Cosa c’è dopo le Ssis? Uno sguardo sul nuovo modello di formazione degli insegnanti

Paolo Bernard

Quando, nel 2007, la redazione di “Storia e futuro” mi chiese di esprimere un parere sull’insegnamento della didattica della storia all’interno dei primi otto anni di vita delle Ssis (di cui già allora si cominciava ad annunciare una sostanziale messa in discussione)1, ricordo che richiamai in premessa l’esigenza di fare fino in fondo il nostro mestiere di storici, quindi di non dimenticare il passato, e nella fattispecie di non dimenticare, nella valutazione dell’esperienza delle scuole di specializzazione per l’insegnamento, quello che c’era prima che esse venissero istituite.

Oggi, essendo stato chiamato a dare una mia prima impressione sulla bozza di regolamento sulla base della quale verrà costruito il futuro della formazione iniziale degli insegnanti, non posso che ribadire quell’esigenza, invitando a non dimenticare né da dove veniamo, né perché ci si è mossi in una direzione diversa da quella seguita negli ultimi dieci anni.

Alcune premesse: la bozza di regolamento che è possibile consultare attualmente è sufficientemente “avanzata”, dal momento che ha già percorso buona parte dell’iter preparatorio previsto dalla legge, ma resta pur sempre una bozza.

Inoltre, dichiaro subito che mi concentrerò esclusivamente sul meccanismo di formazione degli insegnanti della scuola secondaria di primo e di secondo grado, e non su quello della scuola primaria che ha, nel passato e nel presente, delle specificità che non padroneggio sufficientemente per analizzarle in modo credibile.

Infine, a causa della provvisorietà della situazione in corso, non credo sia possibile entrare con l’analisi nei dettagli: mi riferisco in particolare al tema specifico dell’insegnamento della storia all’interno del nuovo sistema, circa il quale fare delle considerazioni oggi sarebbe, a mio avviso, prematuro.

Tre epoche, tre percorsi

Come è noto, prima dell’istituzione delle Ssis, non esisteva un percorso formale di costruzione delle competenze necessarie per l’insegnamento, se si eccettua l’anno di straordinariato, gestito dai provveditorati dell’epoca, che veniva attivato all’atto dell’immissione in ruolo, spesso tramite concorso, oppure attraverso l’attivazione di uno dei diversi canali di assunzione del personale precario.

In sostanza, la laurea (all’epoca generalmente quadriennale) restava l’unico percorso organico di formazione dell’insegnante, se si eccettuano i “corsi abilitanti” che, in una particolare stagione, precedettero ed affiancarono i concorsi.

Riassumendo questo primo modello con uno schema sintetico:

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 Dallo schema è possibile dedurre che il precariato ha costituito per anni il vero percorso di “formazione informale”, con la tendenza a dilatarsi per periodi così lunghi da determinare l’esigenza di periodiche sanatorie.

Con l’istituzione delle Ssis, a questo schema si era aggiunto un percorso biennale di formazione, che si concludeva con un esame abilitante all’insegnamento per tutti gli ordini di scuola secondaria: dunque, come è possibile vedere nel secondo schema, veniva finalmente esplicitato il curricolo teorico/pratico (fatto di insegnamenti, laboratori e tirocinio) necessario per costruire le competenze del futuro insegnante, anche se permaneva, tra il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento e l’eventuale immissione in ruolo (per concorso, almeno in teoria) la possibilità di un periodo di precariato:

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Per riassumere il nuovo sistema, cioè quello attualmente in gestazione, non è più sufficiente un unico schema, dal momento che i percorsi relativi alla scuola secondaria di primo e di secondo grado sono stati differenziati.

Per la scuola secondaria di primo grado:

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Per la scuola secondaria di secondo grado:

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 Dagli schemi si deduce che, introducendo, seppure in momenti diversi, il meccanismo dei test d’ingresso a numero programmato, il legislatore si è posto il problema di eliminare il più possibile il precariato come percorso prevalente di accesso al ruolo di insegnante. Non si sa se questo comporterà anche l’eliminazione di quello che era l’anno di straordinariato, o “periodo di prova”.

