Capelloni, moda, Inghilterra e Beatles: i simboli della contestazione giovanile nell’Italia degli anni Sessanta

Laura Di Scianni

Abstract

Negli anni Sessanta, la mancata risposta istituzionale alle domande sociali del nuovo popolo giovanile crea una frattura, che ha l’epicentro nella capitale anglosassone. Londra, infatti, offre alla nuova generazione opportunità di aggregazione, ma anche la possibilità di manifestare comportamenti di rottura generazionale con il mondo adulto. La minigonna, che propone un nuovo modello femminile rispetto allo stereotipo di moglie-madre; il blue-jeans, che evidenzia la differenza dal modello paterno; così come i capelli lunghi, i Beatles, il campeggio di via Ripamonti, e via dicendo, assurgono a “simboli del mutamento sociale e culturale”.

La nuova generazione

Negli anni Sessanta, per la prima volta, si prende coscienza di una nuova figura sociale, autonoma, scissa sia dal mondo infantile, sia dal mondo adulto: la figura del giovane. A partire dal 1960, si assiste ad una simultaneità di figure giovanili che si impongono sulla società adulta. Si fa riferimento agli antifascisti di Genova, agli operai meridionali che nel 1962 saranno a capo delle rivolte sindacaliste, ai beat e ai capelloni che anticiperanno di ben due anni la rivolta studentesca. A causa di queste prime contestazioni, i giovani acquisiscono l’appellativo di “ribelli”. Seguendo le indagini realizzate da Alfassio-Grimaldi e Bertoni (1964) sulla gioventù degli anni Sessanta, solo il 1964 rappresenta l’anno della quiete, l’anno in cui gli adolescenti italiani tornano ad essere i bravi ragazzi delle “tre emme”: moglie, macchina, mestiere. Ma sarà una breve parentesi che porterà al fatidico 1968. Una tale sfaccettatura all’interno della società giovanile viene colta anche dal “Corriere della Sera” (Sensini 1968), che conferma tale ritratto. I giovani diventano sempre più coscienti delle proprie capacità di formulare una cultura diversa da quella tradizionale. La ragione di ciò risiede nel fatto che, questi, essendo elemento di rottura e al tempo stesso elemento innovatore, diventano il filtro attraverso cui passano le novità, i disagi e le rivolte degli anni Sessanta e attraverso cui si pongono le basi per costruire un obiettivo sociale futuro. Ecco perché, questi nuovi soggetti, diventano i protagonisti di un’epoca considerata critica, soprattutto per il nostro Paese, che stenta a mettersi in pari con i grandi cambiamenti raggiunti dal resto d’Europa e dall’America. Il divario esistente può essere spiegato attraverso due chiari episodi: 1) la chiusura culturale causata dal ventennio fascista che comporta, con l’avvento degli anni Sessanta, un atteggiamento propenso soprattutto a recuperare tutto ciò era stato messo al bando dal regime piuttosto che prestare attenzione a quanto accade in Europa e America; 2) le resistenze conservatrici della Chiesa e della Democrazia cristiana (Crainz 2005).

Il mancato riformismo, dovuto proprio a queste resistenze conservatrici, frena l’avanzamento della modernizzazione italiana e innesca quello che sarà definito “periodo di instabilità”. Il motivo che porta la società, in particolare quella giovanile, a chiedere prepotentemente una riforma istituzionale e culturale, nasce dal bisogno di rimescolare una situazione stagnante. E ciò spiega il motivo per cui, all’interno di una data situazione storica, si verificano spinte – sociali, economiche o culturali – che provocano un “movimento” totale o parziale, capace di generare modifiche più o meno evidenti nel tessuto sociale stesso.

