Stefano Santoro
Abstract
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An: Arhivele Naţionale, Bucureşti.
Fig: Fondazione Istituto Gramsci, Roma
A partire dagli anni Sessanta, nel quadro della nuova situazione internazionale aperta dal XX Congresso del Pcus (febbraio 1956), con la condanna del culto della personalità di Stalin e la concessione sovietica di qualche autonomia ai partiti comunisti, compresi quelli dell’Europa orientale, il Partito comunista italiano iniziò ad allacciare relazioni di più stretta collaborazione con diversi partiti comunisti del “campo socialista”. Il Pci, che sulla scia della linea tracciata dal segretario Togliatti nel suo ultimo documento ufficiale, il cosiddetto Memoriale di Yalta (1964), non aveva risparmiato critiche all’Unione Sovietica, in particolare sulla lentezza del processo di destalinizzazione, non aveva fatto mistero della propria volontà di sfruttare appieno i nuovi spazi concessi dall’era post-staliniana. E proprio con il Partito comunista romeno, indirizzato dal segretario Gheorghiu-Dej verso un cauto ma progressivo allontanamento da un controllo sovietico ritenuto troppo oppressivo, il Pci avviò, dagli anni Sessanta, un percorso basato su alcuni elementi condivisi. Nel corso di numerosi incontri fra le delegazioni dei due partiti, sia il Pci che il Pcr concordarono infatti sulla rivendicazione del diritto allo sviluppo di “vie nazionali” al socialismo per ogni partito comunista in autonomia dalla linea dettata da Mosca e sulla necessità di superare i due blocchi politico/militari contrapposti1.
La Romania di Gheorghiu-Dej aveva saputo coniugare una maggiore autonomia nei confronti dell’Urss e una relativa apertura economica verso i paesi dell’Europa occidentale con un autoritarismo centrato sulla figura del leader in politica interna. Il fatto è che per Gheorghiu-Dej la critica allo “stalinismo”, ormai ufficializzata con il nuovo corso chruščëviano, non significava condanna di un potere dispotico esercitato da una sola persona, ma opposizione all’imperialismo sovietico sui paesi satelliti. Per Dej, quindi, “stalinista” era stato ad esempio il gruppo dei cosiddetti “moscoviti”, legato strettamente all’Urss, espulso dal partito nel 1952 e perseguitato in nome di un socialismo nazionale e patriottico impersonato appunto dal segretario stesso e dal suo entourage: secondo il governo romeno, la destalinizzazione in Romania era con questo ormai realizzata e quindi non vi era più nulla da correggere (Fejtö1971, 99-100; Guerra 1986, 123). Come è stato osservato, il cambiamento voluto da Dej “era limitato, inquadrandosi nel perimetro della tolleranza sovietica”, in quanto “non aveva messo in pericolo le fondamenta del regime comunista, non aveva posto in discussione la validità, la necessità o l’opportunità del modello sovietico […], non aveva tentato una riforma radicale o un cambio della natura del regime” e in sostanza non aveva minacciato “gli interessi vitali sovietici nella zona” (Marin 2008, 512). In ogni caso, la maggiore autonomia che caratterizzò la Romania dalla seconda metà degli anni Cinquanta e poi soprattutto dall’inizio del decennio seguente, portò ad un accresciuto interesse nei suoi confronti non solo da parte del Pci, ma anche da parte dell’Italia nel suo complesso, dalle forze politiche di governo a quelle economiche (Caroli 2009, 429-483).
Nell’agosto 1962 si tenne a Bucarest una riunione fra una delegazione del Pmr2 e una del Pci, a cui parteciparono anche Nicolae Ceauşescu, allora numero due del Pmr, ed Emanuele Macaluso, dell’area più “riformista” del Pci, aperta alle novità dell’Urss post-stalinista. In particolare, nel corso di una conversazione riservata con Chivu Stoica, ex primo ministro e stretto collaboratore di Gheorghiu-Dej, e Ilie Verdeţ, membro del comitato centrale del partito, Macaluso aveva difeso il Pci da critiche che alcuni ambienti del movimento comunista internazionale gli avevano rivolto. Nel periodo successivo al XX Congresso, infatti, il Pci aveva approfondito una riflessione critica sulle cause del cosiddetto culto della personalità: da qui, alcuni esponenti del partito, capeggiati da Antonio Giolitti, avevano sostenuto che era stato proprio il sistema sovietico a generare lo stalinismo, che quindi non rappresentava semplicemente un errore che si sarebbe potuto correggere. La posizione del Pci di fronte alla repressione sovietica in Ungheria nell’autunno 1956 aveva visto Giolitti su una posizione di netta critica: ciò che comportò la sua uscita dal partito. Non era tuttavia soltanto Giolitti a mettere in luce le contraddizioni dei comunisti italiani: un intero gruppo di intellettuali comunisti avevano espresso delle dure critiche verso l’invasione sovietica e le posizioni della dirigenza comunista (Ajello 1979, 397-452). Nel corso dell’incontro con Stoica e Verdeţ, Macaluso voleva quindi fugare ogni dubbio sull’ortodossia dei comunisti italiani: “durante la discussione alcuni elementi del P.C. Italiano influenzati dalla propaganda reazionaria hanno sostenuto che il regime sociale [dell’Urss] è quello che ha generato il culto della personalità di Stalin e le sue conseguenze negative. Il rappresentante di questi era Giolitti, di fronte al quale il nostro partito ha preso posizione, escludendolo dal partito”. Anche su un altro punto allora discusso dai comunisti italiani, quello del cosiddetto “policentrismo”, per cui si sosteneva che Mosca non avesse più un ruolo privilegiato nel dettare la linea per l’intero movimento comunista internazionale, Macaluso voleva rassicurare i suoi interlocutori romeni: “il nostro partito presentemente ha abbandonato questa formula sfortunata del policentrismo che ha creato una confusione”. Allo stesso tempo, però, l’esponente del Pci precisava che i partiti comunisti dell’Europa occidentale dovevano muoversi in un contesto profondamente diverso da quello dei paesi dell’Est, dove peraltro si trovavano al governo, e quindi una relativa autonomia era inevitabile: “i partiti comunisti nei paesi che formano il mercato comune hanno alcuni problemi specifici e per quelli essi possono anche avere bisogno di unirsi su una piattaforma comune nella lotta contro il capitalismo, usando forme e metodi adeguati, così come la borghesia lotta unita in questo quadro”. Macaluso quindi cercava da un lato di rassicurare i paesi comunisti sulla fedeltà di fondo del Pci rispetto al “campo socialista”, mentre dall’altro spiegava che era legittimo – anche sulla base del XX Congresso del Pcus – tentare delle vie nazionali al socialismo, che implicavano quindi un adeguamento della propria linea politica in funzione dei rispettivi contesti nazionali: “Ho sollevato questi problemi”, affermava, “dato che alcuni nostri compagni, che hanno trascorso il congedo nella Repubblica Popolare Romena, hanno l’impressione che voi aveste alcune preoccupazioni in relazione con i problemi politici di principio del nostro partito”. Di fronte a perplessità e incomprensioni, Macaluso auspicava una “discussione aperta”, attraverso la quale si sarebbe potuta raggiungere l’unità: nonostante il condizionamento della situazione specifica in cui “il nostro partito svolge la lotta”, esisteva infatti fra italiani e romeni “una base comune”. Chivu Stoica rassicurava per parte sua che il Pmr non aveva fatto “alcuna discussione” e non aveva dato “alcuna interpretazione o parere su questi problemi”: nonostante lo stupore per alcuni “aspetti interni della vita” del Pci, i comunisti romeni avevano infatti la “convinzione” che il partito italiano avesse “forze politiche temprate” e “rivoluzionari ragguardevoli che chiariranno gli argomenti e allontaneranno fenomeni difformi” (An, 1).