Uno sguardo comparativo

Comparando, con gli schemi riassuntivi sopra delineati, il “modello Ssis” con il nuovo regolamento in via di approvazione, alcuni elementi di distinzione sono immediatamente visibili:

  • il curricolo di formazione iniziale degli insegnanti resta, complessivamente, di sei anni, quattro di università più due di Ssis nel primo caso, tre+due di università più uno di tirocinio nel secondo;
  • nel sistema vecchio era prevista una prova d’ingresso all’inizio della Ssis, prova che viene riconfermata anche nel sistema nuovo (all’atto dell’iscrizione alla laurea magistrale per la secondaria di primo grado, all’inizio dell’anno di tirocinio per la secondaria di secondo grado), ma con la significativa novità del numero programmato, sulla base delle stime degli Uffici scolastici regionali relativamente al fabbisogno di insegnanti ipotizzabile per le diverse classi di concorso;
  • se nel “modello Ssis” il conseguimento di un titolo abilitante non escludeva, di lì in poi, la consueta trafila fatta di precariato, iscrizione alle graduatorie, eventuale concorso ed immissione in ruolo, il modello futuro, grazie alla programmazione degli ingressi, dovrebbe eliminare il precariato come strada obbligata per la professione (anche se è difficile ipotizzare che l’accesso al ruolo possa essere conseguito senza un concorso pubblico);
  • infine salta all’occhio, nel nuovo modello, la grossa novità di due sistemi, paralleli ma distinti, per la formazione degli insegnanti della secondaria di primo e di secondo grado, che nel “modello Ssis” erano invece formati attraverso lo stesso percorso.

Per cogliere ulteriori elementi di confronto/contrasto, è necessario leggere più approfonditamente i due regolamenti:

  • nel sistema vigente fino a due anni fa, a conferire il titolo abilitante erano speciali scuole di specializzazione istituite a livello regionale (le Ssis, appunto) e articolate nelle diverse sedi universitarie, mentre domani gli aspiranti docenti dovranno iscriversi a corsi di “laurea magistrale” la cui istituzione dipenderà direttamente dalle varie facoltà universitarie, con l’aggiunta di un anno di Tirocinio formativo attivo (Tfa);
  • la novità più grossa sta proprio in quest’ultimo elemento, un tirocinio che, pur dipendendo sempre da un centro interuniversitario da costituirsi ad hoc, risulta separato rispetto al percorso universitario vero e proprio, e che vive sul coinvolgimento diretto della scuola, sia a livello dell’Ufficio scolastico regionale (responsabile della programmazione degli accessi, della compilazione delle graduatorie e dell’assegnazione dei tirocinanti alle scuole), sia a livello delle singole istituzioni scolastiche; il Tfa in questione ha caratteristiche molto diverse nel nuovo sistema, a cominciare dalla durata: alla Ssis il tirocinio aveva durata biennale, iniziando nel secondo semestre del primo anno di corso, per una durata complessiva di 250 ore (30 crediti), pari al 25% dell’orario totale dei due anni di scuola; nel nuovo sistema l’anno di Tfa è pari a 60 Cfu, suddivisi in quattro ambiti: insegnamenti di scienze dell’educazione e pedagogia generale, didattiche disciplinari, laboratori didattici e tirocinio a scuola. La particolarità eclatante è che quest’ultima parte, corrispondente a 19 Cfu, ammonta a ben 475 ore, che il regolamento specifica debbano essere “svolte presso le istituzioni scolastiche”;
  • alcune novità anche per quanto riguarda i soggetti destinati a gestire il tirocinio: nella Ssis, a fianco dei docenti della scuola, venivano individuate due figure distinte, quella del supervisore, con semi-esonero dall’insegnamento, incaricato dell’affiancamento del tirocinante nella gestione complessiva del tirocinio, dalla progettazione allo svolgimento all’elaborazione della relazione finale, e quella del tutor, cioè l’insegnante destinato ad accogliere il tirocinante in aula e di osservarne e valutarne l’approccio didattico diretto; nel nuovo Tfa la figura è unica (“insegnante tutor”) anche se restano distinte una funzione di coordinamento (un “tutor coordinatore” ogni 30 tirocinanti, con possibilità di semi-esonero dall’insegnamento per non più di tre anni) ed una di affiancamento didattico in aula (un “tutor accogliente” ogni tirocinante).