Il valore simbolico dei capelli lunghi

Un movimento di grande portata nel tessuto sociale italiano, viene provocato dalla simbologia dei capelloni. I capelli diventano il simbolo anticonformista di rottura con la società adulta, diventando il segno della protesta giovanile e della critica al sistema. Quindi i giovani per creare una netta differenziazione con gli adulti e trovandosi senza stabili punti di riferimento culturali e normativi, si rifugiano in strutture figurative autoprodotte e autorappresentate esclusivamente dai giovani per i giovani. Tali elementi, o simboli, sono da ritenersi delle “rappresentazioni sociali”, come li ha definiti Santambrogio (2002). I capelli lunghi devono ritenersi tali. Il concetto del capellone ha un campo d’azione molto ampio: capellone è il beat, capellone è il Sessantottino, capellone è colui che vive nelle Comuni. Questo grossolano raggruppamento confluisce in un unico simbolo principale: la lunghezza dei capelli. L’insieme così composto costituisce la subcultura italiana, ovvero un insieme di modelli di comportamento come risposta ai problemi sociali preesistenti agli anni Sessanta. La causa che ha favorito la nascita di una controcultura è riscontrabile nelle incertezze generate dalle strutture dominanti, dentro le quali la nuova generazione cerca di sopravvivere mediante strategie di adattamento. Il movimento beat è la prima strategia di sopravvivenza a cui ci stiamo riferendo. Rappresenta la storia di una piccola sottocultura giovanile italiana che, per alcuni anni, prima dell’esplosione del Sessantotto, influenzerà settori marginali del mondo giovanile. Per gli adulti il fenomeno è una conseguenza causata dall’effetto di imitazione imposto dalla moda ed è tenuto in piedi da un evidente movimento di interessi economici: il mondo della musica beat, i locali – come ad esempio il Piper – e l’abbigliamento specializzati. Esiste una distinzione tra i beat, e bisogna precisarla. Questi, pur risultando anticonformisti nella loro totalità, subiscono una scissione interna che li divide nel movimento radicale, legato alla protesta diretta, e nel movimento più moderato, legato alla protesta mediante la musica e la moda. Il cammino dei capelloni e della musica inizia assieme, dalla comune esigenza di rinnovamento e di libertà, e dalla ricerca di nuovi linguaggi e definizioni da contrapporre a quelli esistenti. La separazione tra i due mondi avviene quando la musica e la moda, vengono commercializzate e istituzionalizzate. Il primo gruppo resterà ancorato alla controcultura e alla rivista “Mondo Beat”, il secondo incarnerà la produzione musicale successiva ai Beatles.

I contestatori

La beat generation in Italia muove i primi passi a Milano, nel 1965, “come conseguenza degli squilibri e dei difficili momenti di fronte ai quali si trovano, durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale i giovani” (Ronzo 1966, 12) che, per protesta, assumo atteggiamenti non conformi alle volontà del Paese tanto da scatenare la repressione da parte della polizia, e quindi dello Stato, e da parte della gente comune che li deride e li addita come disadattati. Come è stato appena spiegato, è in questo clima che nasce la rivista simbolo dei capelloni italiani: “Mondo Beat”. In contrasto con la stampa ufficiale, laica e borghese sostenuta dal “Corriere della Sera”, è tra le esperienze più significative che si svolgono nel contesto della controcultura italiana. La testata alternativa, oltre a denunciare le calunnie e le ingiurie alle quali sono stati sottoposti i capelloni da parte degli organi di stampa controllati dal potere economico e politico, traccia un esauriente quadro della cultura, della mentalità, delle aspirazioni di questa frangia giovanile. “Mondo Beat” è la sintesi di quanto accade a Milano in questi anni tra le contestazioni e la nascita dei club culturali di periferia. In questi luoghi si riuniscono i giovani per discutere di politica o di cultura. I nuovi circoli, nati e gestiti autonomamente, rifiutano il coinvolgimento dei partiti che al contrario, vengono disertati (Risè 1965). La caratteristica peculiare che attira l’interesse della gioventù italiana consiste sia nell’anticonformismo di cui sono composti i nuovi circoli culturali, sia nella possibilità che questi offrono circa la discussione di quegli argomenti che non vengono affrontati né nelle sezione dei partiti né in fondo da nessuna altra parte: la condizione delle donne in Italia, il problema del divorzio, l’organizzazione della famiglia, la scuola. Dalla necessità di creare una società alternativa vista dalla prospettiva “capellonica”, il primo maggio 1967, nasce New Barbonia, un campeggio beat situato in un’area regolarmente affittata per quattro mesi da “Mondo Beat”, diventando il simbolo della nuova generazione di “sovversivi”. Il progetto beat entra subito in contrasto con i perbenisti e con il quotidiano milanese che lo identifica come il covo dell’anarchia, dell’immoralità. A Nuova Barbonia viene presto collegato un nuovo fenomeno, quello delle fughe. Si tratta di un fenomeno che non riguarda le bravate di adolescenti disadattati, bensì un problema massificato che non va generalizzato con quanto accadeva nei decenni precedenti, quando le fughe erano programmate per inseguire i sogni di ricchezza. Quelle degli anni Sessanta nascondono ben altri disagi. Alla base di tutto risiede la paura di diventare come i propri genitori (Malaspina 1967). Ad essere coinvolti sono soprattutto minorenni e, in particolar modo, ragazzine che scappano di casa rifiutando i due più solidi princípi su cui è imperniata la società italiana, quello che vede i figli sottoposti all’autorità dei genitori, alloggiati in casa fino a quando si formano una loro famiglia, e quello che vuole la donna sottomessa all’uomo, incapace di prendere iniziative autonomamente. Le fughe saranno un fenomeno che durerà per tutto il decennio malgrado la vita precaria a cui saranno destinati i giovani capelloni fuggiaschi. La particolarità che la rende tanto affascinante è l’idea che, la fuga, dia la possibilità di sviluppare la libertà personale e che aiuti il soggetto a svincolarsi dalla morsa di un’educazione che troppo spesso acquista il significato di imposizione di una data esperienza e di un dato modo di vivere. Quest’ultimo è senza dubbio un concetto errato se si pensa che l’azione dell’educare non è sinonimo di obbligare a fare o non fare, ma rappresenta la delimitazione di uno spazio in cui ci si può muovere indipendentemente seguendo delle regole basilari.