Tali prese di posizione evidenziavano che fra i due partiti comunisti esistevano già delle differenze rispetto a temi quali il dissenso e la libertà di critica all’interno del partito stesso. Mentre da parte italiana, fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, stava nascendo lentamente un’abitudine al confronto, nel partito romeno ciò non poteva essere tollerato. Se il comitato centrale del Pmr aveva sottolineato che la Romania era stata preservata dalle illegalità più gravi del periodo stalinista grazie a Gheorghiu-Dej, i comunisti italiani avevano fatto notare che “quando si manifestano storture le masse e non un solo compagno illuminato, che può o no esserci, debbono avere la possibilità di intervenire e modificare, correggere, troncare arbitri e storture” (Fig, 1).
Una fase del Pci si chiuse con la morte di Togliatti, il 21 agosto 1964, ad Artek, in Crimea. Togliatti si era sempre posto durante la propria vita su una linea di ortodossia rispetto all’Unione Sovietica e aveva seguito il nuovo corso inaugurato da Chruščëv inizialmente con una certa cautela, per timore di ripercussioni sul partito italiano: tuttavia, dopo i fatti di Ungheria, in cui aveva sostenuto a spada tratta le ragioni sovietiche, aveva lentamente ammorbidito la propria rigidità e il proprio fideismo verso Mosca. Nel già citato Memoriale di Yalta, una sorta di promemoria sui principali problemi di politica internazionale che Togliatti avrebbe dovuto affrontare nell’incontro previsto con Chruščëv, il segretario del Pci aveva esposto apertamente le proprie perplessità sulla politica sovietica, sia per quanto riguardava i rapporti con gli altri partiti comunisti, sia per quanto riguardava la lentezza del processo di destalinizzazione nella stessa Urss (Agosti 1996, 552-554; Guerra 2005, 261-268).
Su questi temi si incentrò l’incontro fra le delegazioni del Pci e del Pmr, tenutosi nel settembre 1964 in Romania, con la partecipazione, da parte italiana, di Mario Alicata, membro della direzione e segretario del comitato centrale del Pci, e Arturo Colombi, membro della direzione. Da parte romena invece vi erano Nicolae Ceauşescu, Chivu Stoica e Leonte Răutu, del comitato centrale. Affrontando la questione del Memoriale di Togliatti, Alicata ricordava che il Pci aveva ormai avviato una sua autonoma via nazionale al socialismo ed invitava i romeni ad un confronto libero su questo tema. Secondo Alicata non c’era “alcun dubbio” che esistevano ormai fra i partiti comunisti “delle differenze di pareri” su “determinati problemi”, ma questo non costituiva uno “scaldalo”: anzi, su molti temi “stabilire dov’è il nero, dov’è il bianco, dov’è la ragione e dove non è la ragione, è impossibile”. Serviva quindi, per trovare delle convergenze, “un lavoro difficile che richiede pazienza e calma da parte di ciascun partito”. Inoltre, sempre riferendosi al Memoriale, Alicata ricordava come all’interno dello stesso “campo socialista” vi fossero delle incongruenze fra la teoria e la prassi, per cui dei paesi socialisti si erano scontrati con altri paesi socialisti, erano stati invasi o erano criticati aspramente da governi marxisti: questa divisione continua del fronte anticapitalista creava un disorientamento nelle masse lavoratrici e doveva essere in qualche modo spiegata. Affermando che non era possibile negare che dopo il 1956 “alcuni elementi di convinzione socialisti, di credenze socialiste hanno sofferto alcune scosse in strati più larghi di lavoratori giovani”, Alicata spiegava che, dopo aver sempre fatto credere che “il socialismo creasse condizioni più favorevoli […] per superare le differenze fra i popoli”, ora si scopriva che “le divergenze fra alcuni paesi socialisti si sviluppano in modo aspro così come si sono sviluppati i conflitti fra Unione Sovietica e Cina”. Interrogato da Chivu Stoica sulle basi teoriche dell’“unità nella diversità”, Alicata ricordava che fin dalle risoluzioni del XX Congresso del Pcus si era previsto il fatto che non dovesse più esistere un partito guida. Da parte romena ci si disse sostanzialmente d’accordo e Ceauşescu criticò l’Urss per quanto riguardava la gestione della crisi dei missili a Cuba, in quanto la Romania non era stata consultata come membro del Patto di Varsavia. Ceauşescu mise in quell’occasione in chiaro la linea che avrebbe poi portato avanti negli anni seguenti, diretta a proseguire il distacco romeno da un troppo stretto controllo di Mosca, iniziato negli anni di Dej: “Noi consideriamo […] che le relazioni fra i paesi socialisti si devono basare […] sul principio del rispetto della sovranità e dell’indipendenza nazionale, sull’eguaglianza di diritto, sulla non ingerenza negli affari interni”, in base al “principio dell’internazionalismo proletario”. Da parte sua, Răutu si espresse contro l’integrazione economica dell’Europa orientale così come l’avrebbe voluta l’Urss, in base al fatto che l’economia era l’elemento principale per l’indipendenza dei paesi socialisti (An, 2).
In realtà, i romeni si dimostrarono particolarmente disponibili nei confronti delle tesi dei comunisti italiani, avendo caratterizzato sempre più la loro politica in una direzione autonoma dall’Unione Sovietica. In particolare, nel plenum allargato del comitato centrale dell’aprile 1964, il Pmr aveva dichiarato che ogni partito avrebbe dovuto decidere le sorti del proprio paese e quindi la gestione della propria economia nazionale. Non potevano allora più esistere “un partito ‘padre’ e un partito ‘figlio’”, partiti “superiori” e partiti “subordinati” e, nel contempo, sarebbe stato “diritto sovrano di ogni Stato socialista elaborare, scegliere o cambiare le forme e i metodi della costruzione socialista” (Agosti 1999, 247-248).
La posizione romena, considerata “eretica” sia da parte dei paesi del blocco orientale che da quelli occidentali, era dovuta soprattutto a motivi di carattere economico. I governanti romeni non erano infatti disposti ad accettare il ruolo di fornitore di materie prime in cui l’Unione Sovietica aveva voluto relegare il paese nell’ambito del Comecon. Secondo i principi della “divisione internazionale del lavoro”, la Romania avrebbe dovuto invece rivestire proprio tale funzione, a beneficio dei paesi più avanzati come la Cecoslovacchia e la Germania Est: con le parole di Niculescu-Mizil, responsabile delle relazioni internazionali del partito, ai romeni doveva spettare il ruolo di “grădină de zarzavat”3 (Marin 2008, 506). Per Gheorghiu-Dej prima e Ceauşescu poi, la Romania avrebbe dovuto al contrario sviluppare la propria industria per poter assicurare a se stessa una solidità economica, considerata sola garanzia d’indipendenza rispetto all’Urss. In tale contesto, quindi, furono stabiliti rapporti commerciali con i paesi occidentali, ma anche con quelli asiatici ed africani, e la Romania iniziò a giocare il ruolo di intermediario fra i due blocchi contrapposti e fra l’Occidente e il Terzo Mondo (Guida 2009, 249-251).