 

Le ragioni del cambiamento

Messi in evidenza, in estrema sintesi, i principali elementi del confronto tra “ieri” e “domani”, porterei avanti il mio ragionamento esplicitando un interrogativo di base: quali sono le motivazioni per le quali si è passati dal sistema incentrato sulle Ssis ad un nuovo modello di formazione degli insegnanti?

La risposta può esser ulteriormente articolata prendendo in considerazione cinque questioni: la riforma universitaria, il problema del precariato, il rapporto tra scuola ed università e, all’interno dell’università, tra le diverse facoltà, la diatriba tra competenze didattiche e conoscenze disciplinari, ed infine la questione del tirocinio.

La riforma universitaria

Si tratta, forse, dell’elemento più oggettivo tra quelli che sono alla base del cambiamento, quello sul quale è più difficile esprimere giudizi: in effetti, il passaggio al sistema universitario basato sul “tre più due” rendeva altrettanto improponibile sia pensare di aggiungere alla fine dei cinque anni un percorso formativo biennale finalizzato all’insegnamento (per un totale di ben sette anni per diventare insegnanti) sia la sostituzione della laurea specialistica con la Ssis (con un’insufficiente preparazione contenutistica, alla fine della triennale, per un futuro insegnante della secondaria).

Dunque, un intervento sulla durata del corso di studi era indispensabile, anche se la soluzione scelta non era l’unica possibile, e le forme verso le quali ci si è orientati hanno poca relazione, come vedremo tra poco, con le considerazioni relative agli anni complessivi del curricolo.

Il precariato

In questo caso c’era un esplicito mandato da parte del ministero, più e più volte ribadito: farla finita una volta per tutte con il precariato, soprattutto con quello “d’annata”, che negli anni aveva reso necessarie le periodiche sanatorie che, a detta di alcuni, sarebbero state alla base di molti dei problemi di qualificazione professionale della classe insegnante.

In effetti, il sistema così come è stato delineato sembra avere risolto la questione del precariato, dal momento che introduce uno sbarramento in ingresso, attribuendo agli Uffici scolastici regionali il potere e la responsabilità di programmare il numero degli accessi a monte del percorso formativo. Tutto risolto per il meglio, dunque?

Per la verità restano alcuni punti interrogativi: in primo luogo, siamo proprio sicuri che il precariato abbia rappresentato necessariamente uno dei “mali storici” della scuola italiana? Siamo sicuri che la scuola migliore sia una scuola senza precari? O non si tratta semplicemente di una scuola che, quando è assente il docente titolare, decide, per risparmiare, di lasciare scoperta la classe?

E poi, se il problema era quello della programmazione degli accessi in base ai fabbisogni stimati per gli anni a venire, non era questa esigenza compatibile anche con il sistema delle Ssis, che prevedevano anch’esse uno sbarramento in entrata, con una prova d’idoneità all’atto dell’iscrizione?

Il rapporto tra le facoltà universitarie e tra scuola ed università

Uno dei punti nevralgici della questione è rappresentato dai difficili rapporti che erano stati innescati dal “modello Ssis” all’interno delle varie organizzazioni universitarie.

L’istituzione delle scuole, infatti, aveva rappresentato fin da subito una sfida per le tradizionali strutture accademiche, dal momento che i nuovi soggetti sfuggivano, di fatto, al controllo diretto dei tradizionali “centri di potere”. In pratica, le Ssis sono state percepite fin da subito come dei “corpi estranei” all’interno delle facoltà e dei dipartimenti, e come tali spesso sottovalutate, quando non esplicitamente osteggiate.

Non a caso, il nuovo sistema prevede “corsi di laurea magistrale” finalizzati alla formazione degli insegnanti, la cui istituzione dipende dalle facoltà tradizionali, eventualmente in collegamento o in consorzio con altri soggetti.

Insomma, con il nuovo sistema le facoltà universitarie riprendono in mano il pallino della formazione dei futuri insegnanti, al fine di rendere, come si vedrà meglio nell’ultimo paragrafo, sempre più stretto il rapporto tra la conoscenza dei contenuti disciplinari ed il loro insegnamento (con la parziale eccezione delle lauree magistrali per la formazione degli insegnanti della secondaria di primo grado, per le quali sono stati pensati percorsi più simili a quelli delle vecchie Ssis).