Il Sessantotto

Il capellone è per natura apolitico ma, con la svolta del Sessantotto, ripiega su alcune scelte estremiste. L’estremismo giovanile è la manifestazione di una crisi dei modelli organizzativi rappresentati dai partiti, particolarmente da quelli tradizionali – cattolici e comunisti – i quali, non coincidendo più con i progetti di rinnovamento sociale e culturale proposti dai giovani, vengono abbandonati dagli stessi per optare verso ideologie più radicali e verso l’azione attiva che si riscontrano nei gruppi della Nuova Sinistra. Il movimento studentesco – che sta alla base della contestazione del Sessantotto – è la sintesi di due fenomenologie: la crisi dell’associazionismo giovanile istituzionale – che trova la massima espressione nelle università a seguito della rivolta studentesca – e lo sviluppo di un associazionismo politico non istituzionalizzato come ad esempio è la Nuova sinistra. Dunque, il Sessantotto italiano, per le ragioni appena espresse, si identifica con la controcultura emergente e con i capelloni, esprimendo però un disagio maggiore che va oltre alla “rivolta contro i padri”, poiché si propone come protesta sociale e fenomeno di mobilitazione collettiva contro l’ordine esistente costituitosi subito dopo la Seconda guerra mondiale che verte sul modello americano e su quello sovietico. Tutto quello che accade negli anni Sessanta e in particolar modo nel Sessantotto, è relazionato quindi al fermento sociale promosso dal cambiamento, infatti, le stesse manifestazioni di dissenso e di contestazione descrivono le tensioni della società che il secondo dopoguerra ha partorito, per poi volgere verso un nuovo carattere sociale, appunto, nato tramite l’azione dei giovani.

Capelloni vs “Corriere della Sera”