Dai primi anni Sessanta, in coincidenza con l’accresciuta attenzione del Pci rispetto al regime romeno e alla concordanza registrata su questioni come quella delle autonome vie nazionali al socialismo e dell’indipendenza dall’Urss, si moltiplicarono le note informative richieste dal partito italiano sulla situazione della Romania. Particolare interesse suscitava nel Pci l’opposizione romena all’integrazione economica all’interno del Comecon: “non sono disposti ad accettare di essere soltanto un serbatoio di materie prime e di prodotti agricoli” e “stanno restringendo in parte i consumi per incrementare l’esportazione verso i paesi capitalisti in modo da poter intensificare gli investimenti industriali”. Inoltre, gli osservatori del Pci rilevavano che all’interno del Pmr si teneva molto a sottolineare il rispetto dell’“autonomia” e della “sovranità nazionale”, con un “atteggiamento polemico nei confronti dell’attuale gruppo dirigente sovietico”, “anche se molto contenuto” (Fig, 2). Parallelamente a questo interesse da parte dei comunisti italiani per tutto ciò che fosse in sintonia con la loro stessa politica autonoma rispetto all’Urss, iniziava a svilupparsi nelle relazioni della sezione esteri del Pci un atteggiamento critico verso le questioni interne della Romania. In particolare, ci si soffermava sulla gestione rigida dell’economia e sull’assenza di un libero dibattito sia nel partito che nel paese attorno ai principali problemi di carattere politico, anche nel campo internazionale, per cui “sulla stampa romena non appare nulla”. Nonostante il fatto che il gruppo dirigente romeno si trovasse frequentemente in disaccordo con l’Unione Sovietica, di fronte all’opinione pubblica si esaltava l’“unità monolitica del campo socialista”, senza fare “nessun accenno alle divergenze” fra i diversi paesi. Per quanto riguardava la liberalizzazione interna e il culto della personalità, il governo romeno riteneva che fosse “un problema che interessa solo l’Urss”, poiché “in Romania sarebbe già stato risolto”. Insomma, nei rapporti riservati del Pci cominciava ad emergere un evidente disagio per la censura praticata su tutto ciò che potesse nuocere all’immagine del regime:
In generale degli errori del passato […] e delle deficienze attuali non si parla. Tutto va bene. Per esempio, tuttora manca la carne. Questo inverno la popolazione ha rotto le vetrine di alcune macellerie provocando risse (le code si formavano 8-9 ore prima della apertura dei negozi) ma la stampa non ha mai detto nulla sulle cause di tale fenomeno. Nemmeno degli attuali rapporti in seno al COMECON si parla […] (Fig, 3).
Sulle questioni di carattere internazionale, invece, la concordanza fra i due partiti continuava ad essere buona, in particolare sulla “convivenza pacifica” fra Est ed Ovest e sull’autonomia dei partiti comunisti da Mosca, per cui i romeni davano un giudizio positivo sulla Jugoslavia e nutrivano al contrario “non poco disprezzo per la Bulgaria”, considerata “un paese inesistente come entità propria, ma solo appendice dell’URSS”. I romeni affermavano di avere “un alto concetto” del Pci, ritenuto “un partito originale” con “proprie idee [e] posizioni”, ma si lamentavano del fatto di non trovare presso i compagni italiani “una entusiastica comprensione” (Fig, 4).
In effetti, il Pci continuava ad osservare con una certa diffidenza il regime autoritario di Bucarest, che sembrava avere accolto soltanto a parole le novità spiranti dall’Urss dopo il XX Congresso: “mentre i sovietici, sia pure attraverso incertezze, contraddizioni e manchevolezze, affrontano sul serio [corsivo nel testo] i problemi del superamento dei residui del culto della personalità”, i romeni “decidono di non trasferire che in minima misura nella pratica le dichiarazioni autocritiche pronunciate”. Pur riconoscendo al regime romeno di aver sviluppato un “alto livello dell’organizzazione economica”, si denunciava “la mediocrità dell’attività, politica ed ideologica”. Inoltre, nei rapporti riservati del Pci iniziava a comparire una nota polemica e a tratti sarcastica sull’illiberalismo del regime, che metteva bene in luce la profonda diversità già allora esistente fra i due partiti, entrambi comunisti ma che stavano maturando due visioni inconciliabili sulla questione della democrazia e della libertà:
Ovviamente è da considerarsi positiva la concessione data negli ultimi anni di ballare il twist e di cantare o ascoltare le canzonette occidentali […]. Ma, di contro, il permanere di numerosi controlli (ad esempio nell’estate del 1963 vi era ancora il divieto di possedere e d’usare macchine da scrivere, all’uscita ed all’entrata delle città e dei villaggi erano situati posti di blocco della polizia, esisteva inoltre in tutte le case l’elenco esposto degli inquilini in esse abitanti) denotava o sfiducia nelle masse popolari o l’esistenza d’un certo pericoloso malcontento.
Gli osservatori del Pci riconoscevano certamente quelle che venivano ritenute positive conquiste dello stato socialista, come “il grandioso impulso dato alla istruzione popolare e l’accesso alle Università ed agli studi superiori che è stato largamente garantito a tutti”, ma denunciavano al contempo “pesanti fenomeni di provincialismo” e “gravi distorsioni di prospettive” nel rapporto con quella che veniva considerata dai romeni la “cultura ‘degenerata’ occidentale”. In sostanza – si chiedeva l’estensore del rapporto – “è più pericolosa una mostra di pittura astratta o un film semipornografico francese o americano?”. E ancora: “è più ‘anticulturale’ […] un articolo che ripete per la ennesima volta una trita sfilza di citazioni (e come non giustificare allora il disinteresse dei giovani per questo genere di ‘marxismo’) oppure la discutibile ma stimolante prosa di Sartre?” (Fig, 5).
Nel marzo 1965, pochi giorni dopo la morte di Gheorghiu-Dej, Nicolae Ceauşescu fu eletto segretario del Pmr. Ceauşescu proseguì la politica di autonomia nazionale e di apertura verso i paesi non comunisti inaugurata da Gheorghiu-Dej e permise, nella seconda metà degli anni Sessanta, una moderata liberalizzazione sul piano interno e una maggiore concessione ai consumi. Il partito, che nel 1965 aveva riassunto il nome di Partito comunista romeno, aveva promosso un’autocritica generale sulle persecuzioni e le illegalità degli anni Cinquanta e furono riabilitati Lucreţiu Pătrăşcanu e altre vittime dello stalinismo romeno: cosa che comportava ovviamente una velata presa di distanza dalla gestione di Dej. Inoltre, il programma di derussificazione nella scuola e nella cultura, iniziato nel 1958 contestualmente al ritiro delle truppe sovietiche, proseguì a ritmi spediti, insieme all’esaltazione delle radici latine della nazione romena, isola fra i popoli slavi (Agosti 1999, 247-248; Guida 2009, 254-257).