Un altro nodo da sciogliere relativamente al sistema precedente era la pretesa di far convivere, all’interno dello stesso sistema formativo, università e scuola, in un dialogo costruttivo che ne mettesse a confronto le specificità.

Qui, bisogna dirlo sinceramente, la soluzione adottata rappresenta la sanzione di un fallimento, di un matrimonio non riuscito. Ed il simbolo di questo divorzio è da una parte l’eliminazione della figura professionale che di quel dialogo era l’emblema, vale a dire il supervisore del tirocinio, dall’altra la scelta di separare in modo netto, nel nuovo curricolo di formazione, la “teoria” (tutta affidata alle facoltà universitarie) dalla “prassi” (quasi totalmente delegata alle scuole, sotto la sovrintendenza degli Usr).

Qualche battuta sulla scomparsa dei supervisori: il modello Ssis attribuiva loro un ruolo centrale, tanto da ipotizzare, per la loro individuazione, una selezione pubblica per titoli ed esami che ne mettesse in rilievo le competenze tecniche e scientifiche. La temporaneità del semiesonero previsto per queste figure, complice anche il regime di prorogatio degli ultimi anni di vita delle Ssis, si era via via trasformata in stabilità, ma questo aveva consentito, nei casi migliori, alle università di poter contare sull’esperienza accumulata da quei docenti che, negli anni, erano diventati sempre più indispensabili all’organizzazione.

Ora quella professionalità è stata completamente azzerata, la figura del supervisore è scomparsa nel nuovo modello, sostituita da quella di un “tutor coordinatore” con compiti prevalentemente burocratici, da cui dipenderanno non meno di trenta tirocinanti, per il quale continua ad essere previsto un semiesonero, ma per non più di tre anni e con nessuna possibilità, quindi, di implementazione di una professionalità specifica.

Del resto i documenti elaborati dalla commissione che ha redatto il nuovo regolamento esplicitano l’esigenza di non creare stabili figure di raccordo tra scuola ed università, come se la priorità fosse quella di scoraggiare ogni velleità di ingresso definitivo nei ruoli universitari da parte di docenti della secondaria.

Si ha l’impressione, dunque, che l’università si sia preoccupata in modo particolare di presidiare il proprio compito esclusivo nella formazione disciplinare, pedagogica e didattica dei futuri insegnanti, demandando alle scuole ed ai docenti tutor, in un regime di più marcata separazione dei compiti, esclusivamente l’apprendistato applicativo in classe.

Il tirocinio

Ma le responsabilità del parziale fallimento del dialogo tra scuola ed università all’interno del modello Ssis devono, per onestà, essere equamente ripartite tra i due soggetti, ed anche le scuole hanno sicuramente le loro colpe.

Spesso (fortunatamente non sempre) i tirocinanti sono stati percepiti come “corpi estranei” dalle scuole convenzionate, ma soprattutto quasi mai il ruolo dei tutores, cioè degli insegnanti disponibili ad accogliere in aula gli specializzandi in formazione, è stato adeguatamente riconosciuto, anche dal punto di vista economico.

Insomma, soprattutto negli ultimi anni le istituzioni scolastiche, per bocca dei loro dirigenti, sempre più spesso ponevano alle Ssis il problema sostanziale del mancato riconoscimento del servizio da loro reso all’interno di quel percorso di formazione.

Probabilmente questa è una delle motivazioni che hanno sostenuto i principali cambiamenti nella struttura del tirocinio e nella sua organizzazione: il periodo di Tfa (tirocinio formativo attivo) durerà un anno e sarà nettamente separato dal resto del curricolo; verrà gestito da un Consiglio di corso nel quali, accanto ai docenti universitari, entreranno di diritto anche un dirigente scolastico delegato dall’Usr e due rappresentanti dei “tutores coordinatori”; verrà attivato solo in caso di necessità, sulla base delle programmazioni definite dagli Usr, e gli aspiranti verranno individuati sulla base di una graduatoria di merito redatta a partire da test d’ingresso di stampo prevalentemente contenutistico e disciplinare.

