano molto della loro struttura e predisposizione dall’ambiente più generale in cui si sviluppano: come sottolinea Carlos Forcadell, le tendenze storiografiche dei singoli paesi influenzano anche le scelte degli storici che si avvicinano allo studio della Spagna, quasi una trasposizione su temi ispanici dei tradizioni storiografici nazionali. La storia spagnola, peraltro, sembra essere oggetto di continua rivisitazione, tutt’altro che un oggetto consolidato. E ciò può essere fatto risalire al secondo dei “mondi” in cui l’ispanistica si sviluppa. Così ad esempio l’apparire, prima, e il venir meno, poi, di suggestioni politiche e militanti ha contribuito a cambiare i paradigmi sulla storia recente spagnola – fino, a volte, a sfociare nel revisionismo. Raramente, segnala Pellistrandi, un oggetto di studio viene scelto nel nulla: la peculiare vicenda degli esuli spagnoli e del franchismo, prolungatosi e confusosi con le dicotomie della Guerra Fredda, hanno creato in molteplici sensi forti vincoli emozionali, familiari e identitari. Spesso, dunque, gli ispanisti sono nati e cresciuti sotto l’influenza dei drammi della storia o dei loro affascinanti eroismi, rischiando di virare la scienza in ideologia. Se l’influenza dei fuoriusciti antifranchisti è comunemente nota, altrettanto interessanti sono le osservazioni di Walther L. Bernecker sull’influenza dell’anticomunismo come paradigma post-bellico nella Repubblica Federale che andava ad affiancarsi e sovrapporsi al gusto romantico ed esotista – discorso a parte e in parte opposto per la Repubblica Democratica. Così anche la scarsità di contatti sul piano delle relazioni internazionali di alcuni Paesi dell’area europeo-orientale ha avuto un paradigmatico riflesso nella possibilità per i loro storici di approcciarsi a tematiche ispanistiche, come sottolinea Matilde Eiroa San Francisco. Se in quel contesto è significativa la precoce attenzione per la Spagna nel contesto storiografico cecoslovacco – per via della simpatia della Repubblica Cecoslovacca per quella spagnola e per la sua sensibilità verso gli sviluppi della Guerra civile -, è altrettanto importante osservare come l’ispanistica sembra crescervi repentinamente sotto l’influsso del fascino per la Transizione democratica al venir meno i vincoli della cortina di ferro. Peculiare il caso dell’ispanistica giapponese, la cui origine, racconta J. Chiaki Watanabe, si deve in gran parte ai missionari cattolici spagnoli, come educatori di futuri ispanisti nelle facoltà di studi internazionali che rinacquero dalle macerie della Seconda Guerra mondiale. Infine, in molti casi emerge l’influsso che la contestazione giovanile a partire dai tardi anni Sessanta ha avuto nell’imposizione di nuovi paradigmi storiografici – dalla storia orale alla storia culturale alla storia dal basso, che hanno finito per interessare anche l’approccio al mondo ispanico aprendo la strada a un nuovo tipo di “storiografia militante”, già meno affascinata dal bando republicano e ben più interessata ai nuovi fenomeni destabilizzatori come la nascita delle Comisiones Obreras.
Dal volume emergono anche alcune – amare – considerazioni sul sistema culturale e accademico e l’impatto che tale struttura ha sulla proliferazione o il raffreddamento degli studi ispanistici – si potrebbe dire più in generale sui “temi storiografici in voga”. Paradossalmente, nonostante un continuo insistere sulla centralità del caso spagnolo, da considerarsi a tutti gli effetti un tassello di pari importanza nel grande puzzle della storia europea, da tutti i saggi emerge una marginalità diffusa dell’ispanistica nell’organizzazione degli studi accademici, anche e nonostante una ripresa di ispanofilia nelle giovani generazioni. Ostacoli molteplici sembrano venire alla espansione degli studi ispanistici dall’intero sistema culturale, in cui spesso le scelte editoriali sembrano essere il prodotto di tendenze commerciali finendo per indirizzare anche quelle accademiche, come segnala Townson. L’assenza, in molti casi, di accordi tra case editrici spagnole e del resto d’Europa, peraltro, può essere indicato tra gli ostacoli alla circolazione delle storiografie, soprattutto qualora si consideri la produzione in lingue più “ostiche” o comunque meno diffuse – dal tedesco al giapponese, per intendersi. Inoltre, vi è un “ritardo” nell’assimilazione di paradigmi elaborati altrove all’interno del sistema storiografico spagnolo. Così, ad esempio, la “nuova storiografia” tedesca sembra essere arrivata in Spagna con quasi un ventennio di ritardo, dovuto spesso alla mancata conoscenza di quelle opere da parte di chi avrebbe potuto operare per farle tradurre nel mercato editoriale peninsulare. D’altro canto, la circolazione continua degli storici spagnoli e non – e molto spesso di storici in formazione – dovuta alle congiunture del franchismo, prima, e all’apertura degli scambi, poi, ha facilitato la compenetrazione dei punti di vista, non solo e non sempre in forme esplicite e consapevoli ma con risultati anche eclatanti (basti pensare al caso di José Maria Jover e della sua lunga permanenza in Germania o all’esperienza della Escuela Española de Historia e Arqueología de Roma raccontata nel saggio di Juan P. Bellón Ruiz e Ricardo Olmos).
Infine, da tutti i saggi – non sapremmo valutare se ciò sia un bene o un male, ma propendiamo per la seconda opzione – emerge come l’ispanistica abbia visto ridursi il proprio peso proporzionale in parallelo all’espansione degli studi universitari e storici in Spagna che hanno dato luogo ad un ampissimo rinnovamento metodologico cui ha contribuito in misura prepeponderante anche il superamento del franchismo e della sua narrazione della storia a fini nazionali/nazionalistici. Il che, ma non è il compito di questo volume, aprirebbe la vasta riflessione sull’uso pubblico della storia – e in particolare della storia di Spagna – che qui appare solo come una citazione di Habermas nel saggio di Forcadell: “no deja de ser legítimo adaptar esta formulación, ya clásica y canónica, a un escenario español actual en el que, más de veinte años después, se despliega de modo tan visible – y simultáneamente – tanto la historiografía sobre la republica, la guerra civil y el franquismo como, a la vez, los usos públicos o memoriales de estos periodos del pasado reciente colectivo de los españoles” (p. 282). C’è spazio dunque, per un prossimo convegno e un prossimo volume.