Ceauşescu ambì poi a far giocare alla Romania un ruolo attivo nelle questioni più cruciali di politica internazionale, come il disgelo est-ovest, il dissidio cino-sovietico, la crisi mediorientale, il Terzo Mondo. Per fare ciò, si spinse ulteriormente in direzione di una fuoriuscita dalla logica dei blocchi e, pur mantenendo la Romania all’interno del Patto di Varsavia, la collocò virtualmente fra i paesi non allineati, al fianco della Jugoslavia di Tito. Tutto il mondo occidentale osservava con estremo interesse la cosiddetta “eresia” romena: fra l’altro, a Bucarest si recarono in visita De Gaulle e Nixon e la Romania aderì al Gatt nel 1971, alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale nel 1972, mentre furono stabiliti favorevoli accordi commerciali con il Mercato comune europeo e gli Stati Uniti (Guida 2009, 261-262; Biagini 2004, 122-125; Crampton1995, 354).
Nell’agosto 1965 si tenne a Bucarest un incontro fra la direzione del Pcr e una delegazione del Partito socialista italiano per discutere sulla situazione del Vietnam e le ipotesi di mediazione fra Urss, Cina e Stati Uniti (Fig, 6), mentre nel settembre 1967 fu il segretario del Pci Luigi Longo a recarsi in Romania per incontrare Ceauşescu. I due affrontarono i principali punti allora sul tappeto in politica internazionale e su diverse questioni, quali il dialogo est-ovest, si trovarono d’accordo, mentre su altre i comunisti italiani dovettero constatare che il regime romeno era fin troppo “moderato”. Sul conflitto arabo-israeliano, Ceauşescu ad esempio sostenne che la guerra si sarebbe potuta evitare se non si fossero esasperati i rapporti con Israele, criticando inoltre l’Urss per la sua posizione unilateralmente filoaraba. Era stato un errore dichiarare aggressore Israele e aver rotto le relazioni diplomatiche con il governo israeliano: la Romania era stato l’unico paese del blocco socialista che si era rifiutato di farlo e che aveva conservato una posizione di stretta neutralità (Marin 2008, 523). Per quanto riguardava il Vietnam, Ceauşescu accusava i sovietici di essere eccessivamente cauti e di non darsi abbastanza da fare per mettere fine al conflitto. Affrontando poi il tema della Ostpolitik inaugurata da Brandt, Ceauşescu si mostrava aperto, tanto da stabilire relazioni diplomatiche con Bonn, a discapito di quelle con la Germania Est, che infatti si raffreddarono (King 1980, 143). Più in generale, il leader romeno si diceva convinto dell’importanza di mantenere buone relazioni con le socialdemocrazie europee e con la sinistra nel suo complesso, andando oltre il movimento comunista. La delegazione del Pci rimase colpita dalle posizioni sempre più audaci del segretario del Pcr in campo internazionale e dalla costante polemica nei confronti dell’Urss, giudicata addirittura “preoccupante” (Fig, 7).
Una nuova importante convergenza fra il Pci e il Pcr si ebbe nell’agosto 1968, in occasione dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle armate del Patto di Varsavia, a cui la Romania non partecipò. Il Pci, coerentemente con un percorso di autonomia nell’ambito del movimento comunista internazionale e di introiezione graduale, non solo tattica ma meditata, di valori ritenuti “assoluti”, come il pluralismo politico e la democrazia intesa in senso occidentale, non esitò a condannare fermamente l’invasione, “non potendosi in nessun caso ammettere violazioni all’indipendenza di ogni stato” (Tonchio 1968, 312). Da parte romena, anche Ceauşescu condannò nettamente l’invasione, definendola “un grande errore e un grave pericolo per la pace in Europa, per la sorte del socialismo nel mondo”, poiché non si poteva per alcun motivo giustificare l’idea di un intervento militare per risolvere le questioni interne di uno “stato socialista fratello” (Marin 2008, 531). In realtà, nonostante la concordanza nella condanna, il Pci e il Pcr partivano da diversi presupposti: mentre i comunisti italiani avevano simpatizzato apertamente per il “comunismo riformatore” e liberaleggiante di Dubček, i romeni si limitavano esclusivamente alla violazione della sovranità nazionale cecoslovacca e del principio di autonomia dei partiti comunisti. In ogni caso, entrambi i partiti furono d’accordo nel condannare l’“imperialismo” e le intromissioni sovietiche nelle vicende interne di paesi sovrani (Pons 2006, 3-19; Tonchio 1968, 310-361).
Nel settembre 1968 si tenne un incontro fra le delegazioni dei due partiti appunto per affrontare la questione cecoslovacca. Da parte italiana si rilevò “la particolare concordanza di posizioni tra i due partiti” (Fig, 8) e da parte romena ci si espresse chiaramente per una condanna dell’“intervento brutale” del Patto di Varsavia, anche perché “se i sovietici e gli altri paesi socialisti hanno inviato truppe in Cecoslovacchia, dobbiamo dire che possiamo aspettarcele anche da noi”. La possibilità di un’invasione della Romania appariva in quel momento, al Pcr, non tanto remota: “se non ci fosse stata la condanna di molti partiti comunisti è difficile dire se i sovietici a questo punto non sarebbero già intervenuti militarmente contro la Romania” (Fig, 9).
Anche nell’incontro avvenuto nel luglio 1970 a Bucarest fra Enrico Berlinguer – numero due del Pci, due anni dopo nuovo segretario al posto di Longo –, e Ceauşescu, vi era stata una sintonia sull’ormai sperimentato tema dell’autonomia dei partiti comunisti da Mosca. Il leader romeno denunciava a questo proposito il fatto che si fossero “intensificate le ingerenze” sovietiche “negli affari degli altri partiti” e fosse aumentato il controllo nei confronti di coloro i quali rifiutavano “una concezione chiusa, dogmatica del socialismo”. Per Ceauşescu naturalmente il Pcr costituiva appunto l’esempio di un partito moderno, che veniva attaccato poiché rappresentava un elemento “progressista, nuovo, nel pensiero marxista” e che trovava quindi spontaneamente un terreno di collaborazione con i comunisti italiani, con i quali esistevano “molti […] punti di vista comuni sulla base di un marxismo-leninismo creativo” (Fig, 10; Fig, 11).
Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, tuttavia, i rapporti fra i due partiti andarono incontro ad un graduale ma progressivo raffreddamento. Sia il Pci che il Pcr avevano infatti raggiunto una sostanziale normalizzazione con l’Urss brežneviana: Ceauşescu con l’obiettivo di smorzare le diffidenze sovietiche, temendo possibili reazioni anche sul piano militare, e il Pci – prima con Longo, poi con Berlinguer – non volendo rompere con il campo socialista, che restava, nonostante tutto, il suo punto di riferimento ideologico. Il Pci fece insomma capire ai sovietici che, fermo restando il diritto dei comunisti italiani a sviluppare una loro linea autonoma sul tema della democrazia e del pluralismo, i dissensi futuri si sarebbero comunque esercitati dall’interno del movimento comunista internazionale, secondo una formula che è stata definita “né ortodossia, né eresia” (Pons 2003, 71; 2006, 3-19; Höbel 2001, 1145-1172; Agosti 1999, 265).