Ma la novità che mi sembra più rilevante è l’ammontare delle ore previste di presenza a scuola del tirocinante: se nelle Ssis si parlava di 250 ore di tirocinio in due anni, di cui solo un’ottantina venivano svolte a scuola all’ultimo anno, nel nuovo sistema il Tfa sarà di 475 ore, da svolgersi tutte presso le istituzioni scolastiche. Considerando che le settimane di scuola in un anno scolastico sono mediamente una trentina, è facile calcolare che si tratta di un impegno pari a circa 15 ore settimanali: praticamente quasi un orario/cattedra completo.

Di qui una serie di, credo legittimi, dubbi:

  • saranno in grado le scuole di fare fronte ad una così rilevante presenza oraria di tirocinanti in formazione e quale sarà, a fronte di tale impegno, il peso reale dei pochi rappresentanti del mondo della scuola (un dirigente e due tutores) all’interno dei Consigli di Corso che gestiranno il Tfa?
  • per quante delle 15 ore settimanali sarà possibile affiancare al tirocinante un tutor esperto che ne orienti l’apprendimento?
  • ci sarà un contributo economico a favore delle scuole che possa giustificare questo sforzo organizzativo e che consenta di incentivare i tutor coinvolti, oppure le scuole si accontenteranno, come contropartita, di utilizzare i tirocinanti direttamente in classe, magari per gestire senza spese le sostituzioni dei colleghi assenti?
  • non si rischia, in questo modo, di ricadere nel vecchio sistema di “formazione informale”, nel quale il futuro insegnante apprende i rudimenti del mestiere “buttandosi” direttamente nella pratica quotidiana, praticamente senza possibilità di progettare didatticamente il proprio intervento e senza sufficienti occasioni di confronto con i colleghi più esperti?

La diatriba tra competenze didattiche e conoscenze disciplinari

È significativo che, nelle prime pagine della relazione2 redatta dal gruppo di lavoro per la formazione del personale docente, presieduto da Giorgio Israel, venga esplicitata la preoccupazione circa un necessario “rafforzamento delle conoscenze disciplinari” per migliorare la formazione degli insegnanti, e che questo obiettivo venga messo in relazione con la scelta di istituire lauree magistrali nel contesto della tradizionale struttura universitaria delle facoltà.

Immediatamente dopo, per la verità, il testo concede che “la formazione degli insegnanti deve promuovere la riflessione pedagogica e sviluppare capacità didattiche, organizzative, relazionali e comunicative”, ma la maggiore preoccupazione della commissione sembra essere che il lavoro sul “metodo” non prevalga sui contenuti, tanto che il testo si preoccupa di ribadire la necessità che le competenze pedagogiche e contenutistiche “vadano contemperate senza che alcuna delle due sia penalizzata, senza contrapporle, senza immaginare che l’una possa riassorbire l’altra…”.

Difficile non richiamare alla memoria gli articoli polemici che il futuro presidente di questa commissione andava pubblicando nel 2008 su vari quotidiani, denigrando di fatto una “certa pedagogia” (Dewey e Morin, in particolare) che a suo dire era la responsabile del “disastro” della scuola italiana; difficile non ricordare che le più nefaste conseguenze di quegli “eccessi pedagogici” erano da Israel identificate proprio con il “modello Ssis”, e che, di conseguenza, l’illustre matematico ne proponeva l’eliminazione e la sostituzione con un sistema del tutto alternativo.

Inevitabile, dunque, che il sistema che il gruppo di lavoro ha elaborato tra il 2008 ed il 2009 abbia risentito dell’impostazione e dei pregiudizi di chi lo ha presieduto. In particolare questo elemento è visibile nella volontà di ricollocare il centro della formazione dei futuri docenti della scuola secondaria (in particolare di quella di secondo grado) tutto all’interno delle facoltà universitarie, in percorsi prevalentemente di approfondimento contenutistico, rimandando di fatto all’anno di tirocinio tutta la riflessione sul metodo.

Difficile però non solo condividere i presupposti di questa impostazione, ma soprattutto comprenderne la logica: la “colpa” della presunta ignoranza contenutistica dell’insegnante medio fino ad oggi sarebbe da individuare, più che nelle carenze del biennio Ssis, nelle esperienze e negli insegnamenti ricevuti (o non ricevuti) nei precedenti quattro anni di formazione gestita dalle facoltà universitarie.