La lotta tra capelloni – presi in ogni loro sfumatura – e civiltà adulta, trova la sua concretizzazione nella caccia alle streghe svolta dal “Corriere della Sera” ma soprattutto dal suo articolista Bugialli, il quale etichetta come immorali i ragazzi della nuova generazione. Immoralità, morale, sono termini che ricorrono spesso nei discorsi tenuti dalle generazioni adulte per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male. Ma chi ha stabilito il significato di questi concetti? E soprattutto, dopo aver intuito il senso che gli adulti danno della moralità, in che cosa consiste la stessa moralità per gli stessi capelloni? Per cominciare, non esiste un’idea in merito alla morale valida sempre e comunque e, in più, non esiste una morale che sia ereditabile, questa cambia in base ai cambiamenti che la società vive. Per i capelloni morale vuol dire semplicemente vivere la propria vita senza obbligare gli altri ad agire in determinati modi solo per soddisfare una propria comodità. Indro Montanelli, dalle pagine del “Corriere della Sera”, controbatte le convinzioni di Bugialli, rimarcando l’errore che spesso commettono gli adulti nel confondere la generazione dei ventenni con la caricatura che ne offrono certe minoranze di teppisti. Bisogna invece ricordare – a suo parere – gli angeli del fango, ad esempio, capelloni anche loro, i quali durante l’alluvione di Firenze si impegnarono nell’opera di soccorso (Montanelli 1968). Naturalmente l’articolo di Montanelli, da solo, non può cambiare la linea inquisitoria del quotidiano nei confronti dei capelloni, ma offre comunque un’occasione di riflessione prima di mettere in pratica la proposta di Bugialli di “disinfestare” Trinità dei Monti attaccando i giovani capelloni con forbici e insetticida (Bugialli 1965). In difesa di questi ragazzi troviamo altri articoli, pubblicati su “L’Espresso” da Sandro Viola. I capelloni di oggi, scrive Viola, sarebbero stati gli esistenzialisti di qualche decennio prima, convinti a non integrarsi con la società come forma di protesta, lontani dall’immagine di ragazzi dalla moralità perduta descritti dal “Corriere della Sera”(Viola 1965). Non c’è nulla di strano nel loro comportamento e l’assalto da parte della stampa moralista, è una violenza ingiustificata, inspiegabile, assurda. Oggi, riflettendo su quegli attacchi, pare evidente che la critica si basasse esclusivamente su un concetto labile e controverso come quello del “decoro”. La ragionevole spiegazione dell’accanimento verso i capelli lunghi da parte della società perbenista si pone nell’immagine che il capellone incarna: l’anticonformismo che disturba le istituzioni e la morale.Dunque, chi li condannava perché erano ragazzi che rifiutavano i credo che molti professavano, dicevano di no al conformismo dell’epoca. I capelli lunghi diventano perciò l’etichetta, il simbolo, che contraddistingue la nuova generazione con immediatezza rendendola facilmente riconoscibile e paragonabile a precisi ideali considerati indecenti. E, in una società scandita dalla realtà delle classi e dalla convinzione dello “status”, l’aspetto esteriore incide pesantemente sulla valutazione di un soggetto che, di fronte ai suoi simili, deve risultare nella sua apparenza, perfetto, per il resto può essere adultero, maniaco o omicida, l’importante è come egli appare per essere considerato un uomo rispettabile. Il problema dei capelli lunghi, scrive Umberto Eco nel 1965, è quindi una questione di costume piuttosto che di legalità. I capelloni sono dei mostri e, per la società, il mostro è sempre stato considerato una creatura malvagia solo perché appare diverso. È la differenza palpabile, quella riscontrabile esteriormente, a scatenare i pregiudizi, il pogrom contro i capelloni. Il termine capellone pur essendo un sinonimo dispregiativo diventa una parola carica di significato poetico per un personaggio che si è adoperato per demolire le morali borghesi: Mario Monicelli. Da questa parola il regista avrebbe voluto trarne un film dal titolo Capelli lunghi, ma fu l’unico film che gli fu bocciato a soggetto già scritto poiché, pur catturando uno spaccato importante del mutamento culturale italiano, avrebbe toccato un argomento sovversivo, troppo grande e troppo complicato, che sarebbe risultato scomodo a molti. Monicelli voleva fare un film sulle piccole ingiustizie che scatenano le grandi ingiustizie, ma di quelle ingiustizie fu “vittima”.

Italia e Inghilterra, influenze reciproche

Per le ragioni fin qui discusse, non trovando un riscontro in Italia, i nostri giovani guardano a Londra per attivare il progetto di modifica culturale. Pur vivendo nel suo paradosso – regressione post-bellica, progressione post-riforme – Londra offre alla generazione appena nata, la risposta alla sua ricerca di cambiamento diventando il simbolo della contemporaneità. Prima di addentrarci in questo discorso bisogna fare una precisazione: i simboli sono elementi che si pongono in una rete culturale che si forma mediante le relazioni tra individui simili. Nel caso degli anni Sessanta i primi “collegamenti” si costituiscono attraverso le azioni prodotte dalla nuova generazione e dal simbolismo scaturito dagli elementi ad essa legati: la musica, la moda, le ideologie di protesta. La rete culturale che si viene quindi a formare, genera una “contaminazione”, più o meno intensa, interna ed esterna ad un dato gruppo sociale. L’anno cruciale per la nascita del simbolismo degli anni Sessanta è il 1956, anno in cui l’Inghilterra comincia a costruire il mito della Swinging London, la città da cui partiranno tutte le novità del decennio. Da questo momento in poi, il cambiamento, non rimane relegato all’astrattezza della teoria, ma si trasforma in pratica concreta visibile attraverso i costumi adottati e i comportamenti acquisiti. Londra ha, dunque, un forte ascendente sul nostro paese, anzi è possibile sostenere che, Italia e Inghilterra, subiscono una contaminazione reciproca a causa di una forte comunanza che risiede in un passato fatto di alleanze e di stima reciproche. “Panorama” scrive: “I due popoli, quello italiano e quello inglese, hanno vicendevolmente tratto ispirazione dal pensiero, dalla cultura, dai costumi, dell’altra Nazione, per arricchire il loro patrimonio intellettuale, spirituale e civico” (Moro 1965). È possibile riscontrare alcune particolarità che testimoniano lo scambio culturale e stilistico esistente tra i due Paesi anche dal lavoro di Antonioni, il film Blow up: 1) la cultura inglese, evidenziata dal suo moderno simbolismo, che si incontra con la cultura italiana incarnata, in questo caso, dal regista stesso; 2) la presenza di due elementi della moda inglese e italiana particolarmente importanti come la minigonna e la “bambù bag” firmata Gucci; la minigonna arriva in Italia, Gucci in Gran Bretagna. Il lavoro di Antonioni risulta particolarmente importante per questa analisi non solo per analizzare le contaminazioni tra i due Paesi, ma perché rappresenta una testimonianza immediata circa lo sviluppo della società inglese rispetto a quella italiana e, soprattutto, perché mette in rilievo l’emancipazione giovanile nonché la libertà del soggetto femminile.