Non per questo il Pci interruppe il suo processo di rinnovamento ideologico, collocandosi alla testa del cosiddetto movimento dell’“eurocomunismo”, nel tentativo di trovare una “terza via” fra quella sovietica, ritenuta ormai superata, e quella delle socialdemocrazie occidentali, incapaci – per i comunisti italiani – di risolvere le contraddizioni del capitalismo. Su queste basi, nel corso degli anni Settanta, il Pci guardò con occhi sempre più critici alla realtà dei paesi del “socialismo reale”, percependo uno scarto progressivamente incolmabile fra quei regimi illiberali e il loro ideale di “comunismo riformatore” e autenticamente democratico. Lo stesso Berlinguer aveva invitato i comunisti italiani ad avviare “una azione di ricerca e di studio critico sempre più approfondito sui paesi socialisti”, allo scopo di giungere ad “un giudizio storico, critico, obiettivo” per cogliere, “insieme a quegli elementi positivi che sono ormai tappa fondamentale del progresso dell’umanità, i limiti e gli aspetti negativi, il loro intreccio e le contraddizioni che ne derivano”4.
Fu il corrispondente de “l’Unità” da Bucarest, Silvano Goruppi, a trasmettere una serie di informazioni riservate alla sezione esteri del partito, allo scopo di mettere in luce tutte le storture del regime di Ceauşescu5. La Romania dei primi anni Settanta si presentava come un paese caratterizzato da “tensione, preoccupazione e incertezza per delle misure economiche antipopolari che hanno reso ancora più precario il già pesante stato di cose”. Era la politica di austerità voluta da Ceauşescu, con la contrazione dei consumi allo scopo di rilanciare le esportazioni industriali, ad essere criticata dal corrispondente de “l’Unità”, per cui “la situazione economica in generale si presenta sotto un aspetto negativo”. Anche l’esportazione, su cui il leader romeno aveva puntato le sue carte, non aveva ottenuto i risultati sperati, perché “i prodotti sono scadenti, vengono respinti e d’altra parte la Romania assume impegni che le è difficile rispettare”. Nel frattempo, i consumi interni erano stati sacrificati e ridotti ad un livello del tutto insufficiente per la popolazione:
A Bucarest c’è molta gente che mangia carne – di ultima scelta – ogni mese-mese e mezzo. Nelle campagne la carne non esiste. Recentemente è sparito tutto il burro perché c’è stata una forte richiesta sul mercato occidentale; agli operai di Ploiesti che hanno protestato hanno risposto “mangiate margarina”. Due settimane fa per due notti con i camion hanno rastrellato tutti i negozi della capitale per mettere assieme l’olio necessario per esportare in Svizzera per rispettare un contratto. E quando la gente protesta rispondono: non abbiamo, bisogna esportare.
Goruppi notava anche come Ceauşescu stesse costruendo intorno alla propria figura – e a quella della sua famiglia – un autentico culto della personalità, per cui ogni libera discussione era bandita e “la sola cultura” era “quella del folclore e quella patriottica” (Fig, 13; Fig, 14). Anche per Sergio Segre, responsabile della sezione esteri del Pci, “l’impressione generale che si ricava a Bucarest, per quel che riguarda i problemi interni, è di uno sviluppo parossistico del culto di Ceauşescu, e di notevoli difficoltà economiche” (Fig, 15). Goruppi era particolarmente scettico sul grande attivismo intrapreso dal regime romeno in politica estera nei primi anni Settanta. Per quanto riguardava il viaggio di Ceauşescu in America Latina dell’agosto 1973, le cui finalità erano di rilanciare la “malandata politica estera romena”, il corrispondente de “l’Unità” affermava che “è stato preparato male ed ha avuto poca fortuna”, anche se la stampa romena aveva presentato tale viaggio come “fondamentale per la pace nel mondo, sottolineando il ruolo di leader dei paesi minori che la Romania si vuol assumere”. Tuttavia, notava Goruppi, Ceauşescu si muoveva ormai in un’esclusiva dimensione di prestigio personale, svincolata completamente da motivazioni di carattere ideologico, per cui lo stesso vocabolario usato, appartenente alla tradizione comunista, perdeva di significato. La tanto esaltata solidarietà al “fronte antimperialista” non aveva ad esempio provocato da parte del governo romeno alcuna presa di posizione effettiva nei confronti del colpo di stato cileno. Anzi, la portata dello stesso golpe era stata minimizzata ed era stato dato largo credito alla tesi del “suicidio” del presidente Allende. Inoltre, scriveva Goruppi, “la Romania non ha rotto e non ha intenzione di rompere le relazioni con il Cile”: al contrario, l’ambasciatore cileno a Bucarest, fedele al governo socialista abbattuto da Pinochet, era stato invitato dal ministero degli Esteri romeno “a non insistere nel voler rappresentare il Cile”. Secondo il corrispondente de “l’Unità”, questa era un’ulteriore riprova della sostanziale mutazione del regime di Ceauşescu, che di “comunista” aveva soltanto il nome e aveva perso ogni connotazione “di sinistra”, costituendo ormai esclusivamente un sistema totalitario e familistico. Ecco quindi perché tale regime poteva avere simpatie per paesi autoritari di destra: la coloritura politica non aveva più alcuna importanza e Bucarest trovava affinità con qualsivoglia governo retto “con sistemi duri, strettamente nazionalistici”. Anche il cosiddetto regime “dei colonnelli” in Grecia aveva suscitato le simpatie di Ceauşescu, per cui in occasione dell’insediamento del dittatore Papadopulos era stato inviato un telegramma di auguri e a Bucarest si insisteva che “i colonnelli non sono fascisti” (Fig, 16; Fig, 17). In un rapporto diretto a Segre nel maggio 1974, Goruppi sottolineava i criteri puramente nazionalistici che guidavano la diplomazia romena: alla squadra navale greca ancorata a Costanza erano state riservate “grandi feste” e addirittura l’ambasciatore della giunta militare cilena era giunto a deporre “una corona al monumento dei caduti per la patria e il socialismo”. Il punto era che la distanza politica fra il Pci, ormai inserito, pur con contraddizioni di carattere ideologico, in un contesto di accettazione strategica e non solo tattica del sistema democratico occidentale, e i paesi del cosiddetto “socialismo reale”, era ormai incolmabile. In più, per quanto riguardava la Romania, da parte degli osservatori del Pci vi era una piena consapevolezza del carattere a sua volta del tutto particolare di quel regime, anche nel panorama delle dittature comuniste dell’Europa orientale: si trattava infatti di un sistema centrato totalmente sul culto del capo e della sua famiglia. Per tale motivo, il corrispondente de “l’Unità” consigliava di non accettare nemmeno gli inviti romeni per una visita di Berlinguer a Bucarest, suggerendo invece alla direzione del partito di “mantenere le distanze ed evitare di dare la possibilità ai nostri amici di presentare la nostra politica analoga alla loro perché hanno imboccato una strada che non si sa dove porti” (Fig, 18; Fig, 19).