Per cui risulta poi quantomeno stravagante il fatto che, chiesta a gran voce ed ottenuta la morte delle Ssis, la palla della formazione dei docenti sia passata di nuovo in toto alle stesse facoltà.

Qualche (provvisoria) conclusione

Messo “in soffitta” il modello Ssis (certo, non privo di elementi perfettibili…) siamo oggi in attesa di capire come funzionerà il nuovo sistema, del quale comunque sappiamo con certezza che è stato varato a partire dalle indicazioni di chi si era espresso con accenti feroci nei confronti dello “strapotere dei pedagogisti” nella formazione dei futuri insegnanti (che sarebbe come tuonare contro lo strapotere degli ingegneri elettronici nella formazione dei futuri periti informatici…).

Riassumendo quanto detto sopra, il nuovo sistema appare caratterizzato da quattro elementi fondamentali:

  • una netta separazione tra il mondo dell’università, al quale resta demandata tutta la formazione “teorica”, di stampo prettamente disciplinarista, attraverso la concessione del titolo abilitante all’insegnamento in seguito alla “laurea magistrale”, ed il mondo della scuola, al quale di fatto viene affidata interamente la gestione dell’anno di tirocinio;
  • un tirocinio che, per l’alto numero di ore e per le modalità della sua organizzazione, sembra assomigliare sempre di più ad un “apprendistato” da esercitare “in corpore vili”, come tradizionalmente è sempre avvenuto attraverso il meccanismo che portava i supplenti a “farsi le ossa” direttamente in classe;
  • una figura di “insegnante tutor” che, pur distinguendo tra “accoglienti” e “coordinatori”, di fatto riunisce in sé due funzioni che avrebbero fatto meglio a rimanere distinte (non necessariamente, infatti, un buon “mentore” deve anche essere un esperto di progettazione didattica, e viceversa);
  • un accesso alla professione gestito in modo esclusivo dagli Uffici scolastici regionali, secondo una formula che potremmo definire, con un ossimoro, di “accentramento decentrato”, che avrà come risultato di mortificare sempre di più l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche.

Confrontando questi elementi base del nuovo modello con quelli presenti nelle vecchie Ssis, verrebbe da concludere, in modo polemico, che “quello che c’è di buono non è nuovo, e quello che c’è di nuovo non è buono”.

La natura del percorso di accesso all’insegnamento può essere determinante (una sorta di “imprinting”) per definire il modo, lo stile con il quale il futuro insegnante eserciterà la propria professione. Prendiamo ad esempio la questione del tirocinio, sbandierato, nei documenti ministeriali, come “la vera novità del nuovo sistema”: la possibilità di svolgere un percorso guidato e critico, al fianco di un “mentore” più esperto, sulla base di una progettazione esplicita e valutabile nei suoi risultati, e sotto la supervisione di una figura terza, in qualità di specialista della didattica, può essere un’esperienza altamente formativa per tutte le parti in causa, formandi, tutores e supervisori. Ma tutto questo già c’era nelle Ssis, ed era quello che funzionava meglio, mentre, al contrario, ci sono molte perplessità sulla possibilità di praticare sul serio la nuova ipotesi a 475 ore.

Nel breve periodo in cui ho prestato servizio come supervisore alla Ssis dell’Emilia Romagna, dal 2005 al 2009, posso testimoniare che, del precedente modello di formazione iniziale dei docenti, era proprio la parte del tirocinio attivo a registrare il massimo dei consensi da parte degli specializzandi, ed è per questo motivo che risulta del tutto incomprensibile il fatto che proprio quel modello sia stato messo in soffitta così in fretta.

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  1. Vedi P. Bernardi, Storiografia e insegnamento della storia. Vita e miracoli delle Ssis, in: “Storia e futuro”, n. 15, novembre 2007. []
  2. la relazione è scaricabile dal sito del ministero della Pubblica Istruzione, al seguente link: http://www.miur.it/Miur/UserFiles/Dossier/Formazione%20Insegnanti/Relazione_generale.pdf. []