I Beatles come simbolo di socializzazione

È con i Beatles, però, che si assiste ad una contaminazione in toto che passa dalla musica e dalla moda e approda nello sviluppo di nuove congetture. Principalmente è a livello antropologico che i Beatles acquistano un peso incisivo poiché diventano il fattore di socializzazione più interessante di questi anni proprio per il concetto che esprimono: quello del gruppo. Il rapporto tra simili, seguendo il significato moderno di “gruppo” appunto, si configura su un nuovo relazionismo sociale, quello della partecipazione collettiva come effetto della socializzazione. La socializzazione è intesa per lo più come un processo volto all’integrazione del soggetto nel gruppo sociale di appartenenza con cui condividerà una cultura che ora, si diffonde anche attraverso i nuovi mezzi – o agenzie – di comunicazione, la Tv e la musica, i quali, si posizionano accanto a quelli tradizionali, scuola e famiglia. La socializzazione attraverso i media, pur trattandosi di un processo mediato all’origine, risulta non governabile durante il suo itinerario e durante il corso della sua elaborazione e metabolizzazione che avvengono nell’utente quindi, la conseguente fruizione di una cultura, viene percepita in modo diverso da soggetto a soggetto. Quello che è stato appena detto serve a precisare come l’essere gruppo non annulli la soggettività del singolo, al contrario, questa ne diventa la componente fondamentale poiché il gruppo nasce e vive dalla somma delle singole individualità dei soggetti che lo compongono. La trasmissione di un patrimonio di valori e conoscenze, viene interiorizzato attraverso dei meccanismi importanti come quello dell’identificazione e dell’imitazione. I processi di identificazione, mediante l’imitazione, sono intesi come introiezione di un modello – in questo caso i Beatles – e dei valori ad esso appartenenti, nello specifico la musica, il caschetto, il look alla John Lennon con gli occhiali “da nonno” che diventeranno uno stereotipo presso i campus universitari durante la contestazione del Sessantotto, l’orientalismo. Il motivo per cui il fenomeno beatlesiano diventa il movimento di emancipazione giovanile, è legato proprio al messaggio che essi lanciano e che rappresenterà la base di avvio per un movimento di separazione tra mondo adulto e mondo giovanile. In sintesi, l’azione dei Beatles sulla società occidentale si può racchiudere in questa formula: Beatles = Interazione con soggetti simili = Senso di appartenenza = Gruppo. In concomitanza con questo nuovo fenomeno di “moda musicale”, la gioventù italiana intraprende un cambiamento senza ritorno: ci si avvia infatti verso una rivoluzione di stile, di linguaggio, di musica e di pretese nei confronti della società adulta. Coinvolgendo giovani di ogni estrazione sociale, tale fenomeno deve essere considerato come uno dei primi fenomeni di “massa” definito da Sorcinelli “simultaneità di una moda musicale e di costume” (Pela, Sorcinelli 1999) che avrà un suo riscontro anche negli anni successivi. Il fenomeno di massa legato ai Beatles è conosciuto con il nome di British invasion ovvero, una reazione a catena che si verifica nel momento in cui gli adolescenti, tanto italiani quanto americani ed europei, cominciano ad adottare gli stili da loro proposti. I Beatles esercitano un richiamo intenso anche nella cultura dei “capelloni”. A supporto di questa affermazione propongo un accenno preso dalle “memorie” di una giovane capellona che scrive la sua esperienza in un diario pubblicato da Edizioni M.E.B. nel 1967, Eleonora Ichx: “La nostra devozione va ai Beatles che hanno imposto in ogni dove, a tutte le categorie sociali, a tutti i tipi di società il loro modo di essere” (p. 14).