Tale atteggiamento non era peraltro sfuggito ai comunisti romeni, che diffidavano da tempo della linea scelta dal Pci nelle questioni della politica interna italiana, come la strategia dell’avvicinamento alla Democrazia cristiana nella prospettiva di un governo di coalizione fra i due principali partiti italiani: quello che Berlinguer aveva chiamato il “compromesso storico”. Cornel Burtică e Ştefan Andrei avevano infatti voluto che gli articoli pubblicati da “l’Unità” sulla Romania negli ultimi anni fossero metodicamente esaminati e che si ponesse sotto controllo la posta di Goruppi (Fig, 20; Fig, 21). Lo stesso Andrei avrebbe inoltre dichiarato al direttore dell’organo del Pcr “Scînteia” che i rapporti fra Pci e Pcr si trovavano in una “congiuntura non favorevole” (Fig, 22; Fig, 23).
Tuttavia, le posizioni critiche degli osservatori del Pci sulla Romania furono mantenute riservate e la direzione del partito italiano scelse ancora per diversi anni di non rompere ufficialmente con il regime di Ceauşescu, valutando comunque come prioritaria la concordanza sulle questioni di carattere internazionale, come l’autonomia da Mosca e la collaborazione per il superamento dei blocchi e per il disarmo. Il Pci aveva insomma bisogno in Europa orientale di collaborare con tutte le forze disponibili – ed erano poche – a sostenere una linea di comunismo il più possibile indipendente dall’Unione Sovietica con la quale, però, i comunisti italiani evitarono un’aperta rottura. Giorgio Napolitano, allora esponente di primo piano dell’ala “moderata” e “riformista” del Pci, abile tessitore di incontri con la socialdemocrazia tedesca e convinto sostenitore dell’Ostpolitik, riteneva che i comunisti italiani avrebbero dovuto svolgere nei confronti dei paesi socialisti “una funzione critica, ma senza rottura”, nella prospettiva di “influenzare comunque – se non nel senso di una riforma del sistema economico e politico, almeno nel senso di una liberalizzazione – quei partiti e quei paesi” (Napolitano 2006, 112). Dopo aver incontrato a Bucarest nel luglio 1974 Ceauşescu, con cui peraltro aveva registrato la consueta sintonia sui temi del superamento dei blocchi e del disarmo, Napolitano riconosceva tuttavia che la situazione descritta negli ultimi anni dal corrispondente de “l’Unità” nei suoi rapporti riservati rispondeva a verità: “È […] un fatto che basta sfogliare i giornali o sentire la radio e la TV per accorgersi dell’eccezionale amplificazione che si è fatta e sempre più si fa del ruolo personale di Ceauşescu (e a ciò si aggiungono le voci, che abbiamo raccolto anche dall’ambasciatore italiano, sulle tendenze ‘dinastiche’ di Ceauşescu)”. Nonostante questo però, Napolitano, a differenza di Goruppi, riteneva che il Pci dovesse continuare a mantenere dei canali di comunicazione con il regime romeno, da un lato nella speranza di modificarlo in un senso liberalizzatore, dall’altro nella prospettiva di proseguire una collaborazione politica in campo internazionale. Per Napolitano quindi, pur costituendo la situazione interna della Romania un “problema serio”, non sarebbe stato possibile risolverlo semplicemente “prendendo le distanze” e “allentando i nostri rapporti con i romeni”. Piuttosto, in vista del prossimo congresso del Pcr, egli suggeriva di far pesare l’influenza del Pci per favorire, in modo cauto, un ricambio al vertice del partito romeno o almeno un cambio di linea politica, esprimendo “in modo informale le nostre preoccupazioni per gli sviluppi, attuali ed eventuali, della direzione personale e ‘familiare’ di Ceauşescu”. Infine, riteneva conveniente un cambiamento dell’atteggiamento eccessivamente critico del corrispondente de “l’Unità”, che avrebbe dovuto dare, così come avevano auspicato i romeni nel corso dell’incontro, maggiore spazio “ad alcuni aspetti della situazione romena e dell’attività internazionale della Romania” (Fig, 24).
L’incontro fra Ceauşescu e Berlinguer ebbe così luogo nel gennaio 1977. In tale occasione, fra i due leader si registrò un’intesa consueta quanto formale sull’ormai collaudato tema della “necessità di rispettare le scelte di ogni partito”. Berlinguer infatti riaffermò che i comunisti italiani erano “contro i modelli anche in quanto non pretendiamo che nessuno segua il nostro”. Appunto sulla “scelta pluralistica” del Pci le visioni erano nettamente diverse, per cui, relativamente al “problema della democrazia”, Ceauşescu, pur comprendendo “come questo problema si pone in Italia o in Francia”, non riteneva si trattasse “di una verità assoluta con validità universale”. Anche sul tema del sostegno alla politica di Brandt, che il Pci aveva appoggiato, il leader romeno affermò che la sua elezione a presidente dell’Internazionale socialista era un elemento negativo, in quanto “egli è tra quelli che vogliono impedire la collaborazione tra comunisti e socialisti”. Insomma, l’elemento su cui continuava a fondarsi la collaborazione fra Pci e Pcr era rimasto sostanzialmente immutato, ma aveva perso i connotati innovativi di un decennio prima: “respingere i tentativi di ingerenza nella vita degli altri partiti, e operare perché ogni partito possa svolgere la sua azione in piena indipendenza”, in quanto “non esistono […] modelli o forme uniche in quel che concerne i problemi delle vie al socialismo e della costruzione socialista” (Fig, 25).
Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, sembrava quindi definitivamente tramontato il periodo più proficuo della collaborazione fra i due partiti, che aveva avuto il suo culmine con la critica all’Urss e ai paesi del Patto di Varsavia in occasione dell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Così, Gian Carlo Pajetta, in seguito ad un incontro con Ceauşescu nell’estate del 1981, aveva riscontrato nel leader romeno una certa “freddezza politica”, dovuta ad una crescente diffidenza verso le posizioni del Pci, sempre più distanti dalla realtà del “socialismo reale”. Addirittura, Ceauşescu aveva avuto da ridire sull’eccessiva enfasi data alla questione dell’autonomia da parte dei comunisti italiani, quando fino a pochi anni prima il Pcr aveva fatto del principio dell’autonomia dall’Urss il punto centrale della propria politica internazionale (Fig, 26). Il fatto era che il Pci aveva progressivamente allargato la propria concezione di autonomia, intendendola ormai non solo come un’autonomia dall’Urss, ma come un’autonomia dall’intero blocco socialista, considerato incompatibile con il concetto di democrazia in senso occidentale che i comunisti italiani avevano fatto proprio. Esprimendo alcune perplessità sul Pci, che aveva manifestato serie preoccupazioni per i processi ai dissidenti sovietici e in generale rispetto alla limitazione della libertà di pensiero nei paesi socialisti, Ghizela Vass, della sezione esteri del Pcr, aveva infatti lamentato una mancanza di equilibrio “tra le critiche che fate ai paesi socialisti e le realizzazioni di questi paesi” (Fig, 27; Fig, 28). La stessa Ghizela Vass aveva espresso in un’altra occasione delle critiche al Pci e, più in generale, ai partiti comunisti occidentali, sia sulla loro concezione della democrazia, giudicata “neutrale”, perché “non legata alla esigenza di una precisa affermazione delle classi popolari”, sia in merito ad “una tendenza nel periodo più recente a sottolineare solo le carenze e i ritardi presenti nei paesi socialisti” (Fig, 29). Un ulteriore motivo di frizione fra i due partiti comunisti fu provocato dalla crisi polacca del 1980-81 e dalla posizione presa nei confronti del nuovo sindacato libero Solidarność, su cui italiani e romeni avevano delle idee nettamente contrapposte. La direzione del Pci, che seguiva con molta attenzione ciò che stava accadendo in Polonia, si era espressa già nel novembre 1980 in modo molto chiaro, condannando ogni possibile ingerenza sovietica nelle questioni interne polacche ed invitando il regime comunista ad un dialogo con il nuovo sindacato di Wałęsa (Fig, 30). La linea tenuta dai comunisti italiani aveva generalmente suscitato critiche da parte di tutti i partiti comunisti dell’Est e in particolare di quelli polacco e sovietico. Il Pcus, soprattutto, aveva accusato il Pci di non “sostenere il socialismo realmente esistente in Polonia”, ma al contrario di “esprimere solidarietà alle forze che conducono un attacco contro di esso”, avendo manifestato “le proprie simpatie soltanto a quelle forze ed organizzazioni che rivolgono adesso una critica globale a tutti i risultati dello sviluppo della Polonia socialista, al regime sociale e statale esistente in questo paese” (Fig, 31). In un incontro svoltosi a Bucarest nel dicembre 1980 fra una delegazione del Pci, Ceauşescu e Ghizela Vass, era chiara la totale incomprensione fra italiani e romeni sulla valutazione di ciò che stava accadendo in Polonia. Ceauşescu si diceva preoccupato del fatto che “ci sono dei circoli che tentano di approfittare di questi avvenimenti per gettare discredito sul socialismo in generale” e affermava inoltre di essere sorpreso per il modo in cui “dei partiti comunisti occidentali hanno commentato gli avvenimenti polacchi”. Il suo parere era che “non è bene, in alcun modo, vedere qui un processo di sviluppo nuovo del socialismo”: anzi, il governo polacco stava sbagliando a venire incontro alle richieste degli operai, che erano strumentalizzati da forze esterne alla Polonia e dalla Chiesa cattolica. Ceauşescu negava anche che ci fosse una crisi economica in Polonia, sostenendo piuttosto la natura politica delle contestazioni e valutando negativamente – a differenza del Pci – la nascita dei sindacati indipendenti: “Noi crediamo che sia erroneo sostenere che la creazione di un ‘Sindacato indipendente’ sia un fatto positivo. Come ‘indipendenti’, quando questi organismi sono stati voluti dalla Chiesa cattolica?”. Inoltre, Ceauşescu si rifiutava di paragonare, come invece tentava di fare il Pci, i fatti polacchi a quelli cecoslovacchi del 1968, spiegando che “la direzione cecoslovacca aveva approvato un programma per uno sviluppo socialista organizzato e consapevole” e “in Polonia invece il POUP ha perso il controllo della situazione”. Infine, si diceva convinto che l’Unione Sovietica non sarebbe intervenuta e si augurava che il governo polacco sarebbe stato capace di risolvere la situazione da solo, ma, nel caso di uno scontro con le forze di opposizione, “apparirebbe inevitabile un appoggio [esterno] per impedire il rovesciamento del potere socialista in Polonia” (Fig, 32; Fig, 33). Il ministro degli Esteri romeno Andrei aveva espresso agli italiani, in via riservata, qualche perplessità rispetto all’ottimismo di Ceauşescu sulla situazione economica polacca, riconoscendo che fosse “effettivamente grave”, ma aveva ribadito che “esiste una costituzione” ed “esistono le leggi”, per cui “chi le viola deve essere colpito”. Mentre per gli italiani il problema politico era che vi fosse comunque “il consenso attivo della maggioranza della classe operaia (e del popolo)”, secondo Andrei, invece, “non sempre coloro che portano la tuta sono la classe operaia” (Fig, 34).
Per quanto riguardava le altre questioni di carattere internazionale sul tappeto, in particolare la politica sovietica in Afghanistan, permaneva comunque un sostanziale accordo, per cui Ceauşescu concordava sul fatto che l’Urss avesse commesso un errore nell’invadere il paese, anche perché aveva “fornito alle classi dirigenti americane l’occasione per uscire dal ‘complesso del Vietnam’”. Inoltre, il governo romeno continuava a voler giocare un ruolo di mediatore, puntando ad una soluzione che prevedesse il ritiro delle truppe sovietiche contemporaneamente al disarmo dei guerriglieri islamici, il ritiro degli infiltrati dal Pakistan e l’impegno delle forze esterne a cessare le attività ostili, permettendo al governo afgano di lavorare per una pacificazione. A parte ogni altra considerazione sul velleitarismo di tali propositi, permaneva quindi anche all’inizio degli anni Ottanta l’ambizione di Ceauşescu di mantenere il paese in una posizione centrale nel dibattito internazionale, soprattutto per motivi di prestigio personale, unita ad una bassa considerazione per la classe dirigente sovietica: “tutto il Presidium è composto da uomini anziani, malati, sempre più ‘chiusi’ e isolati dalla realtà” (Fig, 35).
Nel dicembre 1983 si tenne l’ultimo incontro, dal carattere piuttosto formale e rituale, fra Berlinguer – che sarebbe morto alcuni mesi dopo – e Ceauşescu, dedicato completamente alle questioni internazionali, in particolare all’accresciuta tensione fra Usa e Urss e alle zone di maggiore crisi, come Afghanistan e Golfo Persico (Fig, 36). La sostanza era però immutata: l’intesa, che pure vi era stata fra i due partiti fino ai primi anni Settanta, era ormai finita. Basta uscire dall’ambito delle dichiarazioni ufficiali e leggere i rapporti riservati ad uso interno del Pci per rendersene conto. In particolare, la nota di Antonio Bassolino – allora già esponente nazionale del partito – sul XIII Congresso del Pcr, tenutosi nel novembre 1984, era rivelatrice della netta percezione, da parte del Pci, della situazione ormai completamente degenerata vigente sia nel partito che nel paese. Dopo un’osservazione sulla gestione familistica del partito, in cui erano stati portati ad un ruolo dirigenziale diversi esponenti del “clan”, fra cui moglie, fratello, figlio e cognato, e l’allontanamento di personaggi indesiderati, che “non condividevano del tutto il giro di vite centralizzatore nella gestione del partito e dello Stato”, Bassolino descriveva il carattere “liturgico” che il congresso aveva assunto:
Era difficile seguire la relazione di Ceausescu perché ogni 4-5 minuti i delegati sbattevano i piedi gridando (oh oh oh), acclamavano Ceausescu e scandivano come slogans “Ceausescu-P.C.R., Ceausescu-pace, Ceausescu-Romania”.