British invasion, Italian Invasion

Facendo un’analisi al contrario, i Beatles, prendono in prestito dall’Italia lo stile dell’alta sartoria che caratterizzerà le loro fogge almeno fino al periodo che precede la fase psichedelica. È d’obbligo precisare che, tutta la moda maschile inglese, particolarmente lo stile dandy, richiama la sartoria italiana tanto nelle linee quanto nei tessuti: Eric Joy comproprietario del laboratorio “Blades”, si servirà dei tessuti Zegna denominati Maremma e Verde Terra, come è specificato nel numero di “Panorama” dell’ottobre 1965, per vestire la sua clientela dandy. È italiano anche un altro elemento della moda beatlesiana, lo stivaletto “Chelsea”. Pur prodotto a Londra e identificato con il nome di una tipica strada londinese, è interamente italiano perché realizzato con tecniche italiane da due calzolai italiani, Anello & Davide.

Contaminazione dal passato e anacronismo degli stili

Ispirandoci a quella rete di simboli a cui abbiamo già accennato, è forse possibile riconoscere un legame tra i gruppi giovanili delle società occidentali del passato e di oggi. I canali di passaggio che consentono l’ingresso del passato nel nostro presente sono rappresentati da alcuni particolari simboli come la musica – con il cantautorato italiano e in particolare con i Beatles – e la moda. Pertanto, i fautori di una contaminazione col passato si rivelano, ancora una volta, i Beatles. Per l’universalità dei loro messaggi, essi fanno parte di quel bagaglio culturale che appartiene anche all’adolescente del nuovo millennio, quindi, mi sembra sensato sostenere che la contaminazione dei Beatles, a partire dalla data del loro esordio fino ad oggi, si ripete costantemente. Il mercato propone di continuo la loro immagine: dai moderni videogiochi per PSP, al book “Yesterday” in pieno revival beatlesiano, alla collezione primavera 2009 firmata Original Marines, o alle All Star stampate con i disegni realizzati da John Lennon per una personalissima raccolta privata. A mio avviso però, è nella moda che si riscontra maggiormente la contaminazione dal passato. Il ciclo della moda è un continuo richiamo degli anni Sessanta. Credo che ciò accada poiché, le attuali fogge, non sono più simbolicamente pregnanti come lo erano una volta, mancano di “concettualità”, forse perché attualmente quelle esigenze di modifica culturale, tanto sentite in passato, non esistono più e, qualora esistessero, peccano di originalità dei creatori nell’imporre una frattura colossale e al tempo stesso innovativa con la società presente. Oggi è facile cadere nel “troppo” e scivolare nel volgare. Inoltre, i Sessanta, generano un’attrazione sulla generazione attuale non indifferente, innanzitutto per il fatto che rievocano un’epoca dove si è sviluppata una vivace sottocultura giovanile che, forse, manca oggigiorno. Quindi, dovendo cercare qualcosa di autentico, si scardina un decennio che di proposte alternative e all’avanguardia ne ha prodotte in un numero inverosimile. Però, se si afferma che la nuova moda nasce dalla imitazione del passato, si sviluppa un paradosso poiché, se si parte dalla convinzione che la moda è un continuo rinnovarsi, il nuovo in questo caso viene dal passato. Già Coco Chanel aveva avvertito tale contraddizione, per questo affermava che era la moda passata a tornare di moda. Se è vero che la moda degli anni Sessanta nasce come tratto con cui differenziarsi dagli adulti, attualmente si assiste ad un fenomeno inverso. Scompare l’esigenza del distacco generazionale, emblema degli anni Sessanta. È qui che si riscontra il secondo paradosso. Gli stili passati, nel momento in cui sono riproposti, subiscono una de-contestualizzazione, come dire, automatica. Il mutare dei tempi libera gli stili dalla loro storicità conferendogli una nuova significazione. Ovvero, prendendo in esempio lo stile hippy e riproponendolo nella nostra attualità, quest’ultimo si sveste del suo messaggio originale di contestazione poiché la nuova realtà non lo richiede. Gli stili odierni, dunque, si costruiscono come una sorta di bricolage di vecchio e nuovo, definendo così il sistema segnico della moda retrò. Ma se esiste questa continuazione di simboli tra le generazioni, allora dobbiamo considerare moda retrò anche lo stile hippy quando si presentò negli anni Sessanta? No. È vero che gli hippies setacciavano i negozi dell’usato e i mercatini delle pulci in cerca di abiti smessi che, combinati tra loro, creavano quella che poi è stata definita “vintage fashion”, ma la “modizzazione” degli abiti vecchi, in quegli anni, non è intesa come moda retrò vera e propria, l’abbigliamento hippy era il simbolo di uno squarcio sociale che de-istituzionalizzava ciò che era stato ufficiale fino ad allora. È oggi che si assiste al fenomeno retrò con l’intenzione non tanto di riproporre vecchie congetture, ma con il semplice motivo di indossare, in un’epoca simbolicamente muta, capi fortemente impregnati di originalità.