Inoltre, non sfuggiva a Bassolino lo scarto fra il quadro esaltante della Romania dipinto al congresso – per cui Ceauşescu, dopo aver affermato che la situazione del popolo romeno era già di “benessere spirituale e materiale”, si era spinto a prevedere il passaggio alla costruzione del comunismo nel duemila – e la reale condizione del paese:
In molte case, in molti alberghi e nei ristoranti non c’è riscaldamento, a volte, come nei ristoranti, non c’è gas per cucinare. Lunghe sono le file ai negozi di generi alimentari […]. Bucarest dalle ore 17 è quasi al buio; l’immagine che se ne ricava è quella di una “economia di guerra”.
All’Hotel Bucarest e nelle sale del Congresso il caldo è invece terribile. Tutta la città è tappezzata da gigantografie di Ceausescu e da scritte inneggianti alla sua figura (Fig, 37).
Il punto, secondo Bassolino, era che il Pci non poteva più evitare di prendere un’aperta e pubblica posizione nei confronti del regime romeno, già da molti anni criticato dai comunisti italiani ma solo nell’ambito di relazioni riservate ad uso interno:
Non possiamo continuare a tacere sulla situazione economica e sulla mancanza di ogni forma di libertà. Il regime rumeno è un “regime di polizia”. Tacere perché la loro politica internazionale era diversa dalla sovietica era già discutibile ieri, e oggi non è più possibile (Fig, 38).
Alla metà degli anni Ottanta, insomma, il rapporto fra i comunisti italiani e quelli romeni raggiunse un suo esaurimento naturale. Il moltiplicarsi di contatti e la sintonia che ebbero due partiti, considerati a diverso titolo “eretici” dal movimento comunista internazionale, su questioni come l’autonomia da Mosca, il superamento dei blocchi e la distensione, si erano trasformati da effettivo stimolo critico a vuoto rituale. Il Pci, che, dopo il cosiddetto “strappo” con l’Urss dato da Berlinguer in seguito al colpo di stato polacco del dicembre 1981, aveva decretato la fine della “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre (Agosti 1999, 311-312), era ormai avviato alla ricerca di una “terza via” fra “socialismo reale” e socialdemocrazia, incentrata sull’elaborazione di un “comunismo democratico”. Se questa sua posizione solitaria all’interno del movimento comunista internazionale aveva permesso al Pci di osservare criticamente i paesi del “socialismo reale”, d’altra parte la linea del partito italiano rivelò di lì a pochi anni la propria insostenibilità e la ricerca di una “terza via” al socialismo si infranse sull’incapacità dei suoi dirigenti di superare il trauma provocato dalla fine dei pur tanto biasimati regimi dell’Est (Gualtieri 2001, 94; Pons 2001, 37; Guerra 1986, 275-338).
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Fig, 23: Fig, Apc, Se, mf. 078, p. 808, Goruppi a Segre, 20 giugno 1974.
Fig, 24: Fig, Apc, Se, mf. 080, pp. 338-342, Nota sul viaggio in Romania, di Giorgio Napolitano, Roma, 9 luglio 1974.
Fig, 25: Fig, Apc, Documentazione classificata, Serie Esteri, b. 419, fasc. 92, riservato, Verbale dell’incontro Ceausescu-Berlinguer, 5-6 gennaio 1977.
Fig, 26: Fig, Apc, Se, mf. 8110, pp. 0143-0144, Nota di Gian Carlo Pajetta per la segreteria, Roma, 26 agosto 1981.
Fig, 27: Fig, Apc, Se, mf. 0331, p. 0988, nota per Berlinguer, Pajetta, segreteria, firmata Antonio Rubbi, per la sezione esteri, Roma, 8 agosto 1978, con cui si trasmette una nota di Ariemma.
Fig, 28: Fig, Apc, Se, mf. 0331, pp. 0989-0990, Colloquio con Gizela [sic] Vass del P.C. Rumeno, firmato Iginio Ariemma, Roma, 7 agosto 1978.
Fig, 29: Fig, Apc, Se, mf. 0427, pp. 1837-1839, Nota sulla visita in Romania, firmata Vannino Chiti, Firenze, 8 ottobre 1979; a mano: “segreteria”.
Fig, 30: Fig, Apc, Se, mf. 8012, pp. 0001-0003, Risoluzione della direzione del partito comunista italiano.
Fig, 31: Fig, Apc, Se, mf. 8012, pp. 0119-0122, Il comitato centrale del Pcus alla direzione del Pci, 5 dicembre 1980.
Fig, 32: Fig, Apc, Se, mf. 8102, p. 0163, riservato, nota per Berlinguer, Pajetta, Bufalini, segreteria, firmata Antonio Rubbi, per la sezione esteri, allegati il verbale dell’incontro con Ceauşescu steso da Mechini e una nota sugli incontri in Romania di Bufalini.
Fig, 33: Fig, Apc, Se, mf. 8102, pp. 0167-0171, Colloquio con il Presidente Ceaucescu [sic], firmato Rodolfo Mechini, Roma, 6 gennaio 1981.
Fig, 34: Fig, Apc, Se, mf. 8102, pp. 0163-0166, Verbale dell’incontro con Ceauşescu, firmato da Paolo Bufalini, s.d.
Fig, 35: Fig, Apc, Se, mf. 8002, pp. 0092-0101, Nota sui colloqui col compagno Ceausescu e con altri dirigenti del P.C. Romeno, firmata A. Minucci, Roma, 1 febbraio 1980.
Fig, 36: Fig, Apc, Se, mf. 8405, pp. 0043-0060, Colloquio Ceausescu-Berlinguer del 10/XII/1983.
Fig, 37: Fig, Apc, Se, mf. 8412, pp. 0296-0302, Nota per Bufalini, Gianotti, segreteria, firmata Antonio Rubbi, per la sezione esteri, Roma, 6 dicembre 1984, allegata nota di Bassolino e Vagli: Nota sul Congresso del P.C.R. (19-22 novembre 1984), firmata da Antonio Bassolino e Maura Vagli, Roma, 30 novembre 1984.
Fig, 38: Fig, Apc, Se, mf. 8412, pp. 0303-0307, Allegati alla nota sul XIII Congresso del PCR, firmato Antonio Bassolino e Maura Vagli, Roma, 30 novembre 1984.
Biografia
Biography
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- Per il presente saggio ho fatto in parte riferimento a Santoro 2007, 1119-1148. [↩]
- Partidul muncitoresc român (Partito operaio romeno), che nel 1965 riprese la denominazione originaria di Partidul comunist român (Partito comunista romeno, Pcr). [↩]
- “Orto”. [↩]
- Cit. in Höbel 2001, pp. 1163, 1170. Sulle relazioni fra Pci e Pcr nei primi anni Settanta, cfr. Pommier Vincelli 2005. [↩]
- Già nel 1966, Gian Carlo Pajetta, riferendo in una riunione della direzione del Pci sul suo viaggio in Romania, riconobbe che vi era “un gruppo dirigente vivace, giovane, che ha un consenso dovuto al fatto che si sta meglio di ieri”, ma aggiunse che era “difficile vedere” dove fosse la “radice socialista” di tutto ciò: Fig, 12. [↩]