L’anglomania. Dalle boutiques all’antimoda

Chiudendo questa ampia parentesi e riprendendo il discorso sulla contaminazione inglese, l’anglomania in Italia, trova un altro canale di svilupporiscontrabilenelle azioni di due giovani donne considerate le pioniere nel captare e tradurre in moda le nuove tendenze dello stile internazionale. Alla guida di alcune boutiques all’avanguardia, “Cose” e “Gulp”, Nuccia Fattori e Gabriella Di Marco, hanno condizionato profondamente lo stile nazionale, soprattutto giovanile, degli anni Sessanta e Settanta. Le due donne non solo commerciano lo stile inglese in Italia, ma adottano, contemporaneamente, la nuova filosofia delle “boutique-nightclubs” ideate da Mary Quant. Infatti con “Altre Cose” e “Voom Voom”, sempre di proprietà della Fattori e della Di Marco, approda nel nostro Paese il concetto di “Bazzar” e di “Alexander’s”, una boutique aperta sia di giorno che di notte poiché annessa ad un locale notturno. Apro un’altra parentesi: l’avvento delle boutiques alternative, sviluppa un terzo paradosso: il nuovo mercato della moda giovanile si fonda sulle basi del rifiuto del consumismo. Questo rifiuto però, viene espresso attraverso la compravendita della moda stessa; ciò che viene contestato ne diventa il tramite. Resta il fatto che è proprio nel paradosso che nasce “l’antimoda”, così definita poiché si discosta, sia concettualmente che visivamente, dalla moda ufficiale elaborando stili personali ripresi dalle civiltà etniche e dalle fogge del passato. Il popolo dei giovani, ottenendo un potere d’acquisto più elevato, diventa il nucleo sociale a cui la moda degli anni Sessanta comincia a far riferimento. Ecco perché i processi di contestazione vengono presi in considerazione tanto dal mercato quanto dalle industrie produttrici che li tramutano in fatturato. I processi di contestazione, in questo caso intesi come fogge vestimentarie, sono identificati come antimoda. L’antimoda è un fenomeno che è sempre esistito nel corso del tempo. Si caratterizza dall’uso di nuove simbologie, o contro-simbologie, che nascono per discostarsi da quelle ufficiali, ma così facendo, differenziandosi dalle fogge esistenti, come direbbe Simmel (1998), generano altre mode. Ma perché in una società compaiono forme di antimoda? Per ottenere una democratizzazione valoriale e simbolica del sistema culturale in cui si presenta. Non è detto però che l’antimoda, costruendo simboli autonomi, non crei occasioni per la moda stessa di portarli sul mercato. È un po’ quello che è successo allo stile hippy, da stile contestatore è diventato offerta di mercato. In base a quanto detto, ci resta da chiederci se la moda causi la morte dell’antimoda. In alcuni casi, quando gli stili, definiamoli tribali, sono ben radicati in un gruppo alternativo perché ne costruiscono l’identità, questi continuano ad esistere senza subire troppo gli effetti delle distorsioni e delle adulterazioni a cui le mode li sottopongono in continuazione. Il contrario avviene per le minoranze razziali e le controculture, le quali, sono costrette a convivere con le pressioni esercitate dalla moda perciò, nel momento in cui i gruppi dell’antimoda cedono i propri tratti distintivi alla moda, i primi andranno alla ricerca di altri simboli che li differenzino nuovamente (Davis 1993). Nonostante ciò, la moda, o meglio lo stile, degli anni Sessanta, resta il simbolo, o espressione diretta, di una nuova cultura e di un mutamento sociale.

Conclusioni

Le analisi appena concluse sulle simbologie degli anni Sessanta, rappresentano una riflessione su tutto ciò che questo decennio ha rappresentato per lo sviluppo culturale e sociale delle società moderne. Tale passaggio porta con sé un codice morfologico attraverso il quale è riuscito a codificarsi all’interno del mondo moderno e, attraverso il quale, ha dichiarato l’esistenza di soggetti “alternativi” che avevano deciso non solo di farne parte, ma di esserne i fautori. È un atteggiamento del tutto naturale: quando si vuole dimostrare la nascita di una nuova corrente di pensiero, si autoproducono dei simboli che saranno adottati da tutti coloro che l’approveranno – in parte in maniera conscia e in parte in maniera inconscia – a causa di quel fenomeno di imitazione e senso di appartenenza che fanno parte del processo di aggregazione tra soggetti simili (ecco perché, precedentemente, ci siamo soffermati sul concetto di gruppo e di socializzazione). Ad esempio, in politica il colore nero, o rosso, contraddistingue una certa linea di pensiero e viene adottato da tutti coloro che di quella linea di pensiero decidono di far parte. I due colori presi ad esempio, diventano perciò simbolo e, perché no, sinonimo di una data filosofia politica. Inoltre – volendo fare un esempio più spicciolo ma non di poco valore – se pensiamo a simboli come la lupa piuttosto che la zebra o l’aquila, questi ci collegano immediatamente con determinate squadre di calcio. Stesso discorso vale per gli accostamenti di colore: il rosso e il nero, il bianco, l’azzurro e via discorrendo, innescano un processo di definizione che, ricercando all’interno del nostro sapere acquisito, ci avviano verso una serie di colleganze con precise fedi calcistiche. E ancora – e concludo con questa serie di esempi – nel Medioevo, gli orecchini a forma di cerchio e il colore giallo, erano elementi che “marchiavano” gli ebrei. Poiché erano ritenuti di “razza inferiore”, fu stabilito di distinguerli da chi non lo era. Ecco, i simboli degli anni Sessanta sono esattamente tratti distintivi di situazioni, cause ed effetti di sostanziali trasformazioni, passeggere o permanenti, che avvengono nel tessuto sociale. Ad esempio, la minigonna possiede un codice di significazioni che si è generato partendo da una causa, il desiderio di affermare la libertà femminile, per diventare, poi, l’effetto del raggiungimento di quell’obiettivo che lo aveva provocato. Si può perciò sostenere che, nel momento in cui si prende coscienza dell’esistenza di una situazione minoritaria per una parte della società – come poteva essere la sottomissione del soggetto femminile da parte delle istituzioni e della morale – si sviluppa un’azione atta a risolvere tale situazione e, di conseguenza, si sviluppano delle simbologie che tendono a raccontare il susseguirsi di queste determinate azioni. Gli anni Sessanta, a livello di produzione simbolica, diventano un decennio molto interessante su cui concentrare una discussione come questa. Con uno studio del genere ho voluto mettere in evidenza una serie di situazioni, perlopiù negative, che il passaggio verso la modernità da parte delle società occidentali, aveva prodotto, scatenando in questo modo l’azione del popolo giovanile che di tali situazioni negative, cercava di liberarsi. Le azioni giovanili sono risultate una fonte immensa di simboli su cui basare il mio discorso. Inoltre il mio interesse è stato catturato da un altro particolare: l’attualità di questi simboli. Esiste un legame speciale che unisce gli anni Sessanta con tutti i decenni che si sono susseguiti fino ad arrivare nel nostro presente. Il simbolismo di quarant’anni fa risulta essere il simbolismo pregnante del nuovo millennio. Sono convinta che non si tratti di un revival, è piuttosto il proseguimento di un filone ideologico che viene sì filtrato attraverso esperienze diverse al passato ma, come abbiamo visto, diventa una congettura fortemente vissuta anche oggi. E quindi i Beatles, gli hippies, le mode, Londra, i capelli lunghi, acquisiscono una carica di attualità verso cui non possiamo restare indifferenti.

Concludendo, i simboli degli anni Sessanta sembrano ancora in grado non solo di raccontare il passaggio da una società statica verso la modernità, ma di essere i narratori dei processi di trasformazione delle società future poiché ancora carichi di significazioni da esplicare.

Bibliografia

Agnese M.L.

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Biografia

Laura Di Scianni ha studiato presso l’Università di Bologna (sede di Rimini) conseguendo la Laurea in “Tecniche del Costume e della Moda” con un elaborato in Storia del Giornalismo di Moda intitolato Le simbologie del mutamento culturale. Nel 2008 frequenta il Master in Cool Hunting promosso dall’Accademia Polimoda, Firenze.